di Danilo Arona

DelToroSe c’è un’immagine filmica che offre un senso alla svolta letteraria di Guillermo del Toro (la Trilogia de la Obscuridad, scritta in team con Chuck Hogan), questa è l’apertura, maestosa e terribile, del film La spina del diavolo, firmato nel 2001 dall’autore messicano, in cui assistiamo allo sganciamento di una bomba dal punto di vista “soggettivo” di un aereo. Mentre l’ordigno abbandona il nostro campo visivo per scomparire diretto  al suolo tra le nuvole e adempiere con meccanica efficienza alla sua missione di morte uccidendo un bambino, una voce off si chiede (e ci chiede): «What is the Ghost?» Ovvero, siamo messi di fronte in simultanea  alla teatralizzazione in chiave gotica di tecnologia, guerra e mito. Elementi puntuali che tornano e “mordono” con efficacia nell’incisivo e spettacolare incipit del primo libro della trilogia, La progenie, dove la guerra e i fantasmi del genere, riciclati con “nuova” carne, colpiscono – di nuovo a tradimento dopo l’11 settembre –  dentro un Boeing 777, proveniente dalla Germania e appena atterrato al JFK per diffondere in America una peste vampirica, sin troppo somigliante quanto meno al suo esordio a certi virus letali ben simmetricamente distribuiti nell’immaginario occidentale.

Servirebbe già qui una digressione necessaria a richiamare le molte sottotracce che giacciono sotto questa prima maschera dei vampiri di Del Toro e Hogan. Perché la pandemia (e soprattutto il contagio come simbolo del contatto da evitarsi con il diverso) è la paura per eccellenza, al pari del terrorismo, più radicata nel profondo su ambedue gli emisferi del pianeta. Ci hanno parimenti lavorato negli ultimi vent’anni tanto blasonati autori di medical thriller (dal Richard Preston di Area di contagio al più recente Contagio di Scott Sigler) quanto le autentiche sirene di un mondo reale che spesso lancia allarmi quando non deve (il panico bene manovrato sull’H1N1 nel 2009), destando legittimi sospetti sull’eventualità di analoghi comportamenti di segno opposto (il lancio, poi per nulla spiegato nel novembre scorso, a proposito di un super-virus creato all’Erasmus Medical Center, Olanda[1]): così ne La  progenie la superstizione transilvanica infetta gli Stati Uniti per mezzo di un virus parassita in grado di prendere possesso dell’organismo ospite, mutando sostanzialmente nel giro di poche ore il suo DNA, mentre il contagiato  sviluppa un’escrescenza al di sotto della lingua, un aculeo retrattile che gli permette di nutrirsi delle sostanze contenute nel sangue per poi liberarsi del plasma, nonché capacità fisiche superiori alla norma e un’incredibile resistenza a ogni tipo di ferita.

Se persino nel villaggio globale quotidiano le paure paiono quindi il frutto di un mix equilibrato di mitologia, cronaca e medicina, si capisce perché Del Toro abbia inserito il particolare che tra i bagagli stipati nelle carlinghe del Boeing “contaminato” ci sta pure la gigantesca bara di un antico vampiro detto “El Maestro”, giusto per dare ancora più forza alla tesi. E, infatti, al di là della smaccata citazione dal Dracula di Stoker (ma il Van Helsing di turno si chiama pure Abraham Setrakian…), ancora una volta il Male invasore e intruso viene dall’Europa, con grande spiegamento di sottotesti, involontari e consapevoli.  Mitologema tipico, per non dire storico, di Del Toro al punto che già nel 2008 Alessio Gradogna già così lo individuava, nell’analizzare la filmografia del nostro[2]: «… il fantasma e la Guerra sono la medesima cosa, strumenti del terrore volti a perseguitare l’uomo sia sussurrando indistintamente per accennare soltanto la propria presenza, sia esponendosi faccia a faccia, senza remore, per ostentare l’assoluta mostruosità che in essi impera». In questo caso il fantasma è soprattutto il fantasma del Genere – il vecchio archetipo vampirico che si ricicla osmoticamente nei nuovi terrori pandemici – e la guerra è la percezione della medesima, importata dal “mondo di fuori” sul suolo americano e collettivamente metabolizzata alla stregua del noto teorema di William I. Thomas, «Gli spettri non esistono, ma sono reali negli effetti». Ma, a questo punto, procediamo con ordine.

Come per Philip Ridley la “scoperta” dello scrittore Guillermo Del Toro (Guadalajara, Messico, 1964) è veicolata  dal cinema. Ma Del Toro, all’opposto di Ridley, è soprattutto uomo di cinema, affetto in positivo da una bulimia creativa e produttiva che lo porta a firmare, garantire, far da consulente e produttore esecutivo, a spendersi insomma in prima persona e mettendoci la faccia per più di un progetto affine alla sua poetica (fra i tanti, The Orphanage di Juan Antonio Bayona, Con gli occhi dell’assassino di Guillem Morales e Non avere paura del buio di Troy Nixey). Novello e latino Roger Corman, ecco estendersi il paradosso al dato di fatto che appaiono più numerosi i progetti – per capirci, “marchiati” – che i film effettivamente girati (una lista interessante ma tutt’altro che abbondante visto che comprende quasi un ventennio di attività), stravaganza che negli ultimi tempi si accentua con la deriva letteraria della “Trilogia dell’Oscurità”, (La progenie, La caduta e Notte eterna). Verificata allora la genesi ctonia, quasi junghiana, del mondo immaginifico di Del Toro, diamo ancora una volta ragione a Gradogna,  autore dell’unico (al momento) testo critico italiano sull’artista messicano:  quello di Del Toro è sul serio un mondo di “dannati ed eroi”, dove i due termini sono funzionalmente interscambiabili perché nelle Terre di Mezzo, quell’ideale paesaggio della mente che accomuna molti autori del fantastico anche in assenza di Tolkien, il Male e il Bene – quelli con l’iniziale maiuscola – non sono così ben delineati e neppure altrettanto contrapposti. E dove il profondo senso poetico del mondo sotterraneo di un autore più che allo scontro fra gli Archetipi sembra alludere al potere della mimesi come griffe autoriale. Un ulteriore paradosso, ma solo uno dei tanti, è che il meno amato – dallo stesso Del Toro – dei film del regista messicano meglio presta il fianco a queste riflessioni.

Mimic, tratto da un racconto di Donald A. Wollheim (operazione travagliata da profondi dissensi con la produzione e da pesanti fattori personali), è al di là di meriti o demeriti un’esemplare metafora del potere metonimico degli Archetipi e della loro “con-Fusione” con le cellule in chiaro del mondo reale. Riassumendo brevemente il plot, accade che un gruppo di ricercatori guidati dall’intrepida dottoressa Susan Tyler, nel tentativo di neutralizzare un virus che sta minacciando la vita dei bambini di New York, scopre che, modificando il DNA degli scarafaggi propagatori dell’epidemia, si ottengono dei cloni “antagonisti”. Una volta introdotti questi ultimi nel biosistema della Grande Mela, l’epidemia viene così debellata con la distruzione delle blatte appestatrici. Ma nel giro di tre anni dai cloni si sviluppa una nuova specie mutante nonché gigante in grado di adattarsi alle proibitive condizioni del sottosuolo e dotata soprattutto di un’eccezionale capacità mimetica. Così i mostri possono confondersi perfettamente con l’ambiente underground delle viscere di New York nonché palesarsi come “Uomini Neri” anche nel notturno e sempre piovoso Mondo di Sopra onde poter cacciare al meglio la loro preda preferita, l’uomo.

Il tema profondo che da qui in poi informerà sempre di sé  l’opera di Del Toro è proprio questa capacità dei mostri di impersonare in modo perfetto il pavor nocturnus (Don’t Be Afraid of the Dark s’intitola appunto uno dei tanti film sceneggiati e prodotti da Del Toro) e il terrore delle cose che nel buio possono essere contenute. Il travestimento “normale” con cui gli scarafaggi mutati si manifestano all’occhio umano non è meno terrificante di quel che sta sotto. Alte e spettrali figure nere, all’apparenza avvolte in un mantello, esibenti un’inquietante e amorfa faccia giallastra, priva di espressione in quanto “maschera” in tutto e per tutto; a un millimetro, appunto, dall’Archetipo, e non a caso ai due coraggiosi ragazzini che si avventurano sotto la metropolitana alla caccia di reperti da consegnare alla Tyler, qualcuno urla prima che vengano inghiottiti dalle tenebre: «Fate attenzione all’Uomo Nero!». Perché nel frattempo questo Uomo Nero che viene dal mondo di sotto è già dilagato come idea e immagine nell’immaginario di New York (per estensione analogica l’immaginario del pianeta). Dilagato, associato, quindi inglobato e in qualche modo accettato, “normalizzato”. Non a caso c’è chi lo urta in un vicolo buio e, pur rimanendone comprensibilmente turbato, non può far altro che dire: «Mi scusi» e procedere oltre. Il Male è così mimetizzato alla perfezione e libero di agire indisturbato.

E’ il 1997 e non stiamo qui a elencare le virtù profetiche del film che peraltro ostenta una delle ossessioni tipiche del fantastico in generale, tali sin dai tempi degli Ultracorpi di Don Siegel. Quello che è interessante è che Del Toro con Mimic riesce a profetizzare in primis  la sua stessa opera in divenire, soprattutto quella letteraria.

Pur manipolato e detestato, e neppure premiato al botteghino, Mimic, oltre a  partorire un trascurabile miniserial straight to video (Mimic 2, Mimic 3 – Sentinel), nel quale Del Toro nulla c’entra, detta quindi in prospettiva una serie di costanti che si ripresenteranno puntuali nei titoli a venire: la metamorfosi archetipale di cui abbiamo detto, i bambini come vittime e protagonisti, la collisione dei mondi – il reale contro il soprannaturale, la metafisica contro la politica – e la reciproca contaminazione dei medesimi. E che s’impongono come chiave di accesso ai tre cospicui tomi della Trilogia de la Obscuridad. Sulla “forma” della quale ci tocca però precisare che, alla faccia della globalizzazione linguistica, il titolo originale del primo libro, ovvero Nocturna (da noi La progenie), in Italia è diventato il “marchio” riconoscibile della trilogia, riportato in frontespizio anche sul secondo volume, La caduta, che nell’originale chiamasi Oscura, e sul terzo, Notte eterna, ovvero e con coerenza Eterna. Se ci azzecca o meno il marketing o più semplicemente si siano tradotti alla lettera i tre titoli americani (The Strain, The Fall, The Night Eternal), ci lascia dentro un milligrammo di perplessa irritazione questa volontaria rinuncia alla titolazione originale “latina” di ben altro impatto significante, a ricordarci che tutto quanto non parla inglese è sempre figlio di un dio minore. Soprassediamo ancor più infastiditi sul termine “thriller” stampigliato sotto i titoli. Perché anche l’horror, quello autentico, nel suo primo impatto sullo scaffale continua a essere figlio di un dio minore. Marketing o trascurabile sciocchezza, fate voi.

Non è polemica pignoleria. La trilogia di Del Toro (e Chuck Hogan, scrittore per nulla noto nell’italica nazione sino al formarsi della coppia) è horror, a dirla in stressante politichese “senza se e senza ma”. I vampiri da loro proposti non sono per nostra fortuna i i pallidi  e piagnucolosi, benvestiti mostriciattoli destinati al mercato adolescenziale. Bensì mostri orribili che fanno cose orribili, circondati da personaggi di grande spessore “kinghiano” (gli autori li seguono e li tratteggiano con cura maniacale e fervore appassionato), tra i quali giova ricordare il testardo “eroe” Eph Goodweather, epidemiologo in prima linea, la sua collega Nora Martinez, il miliardario Eldritch Palmer che è il grande burattinaio dell’avvento del Male prima negli Stati Uniti e poi nel mondo intero (con il suo personale tornaconto perché vuol divenire immortale), e l’anziano ex professore universitario, sopravvissuto all’Olocausto Abraham Setrakian, l’unico che sa la verità sull’Apocalisse in corso e i cui flashback ambientati in campo di concentramento sono tra i migliori passaggi del primo libro. E, a ridosso di queste notazioni, c’è tutto Del Toro, il “bambino terribile” al quale il sistema ha inteso affiancare il professionista “controllore” (Hogan) perché in un prodotto studiato a tavolino tutto ha da essere dosato e ben equilibrato. Per chi ben conosce il cinema del nostro, non esistono dubbi: Guillermo, all’interno di una storia con parecchi rivoli scientifici e tecnologici, è colui che ti prende per mano e ti rinchiude, anche con una strizzatina d’occhio e una risatina, in quello sgabuzzino ricolmo di Orchi, archetipi e creature di un folclore che si ritiene essere solo fantasia infantile e che è stato il “deposito” immaginifico dell’ultimo, grosso modo, trentennuo. Mentre Hogan rifinisce, centellina, mette ordine e celebra le nozze, possibili e un po’ sacrileghe, tra scienza e folklore. Una notevole autometafora del fanciullo di Guadalajara che si confronta con i Babau dell’infanzia divenuti nella Trilogia i mostri dominanti il pianeta («E’ tornato il Signor Sanguisuga!», urla un pilota superstite del Boeing – Vaso di Pandora, riferendosi ai terrorizzanti racconti uditi da bambino…), è reperibile su youtube  ove sono visibili i tre booktrailer, uno per ogni tomo, ai quali Del Toro ha messo personalmente mano: immagini inquietanti che si alternano a frasi ancora più angoscianti da “Arriva un incubo che nessuno potrà fermare” a “Un rivolo sinistro percorre la città”, da “Una stirpe maledetta si diffonde nel mondo” a “Tu hai sotto la tua pelle qualcosa che li fa impazzire” fino alla mazzata finale del “”Desidererai che sia solo un racconto”. Ovvio che  c’è anche dell’ironia, ma il particolare più interessante è ogni cambio scenico viene “annunciato” dalla mano di un bambino che disegna con un pennarello l’impianto di quel che andremo a vedere. Un bambino, va sottolineato.

Riallacciandoci ancora a Gradogna, ecco che il mondo di Del Toro allora si presenta come «un grande  ricettacolo di morte e salvezza, un’unica grande opera in divenire in cui si combatte per il Bene, o ciò che sembra tale, e al contempo ci si crogiola con il Male, o ciò che dovrebbe essere… C’è la realtà storica, nera e buia, esemplificata dalla guerra civile spagnola (e il nazismo nella Trilogia), come cartina di tornasole utilizzata per dare spazio ai diversi sentimenti dell’animo umano… C’è la fiaba, ad altezza di bambino, popolata da mostri e sangue, atrocità e vendette, pericoli e fughe, ma anche amore e amicizia, lealtà e volontà, coraggio e purezza. Ci sono i vampiri (o i mezzosangue – ), i vendicatori e i vendicati, i giustizieri e le forze cosmiche della distruzione… la forza di Del Toro è la messinscena di un mondo a metà fra la Terra e il Cielo, un mondo in cui coabitano la favola e la cruda quotidianità»[3]

Il tutto con la più logica delle conseguenze, ovvero la commistione assoluta tra i generi del fantastico (medical genetic thriller, vampire story, action, fantasy, horror e altro ancora…), il che, scantonando per una riga, è quanto il mercato chiede con convinzione agli autori statunitensi ed è quel che si è negato a quelli italiani.

Amiamo Del Toro, al di là dell’evidente contagio strumentale con Hogan e il marketing. Lo amiamo per la coerenza fanciullesca senza la quale non ci si muove tra gli archetipi dell’horror. Perché l’uomo sa benissimo dove si trova. Lui vive e abita in quelle Terre di Mezzo dove troppi sostengono di essere transitati, gente che mente sapendo di mentire. E da qui deriva la sua straordinaria, multiforme e pletorica energia. Così come le sue tante, addirittura troppe, maschere artistiche che comprendono persino videogame e cartoon. In fin dei conti la vera efficacia del trittico sta proprio in questo intreccio “cellulare” tra elementi  folklorico-fiabeschi a reali incubi del presente. E in questo caso non è possibile evitare il confronto, storico e culturale, con quella catechesi della paura che il gran maestro del Maine, Stephen King, ha eretto negli anni Ottanta come monumento trans-genere: quei bambini – come Tad Trenton in Cujo – che dopo avere affrontato i mostri della propria nursery li riscoprono poi, metamorfizzati per il canonico principio del mimetismo del Male, nel corso della loro vita. Ma non si tratta  solo di banali metafore. Se l’horror contemporaneo ha avuto e ha – anche, soprattutto con Del Toro – un pregio, è quello di aver saputo riporre in un angolo il richiamo al simbolo, compiendo il miracolo di metterci di fronte a un fatto compiuto in chiave persino politica: in quel richiamo alla tradizione che sostituisce la nave Demetrio di Bram Stoker (con la quale il transilvanico conte irrompeva nel cuore della società vittoriana) con il volo intercontinentale che colpisce “il cuore dell’Occidente”, Del Toro e Hogan rimettono in scena il dramma sempiterno dell’11 settembre 2001 e dei contagi psichici che da quel momento ancora si espandono nelle menti e nei “mondi esterni”. Virus e infezioni che non appartengono soltanto al soma, ma che s’impongono come “demoni sotto la pelle” in senso cronenberghiano. Tanta verosimiglianza, unita a un’inattaccabile base scientifica, regala al genere inquietante autenticità. Non più, finalmente, prodotto di puro intrattenimento, ma, se possibile, assordante sirena di allarme in un mondo che occulti persuasori e poco raccomandabili “professori” intendono deprivare dei sensi percettivi.

 

[1]    Si tratterebbe di una variante estremamente contagiosa del virus dell’influenza aviaria H5N1 che, attraverso cinque modificazioni genetiche, sarebbe capace di trasmettersi a milioni di persone con esiti mortali.

[2]    Alessio Gradogna, I dannati e gli eroi – Il cinema di Guillermo Del Toro, Edizioni Il Foglio, Piombino 2008, pag. 88-89.

[3]    Alessio Gradogna, op.cit., pag. 37.