di Vincenzo Mele

[Concludiamo il ricordo di Vincenzo Mele, il collaboratore di Carmilla morto nel 2005 a soli diciassette anni, con un altro suo racconto.]

Prologo

Quando gli chiese se credesse o meno anche a quello che non poteva vedere, ovviamente non capì. E quando gli accennò della polvere che poteva muovere le anime, ne rise fino a lacrimare. Poi, come delle scimmie sui rami, saltellarono da un discorso all’altro. Erano entrambi ubriachi.

La settimana dopo lo invitò a Crozzanìa. 

1

Il paese di Crozzanìa se ne stava disteso in riva al mare come un gatto in preda al rilassamento più totale, e il vastissimo regno azzurro del Mediterraneo era solo una delle opportunità di cui quel gatto sonnacchioso poteva usufruire. Vedendolo dalla macchina, mentre percorreva l’autostrada, gli ricordò un po’ quel paese lontano nella sua memoria dove aveva trascorso le vacanze da bambino, un suggestivo agglomerato di case e costruzioni pubbliche non tanto grande da essere una città, ma nemmeno abbastanza piccolo per essere considerato un paesello di provincia. Crozzanìa aveva gli edifici bianchi, le strade ricoperte di ciottoli marroni, e gli sembrava già un bel posto. Mentre dava un’ennesima occhiata al pezzo di carta su cui aveva appuntato l’indirizzo di Drago, infilò lo sbocco che portava fin dentro al suo cuore.

Via Impestati offriva uno scorcio bugiardo del paese. Era chiusa in un modesto viacolo di abitazioni i cui padroni si conoscevano tutti, legati per la maggior parte da una corda di parentele più o meno strette sui cui i forestieri, come ancora li chiamavano i vecchi, avrebbero in genere potuto decidere di impiccarsi. La via era tagliata in due da uno stradone asfaltato solo per metà e solo in prossimità delle case le cui famiglie avevano avuto voglia e denaro per poterselo permettere. L’inizio dello stradone accolse le gomme dell’Alfa Romeo di Renzo facendolo sobbalzare dentro l’abitacolo. Un paio di bambini in costume da mare calciavano pigramente un pallone di spugna, con tutta l’aria di essere lì solo per vedere chi era arrivato. Renzo abbassò il finestrino e l’interno dell’automobile fu sommerso da una vampata d’aria bollente che gli fece rimpiangere la frescura del condizionatore acceso.

“Ciao bambini, sapete dirmi dov’è la casa di Giorgio Draghetti?” chiese ai piccoli sporgendosi un poco fuori.

“Si, Drago abita in questa casa qui” rispose il più grande dei due che nel frattempo aveva perso tutto l’interesse per il pallone. Renzo spense il motore e smontò fuori, quando vide farglisi incontro la bizzarra chioma e  l’intera esile figura di Drago.

2

Giorgio Draghetti era un pescatore di 35 anni, con una nera zazzera ricciuta in testa e il fisico asciutto, quasi malaticcio, con solo i bicipiti in rilievo a dimostrare il suo tenore di vita e di lavoro. Viveva per il mare, disinteressandosi a ogni altra attività o passatempo. Quando lavorava lo faceva in mare su un peschereccio di sua proprietà, su cui caricava quello che le profondità gli offrivano. Nel tempo libero saliva su una piccola barca, poco più di una canoa di legno, e si lasciava trasportare dalle onde che si increspavano sotto di lui, impegnato per lo più a mangiare, bere, leggere, dormire.

Lui lo conosceva da un paio di mesi, da quando per lavoro Draghetti s’era dovuto trasferire in città. Gli era subito sembrato un tipo insofferente per la costrizione di vivere in un posto che non era il suo. Ma Draghetti aveva ben presto capito che anche al di là del cemento e del frastuono incessante del traffico cittadino si trovava il Mediterraneo, l’oceano e tutto quello che con sé portava. Fino al momento in cui parlò al bambino aveva creduto di essere il solo a chiamarlo Drago, ma evidentemente si sbagliava. Drago camminava piano lungo il vialetto d’ingresso di quella che era a tutti gli effetti una villetta ideale per le vacanze.

Drago gli fece entrare la macchina dentro la proprietà, dove non c’era un vero e proprio box ma una piccola tettoia di legno sotto la quale sistemare l’auto.

Dopo che si furono salutati e che Renzo si fu ristorato con una doccia fresca dietro casa, Drago lo fece sedere a un tavolo di plastica su cui erano allineate quattro bottiglie di birra imperlate di una condensa che trovò irresistibile al tatto. Quelle goccioline d’acqua trasudate dal vetro erano solo una minuscola anticipazione di ciò che il sapore frizzante e schiumoso della birra gli avrebbe presto offerto.

“Sono contento che tu sia potuto venire” disse Drago riempiendo il bicchiere di birra, tenendolo inclinato per non permettere alla schiuma di lievitare. “In questa casa le estati passano troppo lente, tutti gli anni.”

“Ehi a me piace con la schiuma” protestò Renzo, che nel frattempo tracannò una lunga sorsata direttamente dalla bottiglia. Drago rise e svuotò il bicchiere d’un fiato, imitando poi l’amico.

“Come vedi qui le cose sono organizzate alla spartana, è tutto plastica e materiale del genere, bicchieri, piatti, tavoli e sedie, tutto. Solo la casa è di pietra e ti assicuro che il mattino presto ringrazierai  mio nonno per averla costruita così. Il caldo non riesce a entrare molto bene quando deve superare mezzo metro di pietre dure.”

Parlava lentamente, con fare quasi meditativo, come se potesse spostare il tempo in una dimensione in cui perdeva di importanza.

“Vieni, ti faccio vedere dove tengo il barbecue” enunciò alzandosi. Una macchina passò sfrecciando e alzando una cappa di polvere visibilmente rossiccia che nessuno potè fare a meno di respirare. 

3

Aveva ancora nelle ossa il timbro duro del legno levigato dal mare, e nel mezzo del cervello conservava quel senso di movimento, di galleggiamento, che si prova nello stare ancorati in mezzo al mare con l’orizzonte di un’isola come unico punto di riferimento per gli occhi. Anche sul letto morbido, forse troppo, della sua camera poteva credere di essere ancora sulla barca di Drago, come appena un’ora prima. E il vago sentore di birra, bevuta in mare, che gli restava in bocca come un piacevole retrogusto, non potè che rafforzare quella sensazione. La sua camera era sopportabilmente piccola, ma al buio le cose cambiavano. Attraverso il bagno di luce lunare la stanza sembrava  dilatarsi, allungarsi verso qualcosa. Qualcosa che gli sfuggiva.

Le  mura sembravano alte il doppio e la finestra era come vista attraverso una specie di grandangolo, e Renzo pensò che sicuramente era solo il filtro dell’alcol a dargli questa percezione. Quando si rese conto che gli  stava venendo mal di testa e che probabilmente aveva esagerato col bere, sprofondò nel sonno come farebbe un soldatino di piombo posato sul burro. Sopra di lui, a permeare l’intero spazio di quella stanza, vorticavano minuscoli granelli di polvere.

Spazi aperti e lo sbattere rilassante delle onde sul bagnasciuga erano le uniche cose che percepì al risveglio. Dita di brezza gli carezzavano la pelle della schiena, scoraggiando qualsiasi movimento che potesse portare un po’ di calore. Sotto i palmi delle mani centinaia di granelli di sabbia gli graffiavano le zone sensibili tra le linee.

Poi aprì gli occhi e si accorse di trovarsi ancora sul letto, a casa di Drago.

Cercò di non disperdere i postumi di quel sogno, di non lasciarli evaporare. Vide che erano le 8.00 del mattino e s’accorse che la temperatura era fresca, molto piacevole. Dalle persiane dischiuse, lame di luce trapelavano fastidiose per gli occhi. Renzo si alzò e girò lo stesso la maniglia che le separò completamente. La camera fu invasa dal sole giallo, che baciò muri, lenzuola e cuscini.

Nessuna foglia pareva muoversi e, apparentemente, l’unico essere umano che faceva qualsiasi cosa che non fosse dormire, era Drago. Lo vedeva seduto su una sedia rossa nel cortiletto cementato, immobile, assorto in chissà quali pensieri, con lo sguardo fisso in un punto imprecisato. Le braccia gli ricadevano molli appoggiate ai braccioli, le gambe appena spinte in avanti. In terra era posato un contenitore in pelle simile a uno per sigari, ma molto più grande. Sulla sinistra stava in piedi una bottiglia d’acqua, ormai scaldata dal sole.

Drago non si muoveva.

L’unica cosa che faceva era respirare.

Renzo doveva ancora svegliarsi del tutto. Ripensò al sole che gli scaldava la pelle, nel sogno. La sabbia che gli solleticava le mani. Non fece caso a Drago, e si preoccupò solo di lavarsi dalla faccia e dal corpo quel torpore. Prima di bagnarsi le mani non vide che i palmi erano tempestati da piccoli granelli di polvere.

Si vestì e uscì fuori. Trovò Drago in piedi, davanti alla porta d’ingresso. L’espressione fissa a vacua gli era sparita dal volto, sostituita da quella di sempre.

“Sei pronto per il mare?” chiese gioviale, con un lieve sbarluccichìo negli occhi. Renzo disse di sì, ma non potè fare a meno di notare gli abiti completamente impolverati di Drago. 

4

Il mare era stato tonificante, gli aveva rigenerato nervi e spirito. Aveva respirato un’aria talmente pura che sentiva i polmoni sgombri da smog e fumo come dopo un mese di montagna d’alta quota. Lo stomaco vuoto gli trasmetteva immagini di piatti di pasta grondanti pomodoro e spolverati di formaggio. Prepararono degli spaghetti e gli sembrarono subito gustosissimi.

Solo che che, una volta seduto, Renzo non riuscì a reprimere una smorfia di disgusto di cui fortunatamente l’amico non si accorse. La tovaglia plastificata era ricoperta, quasi per intero, da uno strato uniforme di polvere bianca e finissima. Polvere sui bordi dei piatti, polvere sulle sedie, polvere nell’aria.

Renzo starnutì un paio di volte. Drago aveva girato nella forchetta la terza matassa di spaghetti, con qualche granello di polvere che rimase attaccato sui rebbi della posata e sulla pasta che prese a masticare. Il suo sguardo si posò sulle mani di Renzo, ferme a mezz’aria per non toccare la tovaglia.

“Oh, ma che fai, non mangi?” gli domandò. Renzo era disgustato dalla sporcizia, ma non voleva imbarazzare l’amico. Si sporcò le mani di polvere arrotolandosi gli spaghetti e mangiò.

In bagno si lavò i denti per più di dieci minuti, con dentifricio abbondante e numerosi sciacqui di colluttorio. Tenne le mani sotto il getto di acqua fredda fino a quando non gli diventarono rosse e intorpidite. Poi si sdraiò sul letto, o almeno ci provò.

Il copriletto era pieno di polvere.

Con un gesto di stizza tolse le lenzuola dal materasso. Ci fu in uno sbuffo di polvere che gli si insinuò nelle narici, facendolo starnutire tre volte. Attraverso la retina di lacrime, messagli in entrambi gli occhi dal forte accesso di starnuti, trovò delle lenzuola pulite in un cassetto e le apparecchiò sul materasso.

Dormì per circa un’ora e mezza.

Si svegliò tossendo e in preda a nuovi starnuti. Muovendo gli arti sul copriletto cambiato da poco, se li sentì graffiare leggermente. Come se avesse fatto il contropelo a un cane rasato da poco.

Polvere dappertutto. Sui cuscini, sulle lenzuola, ovunque.

Renzo soffocò una bestemmia, scagliandosi via dal letto. Cadde in ginocchio e picchiò la rotula destra sul freddo pavimento di ceramica. Si accorse che la sua t-shirt era letteralmente invasa da minuscoli granelli e filamenti bianco-grigi, come se non venisse lavata da anni. Gli short erano nelle stesse condizioni. Schizzò in bagno spogliandosi e poi sotto la doccia.

Fuori, Drago era seduto al buio. La bottiglia alla sinistra e la misteriosa custodia alla destra. Renzo trasalì quando vide che, vicino alla custodia, era stata sistemata un’altra sedia.

Una sedia per lui.

Non capiva perché provasse quello strano turbamento, ma il tremito che gli tamburellava nello stomaco era inequivocabile. “Drago cosa fai?” riuscì a chiedere con un notevole sforzo. All’imbrunire il volto del suo amico acquistava una nota sinistra che gli dimagriva le guance e gli alzava gli zigomi

“Siediti” gli disse Drago con voce calmissima. “Guarda che bello.”

Renzo si guardò intorno senza vedere nient’altro che lo stradone, completamente vuoto. Fissò nuovamente gli oggetti. La custodia in pelle, la bottiglia d’acqua      e la sedia. Stavolta si accorse però che erano abbondantemente impolverati. Cercò di distogliere lo sguardo, e cercò di distogliere la mente.

Alla fine si sedette.

“Ma cosa…” balbettò senza poterselo impedire. Le parole seguivano le orme dei suoi pensieri, che sbattevano nel cranio in un turbine di confusione. “Cosa fai lì seduto, Drago?” riuscì infine a domandare.

L’amico rimase a fissare quel vuoto, che evidentemente lo affascinava tanto. “Aspetto” rispose in un tono simile allo struggimento.

“Cosa?” chiese Renzo, la voce incrinata. “Cos’è, che stai aspettando?”

Adesso il suo amico gli sembrava così diverso, così strano. Ma Giorgio Draghetti non si curò di nulla e candidamente disse: “È  così bello, Renzo. Guarda. Non spaventarti, non ce n’è motivo. Lasciati andare.”

Renzo rimase impietrito. Drago era immobile, un vegetale nel silenzio fermo di Via Impestati.

Non voleva rimanere lì.

Voleva prendere le chiavi e saltare in macchina per lasciarsi quegli ultimi giorni alle spalle. Tornare a casa. Dimenticare. In mezzo al cemento.

Ma non lì.

“Lasciati andare, Renzo. Lasciati guidare” chiedeva Draghetti, quasi supplicando.

Renzo tese i muscoli delle gambe nel tentativo di alzarsi dalla sedia impolverata. Poi diede un’occhiata al punto in cui guardava Drago.

Involontaria.

All’inizio non ci vide niente. E niente era esattamente ciò che era.

Niente.

Poi avvertì dei movimenti, ma non vide nulla muoversi. C’era solo il vialetto sporco della casa del vicino. Solo vegetazione mal curata e un vecchio cane accucciato sulla strada. Nemmeno un bambino fuori a giocare, nemmeno una donna in costume pronta a raggiungere il mare. Eppure c’era anche dell’altro, nascosto. Il suo ritmo di respirazione si era tranquillizzato e i suoi muscoli rilassati. Era successo tutto lentamente.

Adesso stava solo guardando. Non faceva nulla di male.

C’erano milioni, forse miliardi di granelli di polvere a volteggiare sopra, sotto e intorno a lui. Ognuno gli sembrava un piccolo pianeta nella rotazione sconosciuta delle cose. Guardare non era una cosa cattiva.

Nemmeno aspettare.

Quando si riscosse provò un forte desiderio di lavarsi, di gettarsi sotto un potente flusso di acqua bollente che gli avrebbe reso insensibile la pelle e anestetizzato i pensieri. Si sentiva sporco in modo insostenibile. Arrivò al box-doccia sentendosi in colpa, quasi come se stesse scappando da qualcosa. Mentre l’acqua gli scorreva addosso, e gli distendeva un po’ i nervi, fissò il vorticello che si creava ai suoi piedi. Nei suoi gorghi vorticavano granelli di polvere come microscopiche balle di fieno in mezzo al mare. Una volta a letto, l’ultima cosa che vide prima di addormentarsi fu la sveglia digitale sul comodino che segnava l’1:12.

Da quando si era seduto vicino a Drago erano passate più di cinque ore.

5

Non ricordava di essersi svegliato e lavato, ma solo di essere uscito fuori in veranda. I suoi ricordi di quel giorno si fermavano lì. Il pavimento in cemento grezzo, che denunciava lo stile di vita spartano di Drago, era ingombro di foglie secche, frutta marcia e polvere grigio-bianca. I muri erano impregnati di uno strano odore dolciastro e pungente, di cui però se ne percepiva appena la scia.

Le sedie erano sistemate.

Il sole picchiava su tutta Via Impestati, sciogliendo la condensa sulla bottiglia e scaldando la pelle della custodia posate a terra. Drago era sempre nella stessa posizione, le braccia rilassate sui braccioli e le gambe sospinte leggermente in fuori. Qualcosa tremò dentro lo stomaco di Renzo, ma prima che potesse scatenare la paura fu di nuovo seduto. Al mattino presto il sole di Crozzanìa era già forte e batteva sulla testa con fare martellante.

Si rilassò totalmente. Fasci di muscoli e grappoli di nervi abbandonarono la tensione, che immediatamente gli parve immotivata. Lo stradone era vuoto come sempre. L’unica cosa che si muoveva era un cespuglio morto e secco cresciuto spontaneamente grazie alle rare piogge, che veniva agitato da un refolo occasionale. Non c’era più nemmeno il cane del vicino.

Per gli occhi di Renzo il nulla era uno spettacolo nuovo e affascinante. Non c’era davvero niente da vedere. Questo lo capiva, ma percepiva anche che il niente era solo una pellicola che poteva essere strappata, e che forse stava già crepitando sotto la pressione delle loro dita.

Cominciò a respirare. Quei granelli significavano qualcosa. La polvere di quel luogo conservava ancora ricordi antichi come l’oceano. Si vergognò terribilmente di aver provato ribrezzo per quei filamenti volteggianti. Era qualcosa di prezioso, qualcosa che avrebbe dovuto conservare addosso.

Proprio mentre nel suo esofago saliva il rimorso, cocente come un boccone mal digerito, davanti a loro passò un ragazzo in motorino le cui ruote sobbalzarono nelle piccole fosse dello stradone sterrato. Le gomme stridettero, sollevando un nuvolo di terra rossiccia e polvere che si propagò nell’aria circostante.

La nuvoletta immerse Drago e Renzo, che ebbe un fremito. Ne rimase completamente impolverato, fino alle gengive. Mantenne la calma. Il ragazzo smontò dal veicolo e armeggiò con un mazzo di chiavi vicino al cancello della sua abitazione. Renzo, intanto, credette di sentire il rumore che faceva la polvere mentre mulinava nell’aria, una specie di soffio leggero che gli piacque. I suoi occhi erano fissi sul ragazzo che apriva il cancello, ma il suo sguardo sconfinava ben al di là. Il tizio si girò e li vide immobili. Fece una smorfia e tornò alle chiavi. Il soffio si fece più rapido. Renzo posò lo sguardo a terra in un movimento che non era stato lui a volere. Vide che la custodia in pelle tremava leggermente, come se la terra fosse scossa da un leggero terremoto. La polvere di cui era ricoperta volteggiava sulla superficie. Era davvero bello, a vedersi. Un sorriso gli si disegnò sul volto quando capì che sulla custodia si stavano formando delle lettere. Il tizio aveva appena sbloccato la serratura del cancello. Renzo si stupì quando la parola fu composta del tutto, e nelle viscere gli si creò un vortice di meraviglia ed eccitazione.

Adesso

Quella parola guidò il suo braccio sinistro verso la custodia ma il tono pacato di Giorgio lo fermò. “Ancora no” disse.

“Ma c’è scritto che…” si oppose Renzo, senza capire se muovesse o meno le labbra.

“Forse è solo quello che tu vuoi leggere. La polvere lo ha capito. Dobbiamo ancora aspettare il momento. Quello giusto.” Furono parole gentili, rassicuranti. Piene di saggezza. Il ragazzo entrò in casa e si chiuse il cancello alle spalle.

Drago e Renzo rimasero a guardare.

Quella notte dormì benissimo, come forse non gli succedeva da anni. Aveva chiuso l’orologio in fondo a un cassetto. Ormai non gli serviva più. Lo scorrere del tempo, con le ore che si rincorrevano senza motivo, non gli interessava più. Provava un grande senso di sollievo da tutto, dal mondo intero.

Un senso di pace.

La pelle gli fremeva ogni volta che, rigirandosi nel letto, sfregava contro la marea di polvere che copriva le lenzuola.

6

Non sapeva esattamente quanta distanza lo separasse dalla sua camera alla sedia sulla veranda. Negli ultimi giorni gli parevano chilometri. Non ricordava quanto avesse mangiato in quegli ultimi tre giorni, ma quando rimaneva in piedi capiva che non doveva essere molto. Lo stomaco gli sembrava una matassa di biancheria essiccata al sole, la bocca un campionario di gusti acidi e malaticci. Sulla schiena spesso gli scorrevano brividi di gelo che lo facevano tremare dalla testa ai piedi ed era praticamente sicuro che fosse febbre. Ormai non si lavava più.

Sarebbe stato un atto osceno, una blasfemia.

Le gambe non lo reggevano più fermamente, ma si imponeva almeno di raggiungere ogni mattina la sua sedia, perché anche il solo pensare di rinunciare alla nuova realtà che gli si stava dipanando davanti gli sembrava oramai inconcepibile.

Quando riusciva a superare gli affanni del corpo e poteva sedersi, tutto tornava a posto. A volte beveva dalla bottiglia ai suoi piedi, ma più spesso non si curava se le labbra gli si screpolavano a sangue. Il sole ruggente di agosto gli sembrava solo un tiepido lenzuolo e anche il galoppare della febbre gli sembrava di poco conto. Una mattina Drago gli aveva messo davanti agli occhi una scodella di acqua tiepida in cui poi aveva mescolato una manciata di polvere, raccolta sul muretto che li separava dallo stradone. Aveva raccolto la scodella portandola alla bocca. Aveva ingoiato il composto d’un fiato e subito aveva sentito bruciare la polvere sulla lingua, sulla gola  e giù per l’esofago. Ma la sensazione gli era parsa anche come una specie di intenso orgasmo nello stomaco, che lo agganciò e lo portò su in alto.

Una macchina era passata per un attimo e la donna che guidava aveva fissato la scena. La fronte le si era corrugata in una smorfia di rassegnazione e dolore, come se qualcosa fosse tornato e lei non potesse farci niente. Poi aveva tolto il piede dal freno e la terra si era sollevata sotto lo sgommare delle quattro ruote.

Quel giorno stava bene, ma solo dentro. Il suo fisico aveva cominciato la sua fase di decadimento finale, e le numerose piaghe da decubito sui glutei e sulla schiena denunciavano le molte ore trascorse seduto nella stessa posizione. La pella era arsa in più punti e cominciava a staccarsi via in chiazze morte.

Lo stradone era deserto da due giorni. Forse tutti stavano aspettando, e il giorno era vicino.

Forse era addirittura arrivato.

Non seppe capire quando cominciarono la guardia, quel giorno, ma il sole non era ancora spuntato e il venticello era ancora fresco. Erano rimasti in silenzio, come sempre, e a ogni secondo che passava Renzo sentiva salire il fortissimo entusiasmo per quello che sarebbe successo. Anche se non sapeva affatto cosa sarebbe accaduto e che ruolo avrebbe avuto lui nel volgersi degli avvenimenti, la consapevolezza che quel qualcosa era ormai vicino lo caricava come una batteria.

Stava davvero bene. Drago era vicino a lui e l’avrebbe aiutato. Entrambi sarebbero stati guidati da qualcosa di più grande, di più alto.

Epilogo 

Tutto taceva ed era così bello e calmo, quando arrivò la bambina sulla sua bicicletta rosa. Avevano sentito i rumori cigolanti del suo pedalare, e la polvere lo aveva amplificato.

Il momento era giunto, era maturo e loro dovevano coglierlo.

Nell’istante in cui la bici aveva imboccato lo stradone con un lieve sgommare, la custodia ormai screpolata dal sole aveva preso a muoversi di nuovo. La polvere che la ricopriva aveva formato altre due parole coi suoi minuscoli granelli biachi e grigi.

Il Momento!

Questa volta Giorgio non l’aveva fermato e la sua mano aveva potuto afferrare la custodia il cui messaggio si disperse nella brezza calda insieme alla polvere che lo componeva. Le piccole serrautre erano finalmente scattate.

La bambina era più vicina.

La custodia era stata aperta rivelando finalmente il suo contenuto. Renzo non provò altro che un appagante senso di compiutezza quando vide che sul fondo di velluto rosso della valigetta era sistemata una pistola argentata con un caricatore vicino. I proiettili erano inseriti. Agganciato al coperchio delle custodia, c’era un coltello con un grosso manico dall’impugnatura ergonomica.

La bicicletta cigolava sempre più distintamente.

Renzo non capiva chi manovrasse le sue mani. Forse era lui e forse no.

Impugnò l’arma, in cui inserì il caricatore.

Adesso poteva vedere la bimba avvicinarsi.

Scarrellò immettendo il colpo in canna, poi tolse la sicura. L’acciaio della pistola era perfettamente oliato e il bilanciamento dell’intero attrezzo sembrava tarato appositamente sul suo braccio destro. Percepiva la solidità dell’impugnatura come un lontano segnale di sicurezza. Tese il braccio e chiuse gli occhi.

“Il momento, Renzo. Il momento è arrivato. Adesso lo senti anche tu” stava dicendo Drago. “Niente è ciò che è, e tutto è alla nostra portata. Lasciati muovere, Renzo. Lasciati guidare dalla polvere. Polvere eri e polvere sarai.”

La testa calata sul petto come quella di un grottesco burattino, Renzo udì la bicicletta di quella bambina sfrecciare davanti a loro e anche se aveva gli occhi chiusi potè vederla. I capelli biondi contro il vento e quel perenne sorriso di spensieratezza che può avere solo una bimba di dieci anni.

Le sue dita si contrassero sul grilleto e ci fu un boato seguito da un tonfo. Il tintinnìo del bossolo che cadeva e lo sbattere ritmico delle ali di due uccelli in fuga.

Nessun rumore, a parte questi.

Sentì l’odore di carne bruciata e, più in profondità, quello del sangue. Dragò gli tolse la pistola di mano, poi prese il pugnale nel momento stesso in cui Renzo apriva gli occhi. La lama affilata che lampeggiava al sole, il muretto chiazzato di rosso, il minuscolo bossolo espulso dalla pistola sul cemento e l’amico che si avviava verso la piccola che lui non riusciva a vedere per via del muro.

Vide tutto questo attraverso un tremante prisma di lacrime.

Post-Epilogo 

Polvere eri e polvere sarai.

Da dietro casa giungevano rumori stomachevoli di strappi e lacerazioni, accompagnati da quelli peggiori che gli sembravano manate nel fango. Rumori acquosi, di sciabordìo. Renzo restava immobile a impastare la polvere che aveva addosso con le sue lacrime calde. Giorgio Draghetti era impegnato. Dietro casa. Ogni tanto emergeva da quel crepuscolo tutto imbrattato di colori purpurei per poi ritornarci con un nuovo attrezzo. Questa volta era una specie di mortaio con un pesante pestello di ferro. Rumori di ossa frantumate. Sbuffi di granelli bianchi e grigi mossi dal vento.

La polvere che muoveva le anime vorticava ancora su Via Impestati.

Polvere eri e polvere sarai.