600 DEF3soft[Il brano che segue è uno dei 75 racconti dell’antologia Tifiamo Scaramouche, spin-off de L’Armata dei Sonnambuli di Wu Ming. La raccolta, suddivisa in quattro volumi (‘600 Terra Canta, ‘700 Carne Brucia, ‘800 Rivolta Viene, ‘900 Notte Fugge) e arricchita dalle illustrazioni di Alessandro Caligaris, è di recente uscita su Giap!] SSL

di Valentina Fornelli

La gente delle montagne
Giamaica
1665-1669

Le persone cominciano a riunirsi nello slargo tra le baracche, attorno alle prime sottili lingue del fuoco. Camminano mollemente con le braccia lungo i fianchi e le spalle curve, sfiancate dalla giornata trascorsa nei campi. Molti, arrivati da poco, hanno ancora i polsi e le caviglie cerchiati di piaghe scarlatte, lente a guarire: il marchio della nave.
Alcuni non parlano la lingua degli Akan, vengono da paesi ancora più lontani delle coste da cui siamo tutti partiti. Agli inglesi non importa, per loro siamo tutti gente di Fort Kormantine. Per loro, siamo nati tra le pietre di quelle mura, già in catene, già merce da vendere e comprare.
Per i nuovi arrivati, d’ora in poi, la lingua sarà solo quella degli schiavi. Una lingua fatta di parole dei bianchi – parole urlate, ordini, ingiurie, minacce – triturate insieme a parole Akan, Igbo, Yoruba, in una macina per la canna da zucchero.
Si guardano attorno, osservando lo strano viavai. È la prima volta che vedono danzare in una piantagione. E sono gli unici che ancora non sanno che oggi si danza per andare in guerra.

La folla cresce sulla polvere calda dello slargo, alla luce del fuoco. Solo un’altra luce illumina la vallata: è quella della casa del padrone, alta su una collina che domina il villaggio di baracche, il mulino, le vasche per la bollitura, gli sterminati campi di canne fruscianti nell’oscurità. Alle spalle della casa si solleva il muro immenso delle montagne, di un nero cieco e vertiginoso sotto il cielo senza luna.
I bambini chiedono quando arriveranno gli uomini coi tamburi. Presto, rispondono le donne. I coltelli da cucina premono freddi contro la pelle, sotto gli abiti di stracci. Le zappe, i tridenti, le asce, le mannaie, attendono invisibili nelle ombre delle baracche, tra l’erba alta.
I suonatori arrivano. Si dispongono a semicerchio, in ginocchio, con i tamburi tra le cosce. Lisciano le pelli con le mani, le percuotono piano, per sentirne la risposta. Si guardano l’un l’altro, con occhi seri, senza dire una parola. Dovranno suonare forte oggi, per confondere i cani e assordare i guardiani. Per coprire la discesa del popolo delle montagne, il popolo libero. Per permettere ai guerrieri dei boschi di sgozzare i guardiani, uno ad uno, senza che nessuno ne oda i gemiti. Di liberarci e di condurci nel loro regno nelle valli nascoste, dove i bianchi non osano arrivare.

Inizia la musica, il ritmo potente delle mani umane e del legno cavo. Donne e uomini si staccano dalla massa informe della folla, catturati dalla corrente pulsante del suono, e avanzano verso il fuoco, scuotendo le spalle, agitando le braccia, ondeggiando la testa sulla marcia furiosa dei piedi. Il battito dei tamburi sale verso il cielo, si attorciglia nei venti delle montagne, forma turbini che si allargano come cerchi nell’acqua, più grandi della piantagione, grandi come intere valli, forse come tutta l’isola.
Una vecchia si avvicina al fuoco. La chiamano “colei che cattura le ombre”. Prima schiava degli spagnoli, poi fuggita nei boschi, poi catturata e passata ai padroni inglesi, ha vissuto in Giamaica più a lungo di qualunque altra schiava o schiavo. Cammina curva, con una piccola sacca di tela stretta al petto. Lunghe cicatrici di frustate brillano sulla schiena e sul seno nudo.
Passa tra la gente sussurrando, con la sua voce sottile e ruvida come una corda consumata, e con la sua lingua che è un intrico di tutte le lingue: «Wid esta powda no obroni bullet nos puede matar. Rub, son. Rub, dawta». Distribuisce una manciata di polvere a ciascuno, bambini compresi, e tutti i presenti iniziano a strofinarsela sul corpo.
«Sono arrivati!» urla un ragazzo. Eccola, la gente delle montagne, la gente libera. Uomini camminano verso di noi, emergendo dal nero fondale dei campi. Per la prima volta da questa parte dell’oceano, vediamo dei neri liberi. Hanno la pelle ricoperta di una terra scura e opaca, e sono armati di lance, spade, archi e frecce, persino di qualche moschetto.
Non c’è tempo per i convenevoli, sappiamo quello che dobbiamo fare. La libertà va guadagnata.

I tamburi non hanno mai smesso di suonare e stanno ancora suonando mentre saliamo silenziosi verso la casa dei padroni, con le mani strette attorno ai coltelli da cucina e alle armi rimediate tra gli attrezzi da lavoro. I cani fiutano la folla che si avvicina, gli uomini di guardia al cancello di ingresso abbracciano nervosi i moschetti. Uno grida, parte uno sparo. Comincia la battaglia.
Le guardie vengono abbattute a colpi di ascia e di zappa, le dita spezzate per strappare le armi. Le porte cadono sotto i colpi dei nostri piedi nudi. Siamo duecento contro una manciata di bianchi. Invadiamo le stanze, come un’onda di maremoto.
Prima che faccia giorno, la grande casa brucia sulla cima della collina, mentre noi ci ritiriamo, ciascuno portando con sé il suo bottino in oggetti preziosi, tessuti, armi, attrezzi, cibo; il carico che pagherà il viaggio verso le montagne. Gli schiavi di casa – servi, cuoche, concubine – vengono legati e presi prigionieri. La libertà, loro, dovranno ancora guadagnarsela.
900 DEF3softÈ allora che vediamo l’uomo con la maschera. Indossa uno strano abito colorato, ormai in cenci, e una maschera con un lungo naso che somiglia al becco di un uccello. Ha in mano un pezzo di legno annerito dal fuoco e sta tracciando grandi lettere sul muro di cinta della casa. Una bambina gli si avvicina.
«Che stai scrivendo?» gli chiede.
«VIVE LA LIBERTÉ» risponde lui.
«Duppy» dice la donna che cattura le ombre «tienes que ir ahora!».
L’uomo con la maschera sorride sotto il lungo naso. Si inchina nel suo abito di stracci, e parte per la sua strada.

[I disegni sono di Alessandro Caligaris, clicca sulle immagini per ingrandirle]