lempicka_andromeda3Le voci di sette autori per parlare della donna, oggi, in Italia.

Sei componimenti e un contributo finale per approfondire, riflettere e anche denunciare: perché se si vuole superare una disparità, il primo passo è ammetterla.

Egoista di Laura Costantini

Non voglio smettere.

Sono egoista.

Una donna ha doveri:

la cura della casa,

la cura della famiglia,

la cura del suo uomo.

Io no,

io rubo tempo alle cose che contano.

Piatti da lavare,

cene da preparare,

lavatrici, aspirapolvere,

il buon vicinato,

il lavoro,

i soldi.

La testa da un’altra parte,

lo sguardo che travalica,

il pensiero che oltrepassa

casa,

ufficio,

sale d’attesa,

palestre,

 

Ci sono, ma non ci sono.

Ho storie che mi parlano,

non riesco a farle tacere.

 

Non voglio.

 

Sussurrano,

svelano,

donano

e non si fermano.

Pretendono attenzione e, confesso:

a loro la concedo volentieri.

Posso fare a meno

di cose e di persone,

ma a loro no, non rinuncio.

Ed ecco le accuse,

avete ragione voi,

sì:  mi dichiaro colpevole.

Di trascurare doveri.

Di rubare tempo.

Di coltivare spazio tutto mio.

Di scrivere.

Se un uomo vive per scrivere,

è un artista.

Se lo fa una donna,

che egoista.

 

Nessuno crederà mai di Caterina Falconi

 

Ti ha aperto la pancia con un colpo di vanga.

Il tuo bambino si è voltato su un fianco, dentro il sangue.

Io sono caduta in ginocchio accanto a te, ma non ho avuto il coraggio di toccarti.

Ti ho guardata forte dentro gli occhi, per darti un po’ della mia vita.

E poi per assorbire la tua anima mentre morivi.

Nostro marito ti ha colpita ancora.

Il bambino ha sfilato il pollice dalla bocca e ha sussultato.

La terra era intrisa del vostro sangue.

Ho guardato l’assassino sollevare di nuovo la sua arma.

Per un attimo la mia incredulità ha congelato la scena addosso al cielo.

Quando ci baciava pensavo che lui fosse diverso. Che traboccasse d’amore.

Ma ora capisco perché restavi ferma, coricata di lato, mentre lo subivi.

Tu lo conoscevi.

Nessuno crederà mai che avrei voluto difenderti.

 

26 modi per dire il tuo nome di Francesca Genti

 

Grande Cuoca.

Gomitolo Di Lana.

Tasca di Cangura.

Figlia Di Puttana.

 

Regina Delle Nevi.

Nervo Scoperto.

Madonna Sanguinante.

Inconscio A Cielo Aperto.

 

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Padrona Di Montagne.

Cordone Ombelicale.

Guardiana Del Dolore.

Enigma Naturale.

 

Porta Sempre Chiusa.

Chiave Che Non Apre.

Stanza Invalicabile.

Anima Reclusa.

 

Cattiva Consigliera.

Sogno Dentro Al Sogno.

Sciamana Da Due Soldi.

Strumento Del Demonio.

 

Angelo Di Zucchero.

Abete Di Natale.

Grazioso Soprammobile

Vicino Al Focolare.

 

Ricatto Gigante.

Colpevole Totale.

Agnello Rancoroso

Che Attende Sull’Altare.

(da Poesie d’amore per ragazze kamikaze, Purple Press, 2009)

 

 

Notte e giorno di Fabrizio Lorusso

 

Di notte, lo chiami

lo invochi, ti svegli

nel suo sbadiglio

di corde vocali

ti perdi e raccogli

emozioni, lo lasci

ma resti immobile

non te ne vai:

t’immobilizza

la sua indifferenza

ti ha imprigionato

con un abbraccio.

 

Di notte, t’annulla

e ha sempre ragione,

da vendere, lui

decide che è meglio

chi vince urlando

e rimani in silenzio.

L’ego è il suo mondo

emozionalmente

dentro di te

spinge e ti spegne,

t’ammali di lui

non te ne accorgi

e nessuno lo fa, mai.

 

Soffochi ore dolori ricordi

di fretta richiudi

valvole d’aria

e strozzi in gola

profondi pensieri,

rimorsi di voi, passato.

 

Di giorno, concerto

di due silenzi,

siete indignati

attacca lui

rispondi tu

lo guardi da fuori

sei fuori di te

ed esci un secondo

dalla vostra vita,

senza parole

e zero sogni

senza più pace

sei lì e lo guardi

ma vuoi scappare.

 

S’inzuppano d’odio

le frasi d’amore

prima d’andare al lavoro

esisti, resisti, sei sola

e stringi il nodo

di lacrime stanche

e cravatte stirate

che devi tagliare.

 

Di giorno non vuoi

non puoi sapere

cosa fa lui,

chi sarai tu

attendi il vuoto.

I ponti si spezzano

i puri si macchiano

il cielo è amarezza

somaticamente

lo odi e lo ami

t’inganni perduta,

solo lo ascolti

e le sue ragioni

sono violenza.

Con la coscienza

ubriaca di vino

la sua camicia

pulita di lino

t’ignora di giorno

e deturpa le notti

sicuro d’essere il centro

di giorno, notte e tempo.

 

Prendi una donna di Marilù Oliva

 

 

Prendi una donna,

sventrala, insultala.

Sfasciale la grazia.

 

Ci vuole poco:

un pubblico marcio

applausi, moncherini.

 

Un palco invisibile,

accumuli di rabbia

e una connessione web.

 

Vomitale addosso

parole di fango,

inventati qualcosa.

 

Che – se è bella –

ha barattato il successo

con la sua bocca rossa.

 

Che – se si suda la vita –

è un’arrivista nata,

e pratica il bouldering.

 

Che – se è educata –

fa prestito a usura,

quando le conviene.

 

Che – se ha un’idea diversa –

è la solita rompicoglioni,

non poteva starsene zitta?

 

Che – se chiede più rispetto –

femminista di merda,

cosa vuoi: comandarci?

 

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Che – se non ha figli –

invecchierà irrancidita,

quella sporca egoista.

 

Che – se li ha –

che cazzo si crede,

l’unica madre al mondo.

 

Che – se è da poco sbocciata –

chissà che combinerà,

tanto son tutte uguali.

 

Che – se il tempo passa –

ormai è vecchia,

già non esiste più.

 

Qualsiasi cosa faccia,

la strategia è sporcarla.

E che vale, no: quello non dirlo mai.

(apparso su Libroguerriero il 14 maggio 2014)

 

Figlia di Francesca Schipa

 

A me hanno detto che era una cosa di cui imbarazzarsi, quel sangue. Che parlarne era male, che erano “le mie cose” , che quei giorni lì erano giorni sbagliati. La vergogna, innanzitutto. La sporcizia, poi.

Nascondere, nascondersi.

A me hanno insegnato che tutto dipende da come ti vesti, che la pelle si copre per non attirare sguardi e attenzioni, che il primo passo non si fa: il passo giusto è quello che ti allontana, lo sguardo giusto punta verso terra.

Coprire, abbassare.

A me hanno ripetuto che siamo da sole anche se siamo in molte, se un maschio non ci controlla, che ci sono attività che non ci appartengono, che bionda è meglio, che muta è meglio, che sposa è molto meglio.

Tacere, obbedire.

Invece – figlia – io vorrei raccontarti del corpo che traccia il suo naturale rinnovamento in caratteri rossi, vitali.

Vorrei – figlia – farti ascoltare l’allegro fiorire di amicizie e il rombare cupo e lento della passione, il rumore delle calze sulla pelle e il frusciare dei capelli sciolti. Di uno sguardo franco che guarda negli occhi ma punta lontano, di un passo sicuro, preludio di molti altri.

Potrei dirti – figlia – la naturale gioia del ritrovarsi tra voci femminili, amiche, dirti che non c’è cosa che tu non possa fare come gli altri o meglio. Che il tuo meglio dovrai creartelo da sola, né bionda, né sposa, o bionda e sposa se lo vorrai.

Libera di credere in un dio o in nessuno, figlia, libera di amare un uomo o una donna, libera quando ti chiederanno di nascondere, coprire, tacere.

Il mio amore non sa pensarti diversamente che libera.

 

Ancora con questi discorsi? di Sara Bilotti

 

«Ancora con questi discorsi?», mi sento chiedere, quando ricordo a qualcuno che esistono difficoltà oggettive nella realizzazione dei sogni delle donne.

Come se l’emancipazione femminile fosse compiuta e conclamata, come se le difficoltà facessero ormai parte di un passato lontanissimo.

Ebbene, non è così.

Parto da un’esperienza estrema: trent’anni di vita in un paese del sud, la maggior parte dei quali trascorsi nel tentativo di ignorare sorrisetti ironici e battute da quattro soldi ogni volta che parlavo di argomenti considerati tabù per le donne: sesso, carriera, politica. Durante le cene, alle donne era riservato il tavolo aggiunto, i bicchieri di plastica, i piatti di plastica. Sedute nell’angolo più vicino alla cucina, in modo da raggiungere lavello e fornelli senza disturbare gli uomini, si affannavano a mangiare il cibo già freddo, per portare quello caldo alle loro dolci metà. Dopo cena, gli uomini si riunivano in terrazza per fumare e parlare di politica, mentre le donne lavavano i piatti e si interrogavano sulla nuova collezione primavera-estate di Roberto Cavalli. In alternativa, si poteva parlare della gallina sacrificata per simulare la macchia di sangue dell’imene rotto sul lenzuolo della prima notte.

Una volta uscita da tale comunità retrograda, pensavo di avere in mano il mondo. Avevo lasciato una società basata sulla cultura contadina per entrare nella vita vera, era finito il tempo delle frustrazioni.

Mi sbagliavo. Persino in ambienti culturali resiste il pregiudizio.

Molti degli uomini di cultura che ho conosciuto sembrano sempre pronti a ricordare il fatto che la donna sia stata esaltata dall’immaginario di quasi ogni poeta e letterato, però si rifiutano di ammettere che ella sia anche stata storicamente ignorata. Nonostante l’evidenza, negano che esistano ancora differenze sostanziali di genere, nel mondo della scuola e in quello del lavoro, sbuffando e alzando gli occhi al cielo quando si tenta di tirar fuori l’argomento. Perché al danno, innegabile, si aggiunge la beffa: se parli di discriminazione e pregiudizio vuoi fare la vittima.

A ciò si aggiunge il fatto che, dopo l’illusione di felicità e benessere degli anni Ottanta, si sia tornati a un dualismo sconfortante: da una parte assistiamo all’abuso del corpo delle donne nei media, dall’altra all’esaltazione del suo ruolo di madre. In mezzo, il nulla. Alcune riviste femminili addirittura sembrano assomigliare pericolosamente alla famigerata “Enciclopedia delle donne”, che negli anni Sessanta metteva nero su bianco leggi che parevano immutabili, sottolineando la superiorità intellettuale dell’uomo e rimarcando diversità di genere che non esistono in natura.

Pare che il destino delle donne sia di nuovo legato a due scopi precisi: l’accudimento e la soddisfazione dell’uomo.

Ne consegue anche una difficoltà innegabile nel gestire la carriera: in Italia non ci sono leggi che tutelino in modo definitivo le madri che non intendono perdere il posto di lavoro, non esiste assistenza sociale, i problemi sono sempre altri, soprattutto nei periodi di crisi.

Difficoltà pratiche e pregiudizio maschile rendono dunque difficilissimo un percorso già di per sé complicato, come può essere quello di una scrittrice.

La scrittura al femminile viene accostata istintivamente alla letteratura rosa, nella maggior parte dei casi. Vedo ancora occhi sgranarsi e bocche aprirsi in sorrisi di sufficienza, quando dico che scrivo romanzi neri. Sento ancora discorsi poco legati al merito, quando si parla di donne che scrivono. Addirittura, in un momento in cui il numero delle scrittrici di successo sta aumentando, sento dire: le case editrici hanno deciso di puntare su donne giovani e belle. C’è sempre un motivo per cui una scrittrice ha successo, e questo motivo, va da sé, non è mai legato al talento.

Insomma la donna, in un modo o nell’altro, è sempre al di fuori della storia, a un passo dall’azione determinante, sfiora i più grandi riconoscimenti ma non li ottiene. Nell’anno in cui un romanzo corposo e fondamentale come Il Cardellino vince il premio Pulitzer, noi siamo ancora qui a doverci difendere dal chissà con chi è andata a letto per avere quella sedia, da l’hanno presa perché è bella.

E’ ora di cambiare le cose, e per farlo dobbiamo riconsiderare persino noi stesse, il modo in cui cresciamo le nostre figlie, i ruoli che assumiamo in famiglia, l’educazione sentimentale, i condizionamenti che abbiamo subito inconsciamente e che ci hanno convinte di dover accudire prima di emergere, soddisfare prima di essere soddisfatte. Gli stessi condizionamenti che ci hanno dato la certezza di dover diventare indispensabili per qualcuno, pur di poterci esprimere.