di Luca Baiada

Stefano Caretti e Maurizio Degl’Innocenti (a cura di / edited by), Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini / Portrait by Images, Pisa University Press, Pisa 2023, pp. 188, euro 30.

 

Quattrocento immagini e alcuni commenti, in un volume frutto di ricerche in Italia e all’estero. Molto viene dall’archivio Matteotti, alla Fondazione Filippo Turati di Firenze. La mostra itinerante Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini contiene quasi tutto il materiale nel volume, più altre fotografie, oggetti, un filmato e un audio di Turati. Chi perde la mostra può rifarsi col libro, ma non vive l’immersione nelle grandi foto e il senso di profondità.

Toccanti, nella mostra, foto e girati coevi. Dopo il ritrovamento fuori Roma, la salma va in vagone merci da Monterotondo al Polesine e il governo cerca di impedire la presenza del popolo. I lavoratori in ginocchio, le donne col fazzolettone, gli uomini col cappello in mano hanno una forza straordinaria; sembrano presagire qualcosa, come animali che hanno fiutato il mattatoio, ma nei volti si legge l’oscura esigenza di una rivincita.

Le immagini nel volume accostano vita privata e pubblica. Più che di vita privata, però, su Matteotti dobbiamo dire vita affettiva, perché dagli scritti e dai fatti emerge un uomo che non si risparmia, che non distingue tra il suo vissuto e ciò che fa per gli altri. Il legame con la moglie, Velia Titta, è intellettuale e morale; insieme, certe lettere hanno una carica erotica travolgente, con pochi paragoni nel Novecento. Un’immagine di Velia, incantevole: ha gli occhi chiusi, sorride maliziosa sotto un largo cappello, l’abito è lungo ma il vento modella il corpo. Dietro, i ferri di un cancello rigano il futuro: vedovanza, persecuzioni per lei e per i figli, fine precoce. Ma qui, a vincere è l’amore.

Anche il legame col partito e coi lavoratori ha una convinzione sentimentale, senza astrazioni. In questa raccolta si legge:

La rilettura attraverso le immagini presenta non poche difficoltà, a cominciare dal rischio di riproporre una visione stereotipata fissata sul martirologio o addirittura sull’aristocratico isolamento del personaggio. A tal fine abbiamo voluto dare rilievo, oltre ai rigorosi studi di diritto penale, anche e soprattutto agli affetti familiari, agli interessi e alle attività nel tempo libero tanto di natura letteraria, artistica e teatrale, quanto sportiva.

Scopo raggiunto, tutto sommato, anche considerando che i curatori riferiscono la scarsità di materiale fotografico sull’impegno nelle leghe, nelle cooperative e negli enti locali. Si è rimediato con manifesti e altro: l’insieme funziona, anche se mette in ombra alcune cose. Per esempio il talento contabile, che nelle verifiche dei documenti preoccupava anche le amministrazioni di sinistra. Il socialista aveva funzioni in municipi diversi e tallonava tutti. Attualizzando: sarebbero bastate poche decine di Matteotti nei posti giusti, negli anni Settanta e Ottanta, a tagliare le unghie a Craxi e alla sua cricca, senza dover aspettare Mani pulite. I giuristi seri è bene ascoltarli prima che averne bisogno dopo, nelle aule giudiziarie, quando i demagoghi ne approfittano.

La contrarietà alla Grande guerra è anch’essa per immagini: foto e manifesti. Matteotti, esentato dal servizio, fu richiamato lo stesso. Si illusero, di fermarlo: in zona di guerra faceva politica. Trasferito in Sicilia (più retrovia di così…), alfabetizzava soldati e bambini. L’intuizione del politico, che era anche giurista ed economista, fu svelta: la guerra avrebbe spostato la ricchezza verso gli abbienti, contro le sudate conquiste del movimento socialista; poi avrebbe favorito le destre armate, e le dure condizioni imposte alla Germania avrebbero contribuito a nuovi conflitti. La consapevolezza che guerra chiama guerra smentiva il mito ingannevole: l’«ultima guerra», lo scontro per la giustizia sociale, la fine del militarismo, la pace perpetua. Matteotti:

[L’internazionale socialista dovrà] tentare o favorire ogni iniziativa che dirima i conflitti tra i popoli, li associ con vincoli pacifici, eviti o faccia cessare le opposte violenze e minacce. Dovrà favorire il formarsi di una vera Lega delle Nazioni, e più immediatamente degli Stati Uniti d’Europa, che si sostituiscano alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali[1].

Tra le fotografie c’è la copertina di Un anno di dominazione fascista, preparato nel 1923 e pubblicato nel 1924, poco prima della morte. In questo volume il prezioso libro non è valorizzato. Peccato.

Un anno di dominazione fascista spazia dal lavoro alla burocrazia, dalla giustizia al sistema tributario, dall’abuso dei decreti-legge alle autonomie locali, dalle forze armate alla contabilità dello Stato, dai lavori pubblici alla scuola, sempre con rilievi circostanziati. L’autore è preparatissimo, convincente. Denuncia anche il rischio di «una riforma costituzionale sul tipo del cancellierato prussiano», e oggi, con gli attacchi alla Carta costituzionale e con la devastante voglia di padrone, quel testo è doveroso.

Attenzione. Nell’edizione originale del 1924 le denunce delle malefatte fasciste (in campo legale, amministrativo, fiscale, militare, contabile eccetera) erano stampate prima, seguite dall’elenco delle azioni squadristiche; per lo più, nelle riedizioni l’ordine è stato ribaltato. Errore, forse inconsapevole complicità, infine conformismo. Ancora adesso l’assassinio, preceduto di qualche mese dalla pubblicazione di Un anno di dominazione fascista, e solo di giorni dal famoso discorso alla Camera, è troppo schiacciato sulla denuncia delle violenze, come se non fossero state già evidenti. Il fatto che i fascisti siano ladri, falsari, corrotti, sfruttatori, eversori, pessimi amministratori scivola in secondo piano. Quel libro del 1924 documenta la realtà così bene che Roberto Farinacci, difendendo uno dei sicari, lo mette fra le colpe di Matteotti, ricorda solo le denunce dei fatti di sangue e invoca per l’assassino l’attenuante della provocazione:

Pubblicò un opuscolo dove aveva elencato le più spudorate menzogne, per far sapere all’estero che il primo anno del governo fascista fu un anno di terrore e distruzione. Questo opuscolo venne tradotto e diffuso con un manifesto in cui il fascismo era rappresentato in un pugno che stringe un pugnale grondante di sangue[2].

Va aggiunto che Matteotti stava lavorando a un approfondimento specifico su affari indicibili, ad alto livello, legati al petrolio, con implicazioni all’estero e con lucro di Mussolini o suoi familiari[3]. Purtroppo Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini non si distanzia dalla versione tralatizia. Il movente per eliminare il coraggioso socialista è stretto in queste parole: «Il 30 maggio 1924, nel celebre discorso alla Camera dei deputati, Matteotti denunciava i brogli e il clima intimidatorio che avevano contraddistinto la consultazione elettorale». Il rapporto col libro del 1924 è tutto qui: «Quando venne ucciso stava attendendo alla stesura della seconda edizione aggiornata, intitolata Un anno e mezzo di dominazione fascista».

Anche un libro per immagini ha i suoi doveri. Le serie causali, in ogni vicenda, sono il punto critico in cui si inseriscono sviamenti e distrazioni: nel delitto Matteotti il nesso fra da un lato denuncia di brogli elettorali e violenze, dall’altro assassinio, è una spiegazione limitata: bisogna inquadrare meglio l’accaduto e farne tesoro. Per combattere i nemici della democrazia bisogna coglierli nelle loro ruberie, nelle rapine contabili e salariali e finanziarie e previdenziali, ai danni dei lavoratori e dei piccoli risparmiatori, come nei loro compromessi spregiudicati. Oggi Matteotti non denuncerebbe smorfie e smanie di chi è al potere; troverebbe e spiegherebbe, per esempio, sia le prove dell’accordo fra la Lega e il partito di Putin, sia quelle della sudditanza alle peggiori scelte della Nato, nel governo e nell’opposizione. Proporrebbe, come dopo il 1918, una giustizia internazionale basata sugli interessi dei lavoratori, cioè una pace costruita sull’equa distribuzione delle risorse, che all’epoca era espressa dalla regolamentazione dei debiti e dei crediti, e che oggi vuole anche attenzione all’ambiente.

L’iconografia personale è varia. Una posa sportiva lo mostra composto ma civettuolo; è su una montagna innevata ma potrebbe essere in salotto o nella pausa di una riunione di lavoro. Nell’istantanea giovanile, in giardino, il ragazzone vuole già dirci la sua su molte cose, ma la convinzione deve trovare i mezzi per venir fuori, e Giacomo non sa dove mettere le mani. Voleva tanto mettersele in tasca, sta per stropicciarsele o per stuzzicarsi le unghie: in questo periodo si sta formando il giurista; la giacca ha qualcosa di sformato, mostra un alone di fatica: è una patina piegaticcia inconfondibile, quella che solo la frequenza di lezioni e biblioteche stinge su un divoratore di libri.

Esiste una fotografia con una consistenza fuori dal tempo, riprodotta su biglietti e manifestini dopo il delitto. È presente anche su un cartoncino indirizzato alla vedova, riportato nel volume. La foto parla di lui e dei compagni che la vollero come icona memoriale. L’uomo sembra intravedere il suo destino e guardare oltre, lontano, dietro chi lo osserva; non so se proprio per questo la fotografia sia stata scelta, dopo, o se invece la scelta abbia impresso sull’immagine un suggello. Leonardo Sciascia nota la particolarità di quel viso, in un altro biglietto, e lo guarda dallo slittamento della narrazione a una vicenda del 1937:

Era un’immagine che, tredici anni prima, giornali, manifesti e cartoline avevano come inchiodato nella memoria degli italiani che avevano memoria, nel sentimento degli italiani che avevano sentimento. Questa, proprio questa: un volto sereno e severo, ampia fronte, sguardo pensoso e con un che di accorato, di tragico; o forse con quel che di tragico aveva poi conferito alla sua immagine da vivo la tragica morte[4].

Il dubbio ci dice che i protagonisti dello scatto siamo noi, noi che guardiamo, perché solo noi possiamo porci questa domanda. L’immagine è insieme un ritratto d’autore, un testamento, il rovescio di una foto segnaletica e un atto di accusa.

Preso in un esterno, il politico è consapevole del suo ruolo. Sta riflettendo su un programma, un’iniziativa, e la busta che porta con sé ribadisce la sua attenzione ai dati, alle prove. Non potranno coglierlo impreparato. Stringe le labbra, sa che c’è da gridare e che bisogna farlo al momento giusto. Non farà sconti a nessuno, non si risparmierà, sa bene cosa deve dire e come deve farlo. È talmente forte, determinante nella storia del paese, che qui ha finito per occupare tutto il campo: si intuisce che l’immagine viene da una foto più ampia, che non riesco a individuare. Il ritaglio è anch’esso un fatto espressivo.

Diverso il dipinto di Maria Vinca, delicato ma fuorviante: Matteotti prende un che di fanciullesco e quasi di distratto. L’opera è stata realizzata dopo l’assassinio, e l’insieme, appena velato di garbo e di distanza, coglie solo una parte della personalità del socialista, perché a prendere il sopravvento è un affetto elegante, sincero ma con alcune venature di raccolto intimismo.

Dopo quel ritratto, nel libro, Matteotti sparisce; si ripresenta più in là, trasfigurato. Qui è un eroe, l’aspetto è nobile e triste, lo sguardo è più quello di una vittima che quello di un combattente; i rami intorno sono d’olivo e di spine: pace e martirio.

Nell’ambito della mostra allestita a Pisa, al Museo della grafica, Palazzo Lanfranchi, a marzo c’è stato un incontro su Matteotti giurista, con accademici di alto profilo. L’attenzione alle sue qualità dottrinarie, però, ha trascurato la necessità di smascherare la gentaglia leguleia che avvelenò quegli anni, con conseguenze che si pagano ancora. Qui non colmo la lacuna ma segnalo qualcosa.

Anzitutto viene in aiuto Silvio Trentin, giurista d’eccezione: ha davanti una carriera accademica, ha famiglia, ma nel 1926 si dimette e va in Francia a fare il contadino e il manovale. Trentin è un eretico: rivoluzionario fra i liberali, uomo di legge fra i ribelli. Nel suo La crise du droit et de l’État, del 1935 ma pubblicato in Italia solo nel 2006, condanna i giuristi che chiama «adoratori dei testi»:

Si tratta di interpreti con i paraocchi, il cui campo visuale non oltrepassa mai i limiti arbitrari stabiliti dall’onnipotenza del legislatore di fatto; dei tecnici al servizio dell’ordine contingente che aborriscono l’idea stessa di un vuoto di legalità; degli specialisti fatti e finiti che rifiutano a priori al loro mestiere ogni autonomia anche virtuale, e che si preoccupano solo di non evadere dallo stretto recinto di un codice o di una formula giacché non compete loro discutere il fatto legislativo sottoposto alla loro analisi[5].

Trentin se la prende con un monumento, Santi Romano, e col suo L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e il carattere del diritto, del 1918:

[Sono] aberrazioni alle quali un giurista può essere portato quando, disdegnando ogni controllo della realtà e collocandosi da un punto di vista puramente logico, pretende di spiegare il diritto come un susseguirsi incatenato di deduzioni necessarie. […] È difficile, credo, trovare nella letteratura giuridica un esempio più significativo, più eclatante, di cecità, di partito preso «positivista»[6].

Poi cita un altro barone accademico, il fascista Giorgio Del Vecchio, e conclude il capitolo: «Non esiste prigione in cui si possa rinchiudere lo spirito; non esistono potenza o patibolo che possano giustiziarlo»[7]. Trentin, però, non immagina finestre d’ingiustizia che possano schiudersi sui corpi: da una finestra dell’Università di Roma, facoltà di giurisprudenza, istituto di filosofia del diritto, fondato da Del Vecchio e con una biblioteca intitolata a lui, nel 1997 parte il colpo che uccide Marta Russo, e i due che saranno condannati sono in carriera universitaria, anche come giuristi. Dopo quel crimine, la parte peggiore del mondo giuridico dimentica la giustizia e reagisce al sangue con un groviglio di dottrina cervellotica, coscienza azzerata e cameratismo sottinteso. Proprio il veleno che Matteotti, Trentin e i migliori giuristi del Novecento hanno combattuto.

È un concentrato tossico Alfredo Rocco, presidente della Camera nell’ultima seduta con Matteotti, quella famosa; il socialista viene interrotto e minacciato, ma il servo di Mussolini non si vergogna di suggerirgli i suoi modi abituali, di invitarlo a inchinarsi:

Presidente. Onorevole Matteotti, se ella vuol parlare, ha facoltà di continuare, ma prudentemente.

Matteotti. Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente![8].

Più carogna, Vincenzo Manzini. Scrive un saggio sulla recidiva nel 1899; poi Matteotti ne scrive un altro (La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici, 1910) e Manzini è cortese come un manganello: «Matteotti si limita a ruminare le idee dello Stoppato [un accademico] in tutto ciò che non costituisce pedestre indagine statistica»[9]. Manzini scende ancora più in basso, perché dopo il delitto scrive una prefazione al testo dell’arringa di Farinacci in difesa di uno degli assassini; vi si legge:

Queste stragi di disinteressati fautori di un’idea [si riferisce all’eliminazione di fascisti], in tempi di roventi lotte politiche, valevano bene l’uccisione d’un deputato, capo-partito, che della politica faceva professione esclusiva, ritraendone onori e vantaggi, e che da se stesso si era posto in condizione di vivere pericolosamente. Ma politica e malafede sono spesso la medesima cosa, e questo spiega il perché della frenetica speculazione sulla morte del Matteotti; morte che si volle considerare, non quale un incerto del mestiere di demagogo, ma addirittura come un attentato contro il popolo[10].

Così sono i giuristi peggiori: in vendita, o schematici, o pietrificati. Matteotti li ha già individuati da vivo e si è posto il problema in linea generale, risalendo la corrente in cerca della fonte torbida: chi è il giurista? come si forma? Domande che ancora adesso non hanno risposte convincenti. Lui va al cuore del problema, preoccupandosi della quantità, quando chiama i laureati in legge «esuberante sfornata annua di giurisperiti»[11], e soprattutto guardando alla qualità:

Quella enorme fabbrica di spostati, che è attualmente la facoltà di legge […], moltiplicata per tutta Italia in modo uniforme, fabbrica così i magistrati, come gli avvocati, come tutti gli impiegati statali, con una cultura che è tutta posticcia, formalistica, proceduristica, anziché cultura di amministrazione, di economia, di geografia, di tutto quello che occorre oggi nelle grandi amministrazioni pubbliche[12].

Per sentire come si lavora per la società, guardando alla sostanza e unendo diritto, contabilità e amministrazione, ecco lui, alla Camera nel 1921:

Alla fine della guerra, quando tutta l’economia nazionale era sconvolta, e quando le entrate non coprivano più le spese, alle vostre amministrazioni moribonde [borghesi e regie] deste la facoltà di far debiti, cosicché tutto il peso ricadde sulle nuove elette. Or devono le amministrazioni socialiste provvedere a codesto sbilancio? E provvedono con tasse sui signori. Ma costoro preferiscono di armare il fascismo, poiché pagare non vogliono![13].

È chiaro. Il fascismo ha una sua coerenza: al padronato conviene pagare gli squadristi per non pagare le tasse. Da ricordare, adesso, se chi è al governo le paragona al pizzo.

Tornando al volume, le vignette sono imperdibili. Per esempio, Mussolini cerca carponi il colpevole e lo trova in uno specchio; oppure, lo spettro di Matteotti, sereno col pugnale nel petto, turba il sonno del dittatore. È riprodotto anche un murale di Diego Rivera; vi si riconosce il socialista in un addensamento che ha l’incalzare di George Grosz.

L’ironia più sferzante denuncia l’ingiustizia, il rovesciamento dei fatti e l’impunità, conseguenze della dittatura, delle manovre mussoliniane e del processo, addomesticato e celebrato lontano, a Chieti. La vignetta ci riporta ai giuristi e l’immagine è accompagnata da queste parole:

Presidente: Giacomo Matteotti?

Matteotti: Presente!

Presidente: Siete accusato di avere col vostro contegno convertita una beffa in una tragedia e di esservi nascosto, dopo il delitto, nella macchia della Quartarella causando grave pericolo al regime.

L’orrore espressionista inchioda i servi togati del potere alle loro responsabilità. Quanto al comportamento dei giuristi nel processo sul delitto Matteotti, comprese ipocrisie e vigliaccherie dei magistrati – ma qualcuno tenne la schiena dritta – , è stato approfondito dalle migliori ricerche[14].

Per spigolare nella formazione del socialista, la raccolta contiene dati sulle letture, e viene voglia di ripercorrerle. Ecco L’impero della morte di Vladimir Korolenko, La débâcle di Émile Zola e le opere di Romain Rolland, compreso il Jean Christophe caro agli antifascisti anche durante la Seconda guerra mondiale[15]. Poi il De rerum natura, e ancora le poesie di Shelley. Sulle letture esistono anche altre fonti, come l’intervento di Matteotti, a sue spese, per la biblioteca popolare di Fratta Polesine[16]. È un uomo profondo, con radici nella classicità e nella modernità. Non sappiamo come si crea una persona così, e le biblioteche non bastano a insegnarcelo. Sappiamo che Matteotti ci manca, e tanto.

 

 

[1] Massimo L. Salvadori, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Donzelli, Roma 2023, pp. 119-120, che cita Giacomo Matteotti, Direttive del Partito socialista unitario, in «La Giustizia», 1923, in Giacomo Matteotti, Sul riformismo, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1992, pp. 362-79.

[2] Roberto Farinacci, Il processo Matteotti alle Assise di Chieti, Società Editoriale Cremona Nuova, stab. tipografico, 1926, p. 22.

[3] Fa riferimento al petrolio il memoriale di uno dei sicari, Amerigo Dumini, del 7 gennaio 1933, in Paolo Paoletti, Il memoriale Dumini, «Il Ponte», XLII n. 2 (marzo-aprile 1986), pp. 76-93.

[4] Leonardo Sciascia, Porte aperte, Adelphi, Milano 2009, pp. 14-15.

[5] Silvio Trentin, La crisi del diritto e dello Stato (tit. orig. La crise du droit et de l’État, L’Eglantine, Paris-Bruxelles 1935), Gangemi editore, Roma 2006, p. 59.

[6] Ivi, p. 6 e pp. 286-287.

[7] Ivi, p. 290.

[8] Giacomo Matteotti, Contro il fascismo, Garzanti, Milano 2019, p. 44.

[9] Giacomo Matteotti, Scritti giuridici, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 2003, p. 11, nota 17, che cita Vincenzo Manzini, in «La Giustizia Penale» XVI, 1910, pp. 1343-1344.

[10] Vincenzo Manzini, prefazione a Farinacci, Il processo Matteotti alle Assise di Chieti, cit., p. IV.

[11] Giacomo Matteotti, Sulla scuola, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1990, pp. 126-127, che cita Giacomo Matteotti, Spunti universitarii, paragrafo Troppi avvocati, in «Critica Sociale», XXIX, n. 11, 1-15 giugno 1919.

[12] Matteotti, Sulla scuola, cit., pp. 214-217, che cita un ordine del giorno, Camera dei deputati, XXVI legislatura, 1ª sessione, discussioni, 1ª tornata del 14 giugno 1922. L’ordine del giorno è approvato, ma in seguito il governo fascista istituisce altre università; Matteotti lo denuncia in Un anno di dominazione fascista.

[13] Intervento del 31 gennaio 1921, in Matteotti, Contro il fascismo, cit., p. 25.

[14] Per esempio, Costantino De Robbio, A margine del processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime, in «www.giustiziainsieme.it», 6 aprile 2024.

[15] La lettera del cecoslovacco Kurt Beer, che pensa al Jean Christophe di Romain Rolland, è in Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, con prefazione di Thomas Mann, Einaudi, Torino 2017, p. 166.

[16] Matteotti, Sulla scuola, cit., p. 24, nota 25, che indica fra gli altri Flaubert, Daudet, Zola, Bourget, Ibsen, Turgheniev, Pirandello, Serra, De Amicis, Beltramelli, Oietti.