di Luca Baiada

Certi anniversari allontanano e avvicinano. Forse perché le ingiustizie bruciano di più. Di nuovo al giro di quattro stagioni, e adesso a settantatré anni da quel 23 agosto 1944, ecco quella cosa ambigua che chiamiamo memoria, oggetto politico dalle molte maschere. E le maschere viene voglia di strapparle.

174 morti, la più piccola di quattro mesi, assassinati dai tedeschi nel Padule di Fucecchio. Comincia all’alba e finisce nel pomeriggio: una strage interminabile, seguita da una memoria pubblica breve, destinata a inabissarsi, o a impantanarsi nei riti delle istituzioni, e poi a ingessarsi nel lavoro culturale protetto dalla politica e dalla diplomazia.

Riprendere questa storia costringe a salti temporali, a sentire il lutto lontano e quello nuovo: c’è la morte delle persone, c’è quella della giustizia. I vivi si specchiano nei diversamente vivi ma si scoprono diversamente morti, perché la vita perde senso se il crimine non ha risarcimento, cioè se il bene e il male si equivalgono.

Dei tedeschi colpevoli (soprattutto nella 26ª divisione corazzata della Wehrmacht), solo tre militari sono processati dopo la guerra e negli anni Cinquanta non ce n’è più uno in carcere. Poi tutto nell’armadio della vergogna – non tutto, al Tribunale militare di Firenze c’erano le copie delle indagini britanniche, ma non furono riprese – e rimesso in moto dopo il 1994, per celebrare un dibattimento chiuso nel 2012, uno dei pochi che non hanno neppure salito le scale della Cassazione. Due tedeschi condannati, Fritz Jauss e Johann Robert Riss, mai consegnati dalla Germania, nessun risarcimento ottenuto, le famiglie delle vittime hanno dovuto anche pagarsi gli avvocati. Tesa e sovraesposta, la pellicola di questa giustizia diventa una caricatura dell’ingiustizia, una vignetta di cattivo gusto. La memoria snuda la sua natura di sviamento del discorso, quando costringe a scegliere se raccontare cos’è successo quel 23 agosto 1944, oppure quanto è inaccettabile il dopo, cosa sono i silenzi, le complicità, le inadempienze.

Che differenza c’è, tra da un lato i fascisti che partecipano alla strage in divisa hitleriana, che gridano in toscano nei casolari «scendete giù, criminali!» e che uccidono il seminarista Marino Arinci perché li ha riconosciuti, e dall’altro, nel dopoguerra, gli insabbiatori dei processi in un archivio segreto a Roma? Ma sin qui il paragone è facile, l’esecrazione del male remoto è comoda. Dopo, molto tempo dopo, che dire della Commissione parlamentare d’inchiesta 2003-2006 e delle sue relazioni, mai discusse? E dei tre provvedimenti legislativi italiani che hanno protetto la Germania dal pignoramento dei suoi beni? E ancora, che dire della gestione pilotata della memoria, adesso, con regia berlinese e applausi italiani?

Lia Parenti Moschini è al sicuro a casa, ma quando vede i tedeschi vicini al rifugio del marito, scavato nel bordo di un canale, esce allo scoperto e muore al posto suo. Più coraggiosa, questa sposa che ritrovano con la falce in mano, dei britannici che graziarono il feldmaresciallo Kesselring e degli italiani che liberarono il maggiore Strauch, per fare del primo un bugiardo al servizio della guerra fredda e dell’altro un politico di seconda fila nella Germania federale. Invece, che coraggio hanno avuto i parlamentari italiani, che prima e dopo la sentenza della Corte internazionale di giustizia del 2012 hanno protetto i beni dello Stato tedesco? Anzi, cos’hanno avuto in petto, quelli che hanno difeso l’Italia in quel processo all’Aia? Ancora, via: l’esito di quel processo era già scontato dal 2008, come ha ipotizzato qualche osservatore?

Questa storia scandisce anniversari che ticchettano nel Secolo breve e proseguono in quello delle incognite. Mettiamo indietro il calendario, ma non troppo. È il 23 agosto 2008, appunto, nove anni fa, sessantaquattro dopo la strage. Da qualche mese la Cassazione, a sezioni unite civili, ha ribadito che la Germania deve pagare per stragi e deportazioni. A ottobre lo dirà anche in udienza penale. La crisi economica non tocca ancora l’Europa, ma la Lehman Brothers è un cadavere in piedi. Fra poco, a novembre 2008, si svolgerà il vertice bilaterale italo-tedesco di Trieste, coi ministri degli esteri Frattini e Steinmeier alla Risiera di San Saba a promettere memoria, solo tanta memoria riparatrice. A dicembre comincerà il processo dell’Aia, poi l’Italia sarà condannata, nel 2012, per crimine di tentata giustizia; contemporaneamente lavorerà la Commissione storica italo-tedesca, col suo incentivo al riparazionismo, cioè alla memoria spesata da Berlino. Nel Rapporto della Commissione, a gennaio 2013, si leggerà: «[La Commissione] si rivolge al governo della Repubblica federale di Germania che, in base a una dichiarazione del suo Ministro degli affari esteri, si è dichiarato pronto a un gesto di generosità». La Germania non paga un debito immenso ma l’Italia riceve le mance. Anni dopo, dei due ministri degli esteri, quello del paese debole uscirà dai riflettori della politica, quello generoso del paese forte diventerà il capo dello Stato.

Angiola Borghini cerca suo marito e suo figlio. È nel vecchio borgo di Stabbia, invano una ragazza prova a trattenerla; il parroco si chiude in casa, sente gli spari da due ore ma dopo dirà di non aver capito cosa succedeva. Muoiono nei campi Angiola, il marito Angiolo e il figlio Dario. Voleva bene ai suoi cari, Angiola, in quella corsa disperata, non faceva come la classe dirigente italiana del dopoguerra, cioè di adesso, coi suoi concittadini. Notabilato di sordi, degni eredi di un don Abbondio che si rinserra in canonica, ma senza un filo di fede. I giuristi e i giornalisti al convegno di Como lo scorso maggio, Remedies against Immunity: Reconciling international and domestic law, dicevano forse l’Oremus, nella principesca Villa Vigoni? Un convegno al Centro culturale tedesco, fatto col denaro della Fondazione Fritz Thyssen, intitolata a un industriale nazista. Di fronte al massiccio inadempimento tedesco, di fronte a questa sfacciata ingiustizia su tutte le stragi, quegli intellettuali, a Como, hanno tenuto il breviario spalancato nelle mani, come sur un leggìo. In che lingua hanno detto ai padroni di casa: «Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli…»? Quel ramo del lago di Como… quel ramo è sempre lì, e ci sono anche i bravi. Don Abbondio non crea problemi alla Germania, al momento giusto ha un febbrone.

Da un anno all’altro, sembra che non ci siano novità, ma non è vero. Le novità sono così inguardabili che viene voglia di dire che non è cambiato niente. Il bisogno di dimenticare viene dall’ingiustizia resa esponenziale dal tempo, dunque il tempo non è solo la misura dell’inerzia, ma il suo evidenziatore.

Nell’ultimo anno, il ministro degli esteri Gentiloni ha fatto posto ad Alfano ed è diventato presidente del consiglio. Il primo aveva attivato l’Avvocatura dello Stato, quella italiana, a difesa della Germania, che ai processi civili intentati dalle famiglie delle vittime non si prende più il disturbo di mandare un suo legale. Alfano, in televisione ad aprile: «Se ci sarà la necessità di un approfondimento con il presidente del consiglio, io non mi sottrarrò […] per studiare tutte le strade giuridiche per provare ad affermare le ragioni di chi chiede un risarcimento». All’udienza successiva l’Avvocatura dello Stato ha continuato come prima.

In un convegno a Pistoia, La responsabilità economica tedesca per stragi e deportazioni in Italia: il risarcimento e la memoria, si è provato a quantificare il debito, solo per i morti nelle stragi e per i deportati non tornati, senza tenere conto di tutto il resto. Un calcolo sbagliato per difetto è arrivato a cento miliardi di euro. Proporre un conteggio su un debito vecchio non si direbbe una cosa nuova, ma l’effetto è d’imbarazzo, intellettuali e organi d’informazione stentano a dare spazio a un semplice numero timidino. Anche un discorso ipotetico è un sasso, se sul tavolo ci sono le porcellane dell’ambasciata tedesca. Il giornalista Franco Giustolisi nel 2007: «È ora di chiedere ragione all’informazione circa il suo tacere sull’armadio della vergogna. […] Un silenzio se possibile ancor più criminale di quello di coloro che hanno ucciso e di quello di coloro che in seguito hanno nascosto quei crimini. Non è, forse, quella dell’armadio, la più drammatica vicenda italiana e, se non altro, la più singolare di qualsiasi Stato occidentale?». Il silenzio non si spezza con certe iniziative pubbliche; Pietro Guidi, che scampò al massacro, commenta così: «La farsa della memoria dell’eccidio del Padule di Fucecchio? Le lacrime non sono il solo frutto, ma sperando che venghino ricordate un po’ più nella coscienza di chi non ha pianto, magari perché non avendo provato quel giorno, si può dare qualsiasi considerazione. Ma chi l’ha versate andranno nell’aldilà sovvenendosi come essi che hanno pianto quel giorno. Queste sono ferite nella memoria e nella persona, perché questa ferita non si è ancora risarcita a ottantotto anni. Si parla di tutto di oggi, e non parlare di tante cose magari più utili del passato che ci potrebbero fare rifrettere, che ce ne sarebbe tanto bisogno, in questa corsa senza fine che ci tormenta».

L’Accordo sui debiti esteri tedeschi, Londra 27 febbraio 1953 (Agreement on German External DebtsAbkommen über deutsche Auslandsschulden), ratificato in Italia nel 1965, non dovrebbe essere una novità. È un noioso testo da legulei, in vigore da mezzo secolo, ma dà fastidio e si fa ogni sforzo per non nominarlo. Poi, col coraggio del bimbo davanti al re nudo, per la prima volta il Tribunale di Roma, il 19 giugno scorso (causa G.C. e L.C. contro RFT), emette una nuova condanna economica e cita il grande assente: l’Accordo di Londra. Chi si rivede! Roco e canuto, l’Accordo non è morto, solo volevano farlo sparire, come quei parenti deboli che conviene tener sotto chiave, per spolpare i risparmi.

Non sembra proprio una novità, invece, Fucecchio nell’Atlante delle stragi: quel sito è una memoria meccanica, e la Germania l’ha pagato volentieri, visto che così ha sborsato poche decine di euro per caduto; poi è stato promosso, fra istituti e sedi, anche col sostegno di ambienti politici di varie località, ma con proteste di parenti delle vittime. Il libro a corredo dell’Atlante, Zone di guerra, geografie di sangue, a Fucecchio dedica poco, ma abbastanza per un erroruccio: il numero dei morti è sbagliato. Semmai, sul sito, di nuovo ci sono le accuse ai partigiani, infondate. Un gruppo di sezioni Anpi toscane ha già preso le distanze.

Qualche novità è sulla ballata trasmessa oralmente per mezzo secolo: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia…». Liduino Tofanelli, il padulino che la salvò mandandola a memoria, è morto, ed è stato ricordato nei suoi luoghi di caccia e gioventù. C’erano musica, vino, ninfee a bagno nell’acqua addormentata, nidi di uccelli alla cova dentro vecchie padelle. Ma non c’erano politici né accademici né funzionari di Berlino. Non se n’è sentita la mancanza, a mancare era solo Liduino. E qualcuno ha ricordato qualcosa, sull’anonimo autore, quel barrocciaio della Valdinievole nel dopoguerra, ma è presto per dire di più.

Solo per parlare di questo, del sangue versato e di quello nelle vene, del bottino che la Germania ingurgita e dell’elemosina che lascia sbocconcellare, delle carte scritte e di quelle nascoste, c’è da farsi dei nemici, ma questa proprio non è una novità. C’è una lettera a Massimo D’Azeglio di Giuseppe Giusti, poeta di Monsummano, il paese più colpito dalla strage del 1944, scritta un secolo prima. Sta parlando dell’Italia dell’Ottocento, divisa e piena di birbe da mettere alla berlina: «Vi sono certuni i quali o incapaci di fare, o adulteri venduti della propria capacità, s’attaccherebbero a’ rasoi per iscreditare chi fa e chi fa a viso aperto, perché si vergognerebbe di proferire o di scrivere una sillaba che non fosse d’accordo con ciò che gli freme nell’animo. […] Ma questi in fondo se sono i peggiori, non sono i più temibili, perché ognuno o poco o assai sa quanto pesano, e per quali mari spieghino le vele dietro la stella polare del francescone. Quelli che fanno assai più dispetto, sono i mille e mille beati maiali, dei quali si compone il branco infinito degli sdraiati qui nella melma dell’indifferenza e della trullaggine». Il francescone, pensa un po’, era una moneta.