di Walter Catalano

LippiFuturoGiuseppe Lippi, Il futuro alla gola. Una storia di Urania dagli anni Cinquanta al XXI secolo, ed. Profondo Rosso, Roma, 2015, pp. 300, € 29,00.

Il nome Urania, per le generazioni alfabetizzate dalla seconda metà degli anni ’50 in poi, non evoca soltanto immagini di protocollari reminescenze scolastiche, tripudi mitologici da liceo classico e apollinei paesaggi ellenici, ma piuttosto astronavi lanciate nello spazio cosmico, mostri amorfi o umanoidi, pianeti e soli orbitanti in remote galassie, robot e macchinari scintillanti. Tutto l’immaginario che segna il passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo (un immaginario composito: apparentemente scientifico-tecnologico, dunque, ma per molti aspetti ancora magico-mistico) racchiuso tra le pagine e sulle copertine di un’umilissima rivista da edicola: un nome magico per noi, un pozzo di sogni ed incubi, di meraviglie della ragione e della fantasia. Urania, musa sì ma “stupefatta”, come brillantemente uno dei primi critici del genere nel nostro paese definì la fantascienza. E se la fantascienza, la letteratura, di genere e non, è divenuta una cosa seria: uno studio, un lavoro, un rifugio, una palestra filosofica dell’intelletto per qualcuno, Urania no, non soltanto, Urania resta per sempre soprattutto un feticcio, un oggetto magico.

Nell’infanzia di ognuno di noi c’è almeno una copertina di Urania – in base alla rispettiva età anagrafica sarà di Caesar o Jacono, di Thole, come nel mio caso, di Festino, Manzieri o Brambilla per i più giovani – che sbircia minacciosa e invitante dagli scaffali di un’edicola e della nostra memoria: c’è poi un momento, forse in treno o sotto un ombrellone, in cui per la prima volta abbiamo sfogliato quelle pagine, in cui la prima storia ci ha catturato e l’incantesimo ci ha preso. Da allora, assuefatti e stupefatti a nostra volta, cerchiamo di rivivere quell’incantesimo, talvolta ci riusciamo, più spesso no, ma Urania resta nel nostro personale immaginario un “nome di potere” (in senso magico, surrealista, patafisico e castanediano), una questione di fascino e di emozione, dove le facoltà logiche, se non proprio estranee, restano comunque sopite.

Era il momento di cartografare questa nebulosa dell’immaginario e, per la verità, da qualche anno vari siti di appassionati su internet lo avevano tentato anche con certo successo ma restando però confinati alla sfera sublunare dei collezionisti, degli affascinati, soggetti all’incantesimo, quindi; ci voleva invece per guidarci virgilianamente attraverso questi territori segreti, qualcuno che fosse passato dall’altro lato, un mago che, vinto l’incantesimo (o avendolo metabolizzato a tal punto da diventarne parte) si fosse trasformato lui stesso in incantatore: chi poteva svolgere questo ruolo meglio di Giuseppe Lippi, dal 1989 in sella al destriero uraniano come un novello Gandalf, il curatore editorialmente più longevo di quell’umile periodico che dal 1953 infesta le edicole italiane dei sogni e degli incubi del futuro.

Lippi ha confezionato un libro che esalta – in un insolito ambito saggistico/memorialistico – le qualità della migliore science-fiction, unendo cioè la precisione e la documentazione scientifica – esatta, dettagliata, tecnica – alla piacevolezza immaginifica dell’aneddotica, della rimembranza personale o della speculazione/ricostruzione congetturale di fatti, situazioni, personaggi. Il volume s’inserisce in un progetto storiografico-celebrativo in più tomi voluto da Luigi Cozzi per la sua casa editrice Profondo Rosso e rappresenta in questo contesto il quinto testo disponibile e il più letterariamente articolato ed esteticamente riuscito (essendo gli altri quattro, più che altro compilazioni di interviste, testimonianze e documenti vari sui diversi periodi di Urania e delle sue meno fortunate rivali: Cosmo, Gamma, Galassia). Trecento pagine – corredate da splendide illustrazioni a colori e in bianco e nero con riproduzioni di copertine, illustrazioni e fotografie – che scorrono via in un soffio, come un appassionante romanzo che ci conduce con l’abituale verve retorica di Giuseppe, la sua sottile ironia e la vasta cultura tutt’altro che ostentata ma ovunque evidente nei suoi riferimenti mai scontati o semplicistici, attraverso le molteplici incarnazioni del periodico mondadoriano.

Si parte cinematicamente da un dettaglio secondario di un famoso film di Pietro Germi, Divorzio all’italiana: che libro potrà mai trovarsi sul comodino della sfortunata moglie del barone Cefalù/Marcello Mastroianni, se non un Urania (Giuseppe azzarda ad occhio possa trattarsi del n. 170 del gennaio 1958: Il vagabondo dello spazio di Fredric Brown): tutta un’epoca in un particolare. Da lì si passa ad analizzare la preistoria uraniana, i suoi antesignani: i “Gialli Mondadori” di Alberto Tedeschi, nella versione ante e dopoguerra e nel passaggio dalla libreria all’edicola; poi l’esordio epico di Giorgio Monicelli nel 1953 e ancora un’interessante testimonianza che ha a che fare col cinema, quella del fratellastro regista, Mario Monicelli. Affascinante la descrizione che Giuseppe ci offre del personaggio: primo traduttore italiano di Malcolm Lowry, amico intimo e fortunato rivale in amore di Giorgio Scerbanenco, probabile inventore (o forse piuttosto importatore, come ipotizza Lippi) del neologismo “fanta-scienza”: è con lui che l’astronave uraniana – o meglio il missile, come si diceva a quei tempi – decolla e si avventura negli spazi, ancora ingenui e vergini – seppur già attraversati, in un rapido volgere di anni, dallo Sputnik, dalla cagnolina Laika e da Yuri Gagarin – dell’immaginario italico.

Le copertine del fantasioso Caesar e del realistico Jacono segnano questa fase pionieristica, il succedersi ai pennelli del sofisticato Karel Thole scandisce invece il volgere del decennio successivo, l’abbandono per malattia da parte di Monicelli e l’arrivo in direzione prima di Carlo Fruttero e poco dopo dell’inseparabile partner Franco Lucentini. Quel che era stato fino ad allora, più o meno, un’affascinante pulp, piacevole interludio fra una dispensa e l’altra per studenti della Radio Elettra, si trasforma in un raffinato palcoscenico di cultura alternativa: non solo fantascienza ma anche le strisce a fumetti di Johnny Hart o rubriche interlocutorie come “Il Marziano in cattedra”, che pubblica i migliori tentativi letterari dei lettori, una buona dose di ironia e giocosità (con più di un pizzico di snobistica spocchia) da parte del binomio iperintellettuale Fruttero&Lucentini determinano il successo della nuova formula popolare e colta insieme, integralmente anglo-americanocentrica (“Un disco volante non può atterrare a Lucca”…), spesso piuttosto disinvolta nelle traduzioni.

Giuseppe ci svela i nomi e i segreti redazionali della minuscola consorteria di collaboratori avvicendatisi a vario titolo dietro le quinte del periodico, ci fa strada nel labirinto di sottocollane, esperimenti editoriali falliti e no, cambiamenti di periodicità e di “palinsesto”; si arriva così alla fine di un epoca: all’abbandono di Fruttero&Lucentini nel 1985, all’ingresso di Gianni Montanari, reduce dall’esperienza di Galassia, che introduce nuovi autori e un nuovo stile, più avanguardistico, aperto alla new wave e ad una maggiore complessità. Un periodo breve ma significativo: dopo il passaggio di Montanari Urania non sarà più la stessa; come spiega Lippi: “parve diventare un po’ meno ecumenica e un po’ più per specialisti”. Ricompaiono finalmente autori non anglosassoni: soprattutto francesi e russi; vengono gettate le premesse di quel “Premio Urania”, apertura definitiva agli autori italiani, che sarà varato però già dopo l’insediamento di Giuseppe Lippi e che segna il volgere degli anni ’90.

E da lì scivoliamo ormai oltre la soglia del 2000, nelle spire della contemporaneità e dei suoi problemi: la crisi dell’editoria, gli e-book, la mutazione dell’immaginario; Urania contempla serafica ogni nuovo scenario alla luce dei suoi oltre sessant’anni di esperienza e – come sottolinea Lippi – continua inesausta a svolgere la sua funzione “di difesa dell’immaginazione cui non è venuta meno… In un’edicola festonata di gaie frivolezze, di rotocalchi più o meno vaporosi… Urania è… un finestrino sulle ricorrenti letterature dell’altro mondo”.