Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la negazione, di ogni autorità, potere, dominio (su differenze e analogie tra questi concetti è ancora dirimente il saggio di Amedeo Bertolo, pubblicato nel 1983 e disponibile in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Elèuthera: “Il dominio è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri”). Ora, si può deridere questa idea come sogno utopico, chi invece vuole ragionare in maniera non banale, senza ripetere gli errori del passato, è obbligato a prenderla in considerazione.

Come fa questo libro che inizia con una definizione precisa dei termini “anarchia” e “anarchismo” e della loro storia, e una panoramica delle questioni politiche contemporanee che rendono necessario un ripensamento di questi termini e del loro potenziale emancipatorio. Malabou presenta la riflessione di alcuni filosofi proprio sulla questione del potere. “La mia analisi del dominio si concentra su sei pensatori cruciali per la filosofia contemporanea che hanno posto l’anarchia al centro della loro riflessione smarcandosi però dal suo esito, l’anarchismo politico. Ed è questo che accomuna l’anarchismo ontologico di Schürmann, la responsabilità anarchica di Lévinas, la decostruzione di Derrida, l’anarcheologia di Foucault, il potere destituente di Agamben e l’uguaglianza radicale di Rancière: l’aver attribuito all’anarchia filosofica un valore determinante, senza tuttavia giungere a destituire una volta per tutte il principio archico”, scrive l’autrice.

Malabou si chiede perché alcuni dei filosofi radicali del Novecento abbiano sviluppato concezioni forti di anarchia stando ben attenti a non dichiararsi anarchici, “rubando” – da qui il titolo – suggestioni e stimoli, spesso senza dichiararlo esplicitamente, al movimento ribelle nato tra la rivoluzione francese e i movimenti socialisti e di classe dell’Ottocento. Sembra quasi che l’anarchismo sia qualcosa di inconfessabile, qualcosa da occultare anche quando gli si ruba l’essenziale: la critica del dominio e della logica di governo. Questa dissociazione viene analizzata assieme alla rimozione di quello che è il nocciolo duro dell’anarchismo: la praticabilità politica dell’assenza di governo. Sebbene questi filosofi abbiano tutti concorso a smantellare il principio archico (il principio del dominio), nondimeno hanno costruito il loro discorso, nascondendo lo scippo da cui deriva e rifiutandone gli esiti.

Destituzione del paradigma archico, sì, decostruzione del dominio, sì, ma effettiva possibilità che gli uomini possano vivere senza essere governati né governare, no. Ma è appunto qui che il paradigma archico si riattiva, in questa incapacità di abbandonare l’ambito del governabile e di accedere invece allo spazio del non-governabile, ovvero del radicalmente altro, del radicalmente estraneo al rapporto comando/obbedienza.

Come ha tentato di fare l’anarchismo storico. Sostenere che l’anarchismo possa continuare a essere un movimento in continua trasformazione, che sappia trasformarsi e includere nuovi e vivaci contributi è probabilmente una – seppur ammirabile – scontata dichiarazione di volontà. Anche André Breton, che qualche stimolo all’anarchismo classico lo aveva offerto, sosteneva che il “suo” surrealismo sarebbe stato capace di inglobare in sé ogni movimento più emancipatore, ma poi non seppe vedere, anzi contrastò, la novità del situazionismo. Insomma, facile a dirsi, meno a farsi.

Il surrealismo è morto come movimento. Come sono morti tutti i movimenti, anche per l’anarchismo sarà così, infatti solo una convinzione religiosa (o identitaria, come direbbe Laplantine) potrebbe pensare il contrario. E anarchia e religione non sono mai andati molto d’accordo, si sa. L’importante è quello che lasciano in eredità per le lotte, quello che germoglierà dalle loro provocazioni a pensare e ad agire.

Si può notare in questo volume l’assenza di altri filosofi o pensatori che hanno sviluppato parte delle proprie teorie da intuizioni anarchiche. Ricordiamo almeno Paul K. Feyerabend, che in Contro il metodo coniò il concetto di anarchismo epistemologico (“giocare la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione”, senza alcun metodo precostituito), o Elias Canetti, che in Massa e potere sviluppa una critica incessante al concetto di comando (“chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina”). Si potrebbe andare avanti fino ad arrivare almeno a Dominio e sottomissione di Remo Bodei, singolare panoramica a partire dalla tradizione antica della schiavitù, che arriva al preoccupante uso dell’intelligenza artificiale. E – a proposito di “non detti” – come dimenticare altri classici del Novecento che si sostanziano di intuizioni anarchiche, dalla nozione di totalitarismo di Hannah Arendt, alla messa in discussione del principio identitario di Judith Butler e Francois Laplantine, all’immanenza an-archica del Mille piani di Deleuze e Guattari. Contributi a cui i movimenti libertari e antagonisti non possono rinunciare. Invece, nel saggio della filosofa allieva di Derrida, la mancanza di riferimenti al pensiero di Noam Chomsky è certo conseguenza della sua impostazione decostruttivista, ma rivela anche una difficoltà di confronto fra pensieri contemporanei.

Ma torniamo al testo di Malbou. Definendo il “paradigma archico”, il libro cerca di contribuire a un anarchismo che presupponga una rinnovata interrogazione del suo significato originario – l’assenza di governo – alla luce di letture dei filosofi che analizza. Il caos non è necessariamente dove ci si aspetta che sia. Il buon senso statale e il perbenismo vorrebbero che l’anarchia fosse sinonimo di disordine e l’anarchismo un’ideologia che nel peggiore dei casi è sinonimo di terrorismo e nel migliore di un dolce sogno a occhi aperti. Seguendo l’esempio dei pensatori anarchici, Malabou sostiene invece che il caos è inscritto nel potere statale. Lo abbiamo visto negli ultimi anni con la gestione della crisi sanitaria legata alla pandemia e con lo stato di degrado del sistema sanitario pubblico. Questo collasso è in gran parte il risultato dello smantellamento dello stato sociale sulla scia del neoliberismo, che ora è diventato ultraliberismo, ma anche del fatto che le organizzazioni gerarchiche esautorano la base della società, rendendola così permanentemente fragile.

Malabou si interroga anche su una coesistenza, fonte di confusione, tra quello che chiama anarchismo di fatto, che mira a eliminare lo Stato in una prospettiva individualista e privatistica, sinonimo di deregolamentazione estrema (uberizzazione) e capitalismo libertario, e quello che definisce anarchismo di coscienza, che percepisce attraverso esperimenti di auto-organizzazione come gli Zad (zone da difendere) o il movimento dei Gilet Gialli. Qui la nozione di classe, pur da ripensare e ridefinire, viste le mutazioni sociali ed economiche, è necessaria per chiarire ogni possibilità di confusione tra l’anarcocapitalismo e le tendenze libertarie dei movimenti di protesta degli ultimi anni. “L’ibrida combinazione di violenza governativa e illimitata uberizzazione della vita” appare sempre più egemonica. E, ovunque, le strutture di dominio, plurali e multiformi, sembrano irrigidirsi ancora di più.

“Paradigma archico” è dunque il nome di una “struttura che, agli albori della tradizione di pensiero occidentale, lega insieme sovranità statale e governo”. Non può esistere uno Stato senza governo, né un sovrano che si sottragga alla logica principale del governo: quella del comando e dell’obbedienza. È la logica di un certo modo di agire e di intendere l’azione, una logica egemonica che affonda le sue radici nel pensiero greco, in particolare aristotelico. All’origine della filosofia politica, come della stessa storia dello Stato, il comando riesce a fondare la sua logica solo se viene preso per un inizio: per l’origine vera e affermata, la prima, che a sua volta permette di giustificare la sua eminenza gerarchica. Come se ci fossero sempre stati ordini ed esecutori obbedienti. È stato Aristotele”, ci ricorda Malabou, attingendo alle analisi di Schürmann, che “fondando in un’unità indissolubile i due significati di inizio e di comando”, il concetto di archè, parola greca che significa “principio”, ha avviato il pensiero in tutte le sue dimensioni – logiche, ontologiche e politiche – sulla strada da cui non riusciamo ancora a districarci. Malabou: “l’anarchia perseguita l’archè non appena emerge, come la sua mancanza di necessità”. L’anarchia è l’assenza di principio, l’impossibile unione di principio e comando. L’ordine pratico, politico, statale è solo contingente: il paradigma archico è contingente, soggetto a un inizio storico che non può essere giustificato. Ha potuto aver inizio solo dominando e solo allora è stato in grado, con il pretesto di governare, di trasformare gli esseri non governabili in soggetti governabili.

Il non-governabile è diverso dal governo. Non è la sua inversione, il suo riflesso negativo. Non può essere amministrato, controllato o governato. L’anarchia, l’ingovernabile, assume spesso il volto della vita, ad esempio della vita animale: non si governa un animale, lo si domina. Allo stesso modo, il filosofo cinico, dice Malabou, attingendo alla potente interpretazione dell’ultima opera di Foucault, “è quell’uomo che non è disobbediente: ha ‘qualcosa in lui [che] è assolutamente estraneo all’ordine gerarchico’. E quel ‘qualcosa’ è la vita. Niente di meno della vita”.

Dovremmo dire che l’anarchia, e quindi l’ingovernabile, è la vita? Non esattamente: è ciò che, nella vita, testimonia un’alterità originale e irriducibile al paradigma archico. L’errore dell’anarchismo storico è quindi quello di aver fatto dell’anarchia un principio. Se l’anarchia non è un principio, è un punto di esteriorità, di alterità: il supporto da cui è concepibile un fuori, che sfugge alla circolarità infinita del governabile e dell’ingovernabile. È la Terra, o la vita, alla luce delle attuali questioni ecologiche: non possiamo governare la Terra, né la vita animale, né la vita vegetale. In questo senso, Malabou sostiene che “l’anarchismo deve costantemente testimoniare la sua realtà. Deve accettare che la sua dimensione incredibile – per la coscienza comune come per la coscienza filosofica – non potrà mai essere dissipata dal fatto, dall’attualità degli avvenimenti”. Un’idea inesauribile.

La società anarchica, che deve costantemente reinventarsi per sfuggire alla sclerosi, sembra impensabile, irrappresentabile. Ma, soprattutto, rimane l’oggetto di una preoccupazione viscerale, “l’identità dell’anarchismo e l’esperienza traumatica”, riassume Malabou. Rinunciare al governo significa accettare senza garanzie la “plasticità dell’essere anarchico” e l’imprevedibilità della vita, che duemila anni di pensiero politico hanno ribadito come necessaria per arginare la marea di impulsi morbosi e distruttivi. Nessun filosofo ha preso sul serio la possibilità che la vita senza governo possa svolgersi non come auto-annullamento ma come spontaneo “mutuo soccorso”, per citare Kropotkin. Ci vuole coraggio per fare il passo in più che Malabou ci invita a fare: il passo verso una società fondata sul “rifiuto di qualsiasi ordine” – che, forse, sta già bussando alla porta.

Dopo la lettura del libro, per iniziare un dibattito, si potrebbe rilanciare con un aspetto – la prassi – che Malabou volutamente non prende in considerazione: forse è vero quanto ha scritto nel 1985 sulla rivista Volontà 2 Paolo De Toni, anarchico, misconosciuto teorico dell’ecologia sociale (che ha sviluppato con e oltre Murray Bookchin): “Per agire politicamente non basta (e spesso non occorre) essere dei buoni filosofi, è necessario avere il senso dell’azione, e in questo caso il pensiero viene un istante dopo l’azione e non può assolutamente mai sostituirla. In questo senso va chiarito […] che l’anarchismo è in primo luogo ribellione. Tutto il resto viene dopo”.