di Mauro Baldrati

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Amsterdam, Vondel Park, luglio 1970

I due ragazzi erano seduti a gambe incrociate accanto a uno degli stagni di acqua scura popolati da grasse e pigre anatre. Mattina, era mattina. Circa le dieci. Si poteva dormire fino a tardi, era teoricamente possibile. Ma non esisteva il “tardi”, come non esisteva il “presto”. Per dire, la postazione delle percussioni, formata da un nucleo duro di bonghisti e da ragazze e ragazzi che si avvicendavano suonando strumenti vari, era attiva 24 ore su 24. Da quando Toni Rinaldi, 17 anni e un mese, detto Jimi Hendrix, e Dennis Locatelli, 17 anni e sette mesi, detto Dennis Hopper, erano arrivati da Mezzaluna, tre giorni prima, dopo un lungo viaggio in autostop, non si era mai fermata un secondo. Quando era “presto” e quando “tardi”?

Per esempio, quel sadhu immobile di fronte a loro: un ragazzo a torso nudo e in pantaloncini nonostante un venticello niente affatto temperato, seduto nella posizione del loto, con la barba che gli scendeva fino ai ginocchi: pensava che fosse “presto”? Chi lo stabiliva?
Pensare al tempo che scorreva per quel sadhu immobile come una scultura faceva letteralmente ribaltare dalle risate Jimi Hendrix. Fissava la barba nera, i capelli lunghi sulle spalle che svolazzavano sotto quella brezza insistente e rideva fino a svuotarsi i polmoni dell’ultimo centimetro cubo d’aria. Rideva fino a cadere di lato, dove continuava a ridere rivolto al cielo grigio, coperto di nuvole. Dennis Hopper rideva a sua volta, scrollando le spalle, con lunghi “sgrooff-sgroff”, come suo solito.

Jimi si alzò, si asciugò le lacrime col bordo del maglione. Guardò l’accampamento, che si stendeva per tutto il parco, centinaia, forse migliaia di ragazze e ragazzi provenienti da tutti i paesi europei, dall’America, dall’Australia, dal Canada. Molti erano seduti in cerchio, coi grandi chilum o i joint che giravano. Stava per precipitare di nuovo in un attacco di risa convulse, quando sentì un tocco sulla spalla. Si girò. Il faccione di Gino gli apparve come un pallone sgonfio, e subito attaccò a ridere. Si ribaltò all’indietro, giacque sulla schiena dove rimase per un tempo indeterminato.

“Ragazzi, avete fumato il mio marocchino, vero?” chiese Gino.
Il suo marocchino. Come si poteva resistere a una battuta del genere? Jimi dovette mettersi carponi, per riuscire a respirare.
Il suo marocchino.
Come dire il suo afgano.
O il suo libanese.

Gino era la loro guida, un amico e il loro pusher. Anche il loro salvatore, andava detto. Appena arrivati in città, dopo dodici giorni di autostop sotto il sole, sulle autostrade tedesche roventi, si erano subito diretti alla meta: Piazza Dam, uno dei centri mondiali del movimento underground, con Londra, San Francisco, Copenaghen. Era stata anche il ritrovo preferito dei Provos, il gruppo di riferimento di Dennis, che li aveva studiati come modello di provocazione creativa, di sberleffo al Potere. Si diceva che in Piazza Dam avessero suonato gratis i Jefferson Airplane, i Grateful Dead, Bob Dylan, seduto sulle gradinate con chitarra e armonica, e per una giornata intera era stata occupata dalla grande carovana comunitaria dei tedeschi Amon Düül. Lo scopo del viaggio era di entrare finalmente nel mondo. Nella storia.

Ma cosa avevano trovato?
Solo una piazza deserta, occupata da spacciatori di eroina, immobili e indifferenti intorno alla scultura bianca a forma di obelisco. Non credevano ai loro occhi. Ma dov’era finita la gente? Cosa era accaduto? Una guerra?

Mentre si aggiravano confusi, con una tristezza e una delusione cocente nel cuore, senza sapere che fare, né dove andare, erano stati avvicinati da un tipo che si era rivolto a loro direttamente in italiano. Lo avevano guardato sbalorditi: ma come aveva potuto riconoscere la loro nazionalità? Dennis sembrava davvero il grande attore e regista di Easy Rider, con quei baffi spioventi, e Jimi portava i capelli come il vero Jimi, sotto a un cappello nero col foulard colorato. Erano cotti dal sole, piegati sotto il peso dei grandi zaini militari. Eppure quel tipo non aveva avuto dubbi. “Volete del fumo buono?” aveva chiesto, affabile, accogliente. Certo che lo volevano! E quella voce amica era come una musica dopo il trauma. Aveva mostrato loro una pallina di nero, morbida, profumata. Si schiacciava con le dita. Stavano per pagare i 25 goulden quando un altro tipo si era avvicinato, iniziando subito una discussione animata in olandese con l’altro. Forse era volato qualche insulto, o minaccia, perché il primo si era allontanato scuro in viso, gesticolando col pugno chiuso.
“Quello era fuori zona” aveva detto il tipo, in un italiano perfetto. “Qui non si vende gomma”.

Gomma?

Sì, aveva detto, era un pusher di gomma, un “paccarolo”. Abbordava chi era appena arrivato e non sapeva nulla della città. Amsterdam ne era piena, occorreva fare molta attenzione. Poi aveva mostrato loro del “vero” fumo, marocchino sputnik e afgano di prima qualità. “Provatelo” aveva detto, “poi lo comprate se vi piace. L’altro vi avrebbe fatto venire un tremendo mal di testa.”
Avevano comprato il fumo, che si era rivelato davvero spaziale, e ne avevano approfittato per chiedere notizie. Ma dov’era la gente? Dov’era il mondo?
Gino, che era originario di Milano ma viveva ad Amsterdam da cinque anni, aveva spiegato che Piazza Dam era deserta dal 1968, dopo la “Death of Hippie”. Ora c’erano gli spacciatori neri e i turisti. La gente si era trasferita al Vondel Park.

E allora andiamo al Vondel Park perdio!

Niente sputnik stamattina?

“Allora? Niente sputnik stamattina? Sicuro?”
Nuove risate alla parola sputnik. Nuove cadute di Jimi sul prato. E Gino sempre calmo. “Allora avete preso un acido? Siete stati al porto dagli americani?” Jimi si immobilizzò per un attimo. E anche Dennis. L’LSD era nel progetto. Volevano, dovevano provarlo. Il ribaltamento della coscienza di Rimbaud, l’autore preferito di Dennis, come Jimi Hendrix lo era per Jimi. Nel deserto di Mezzaluna, il paese più infelice del mondo, era introvabile. Ad Amsterdam lo vendevano i marinai militari americani, tre gocce in una zolletta di zucchero. Si andava al porto, dove era alla fonda una portaerei, e i marinai arrivavano con le bottigliette. Venti goulden.
“Neanche l’acido?” disse Gino, fissandoli pensieroso. “Ma no. Impossibile. Qualcosa avete preso.”

Jimi guardava a turno il sadhu immobile, poi Gino, poi la faccia da grullo di Dennis Hopper, e si contorceva dalle risate. Si fermò solo quando passarono due poliziotti, che lo esaminarono con aria dubbiosa. Passavano un paio di volte al giorno, guardavano, si fermavano, ma non intervenivano mai, sia che fossero in atto fumerie di massa, sia che qualcuno in trip desse di matto, sia che qualche coppia facesse l’amore in pubblico. Intervenivano unicamente in caso di rissa violenta, oppure se qualcuno si azzardava a piantare una tenda. Le tende erano severamente vietate. Si rischiava il sequestro e, si diceva, il fermo.

Però quelle occhiate critiche dei due poliziotti fecero svanire ogni traccia di riso convulso in Jimi Hendrix. Si accasciò, esausto. Gino si guardò intorno, come se cercasse qualcosa, o qualcuno.

“Ho capito. Avete fatto colazione. Giusto?”
Jimi e Dennis, ora perfettamente seri, annuirono. Indicarono un banchetto dove si vendeva frutta, piatti di riso piccante, dolci, caffè.
“E avete mangiato una bella fetta di torta. Giusto?”
Jimi e Dennis, dopo un attimo di riflessione, annuirono di nuovo.
“Ok. Era uno space cake. E qui li fanno belli carichi”.

Space cake?

Amsterdam_spacecakeGino sospirò. “Sì, torta all’hashish, o alla ganja. La sostanza viene assorbita molto più intensamente rispetto alla combustione. Una bella colazione psichedelica, anch’io ogni tanto me la concedo. Fa partire la giornata col piede giusto. Voi però avete spallato. Avete scelto una fetta di grande formato. Una bomba.”
Jimi pensò alle fette di torta al cioccolato. Non ricordava le dimensioni. Però aveva ancora sulla lingua lo strano sapore ferroso. E ricordava la vibrazione che gli era salita in gola, poi lungo la schiena, per arrivare al cervello.
Space cake.
Fondamentale.

Intanto dalla postazione delle percussioni arrivavano dei suoni di fiati e di chitarre. Decisero di andare a curiosare. Si alzarono, girarono intorno allo stagno e raggiunsero lo spiazzo. Il gruppo era alquanto numeroso. C’erano cinque bonghisti, tutti neri, un suonatore di tabla, due chitarristi, un sax tenore, un baritono, un trombone, una tromba, tutti scatenati in una interminabile jam session.

Jimi Hendrix intanto sbirciava Gino. Si teneva la testa tra le mani. Aveva la schiena curva, sembrava oppresso, appesantito. Stava immobile come il sadhu. Ma un sadhu crollato. Un sadhu esangue. Un sadhu in agonia.
“E tu che hai fatto, Gino?” chiese Jimi. Nessuna risposta. Forse non aveva neanche sentito. Ripeté la domanda. Gino alzò il capo, mostrò una faccia scura, una faccia funebre. Lo space cake continuava a mandare scariche e ondate di calore, ma la faccia di Gino impediva qualunque scoppio di risa. “Non stai bene?”

C’era chiasso, i fiati pompavano note poderose, i bonghisti picchiavano duro, il tablista aveva dita come martelletti. La gente ballava, cantava. Mentre Gino era a terra. Jimi ebbe l’impressione che piangesse.
“Vieni, facciamo un giro” disse Jimi. Si alzò, lo prese per un braccio, l’obbligò ad alzarsi.

Tornarono al loro accampamento, dove avevano lasciato gli zaini e i sacchi a pelo, seguiti da Dennis, che si muoveva a scatti, guardandosi intorno frenetico, proprio come Dennis Hopper.
“Dai Gino, adesso tocca te. Stai male? Hai preso qualcosa?”
“No, è che… devo… decidermi.”
Jimi tacque, in attesa. Guardò davanti a sé e notò con un senso di allarme che il sadhu era sparito. Poi però si accorse che erano semplicemente girati al contrario. Ora si trovava alle loro spalle. Oppure si era spostato? Con la lievitazione?
“Sento il bisogno di decidermi” disse Gino, cupo. E’ come un richiamo al quale non posso resistere. Al quale non voglio resistere. Ma ho paura, lo confesso.”

Dennis lo guardava, accennava a un sorriso, poi diventava serio, scuoteva la testa. Si toccava la collana, ma da quando aveva una collana al collo? Aveva anche inforcato un paio di occhiali neri, uguali a quelli di Dennis Hopper.

“Paura? Di cosa?” chiese Dennis.
Sì, forse ora Gino stava piangendo. Si stropicciava gli occhi, respirava forte.
“Ho paura del… della storia. Ma la voglio. Voglio quella storia. Sento che mi chiama. Mi sta chiamando a gran voce. Mi sta dicendo che sono pronto. Eppure ne ho paura. Mi faccio rabbia da solo.”

Arrivò un joint, per mano di una ragazza bionda, coi capelli ricci, lunghissimi. Occhi azzurri, luminosi. Pelle chiarissima. Scandinava. Jimi accettò il joint ricambiando il sorriso. Era ottimo, un’altra botta che si combinava con lo space cake. Un altro attentato alla coscienza. Un altro sregolamento della mente. Jimi non voleva fermarsi. Mai. Voleva andare oltre.

“Perché hai paura Gino? E chi ti sta chiamando?”
Che domande buffe. Che questione buffa. Eppure la faccia di Gino non era buffa. Era spaventata, ma anche ispirata.
“Ho paura, Jimi Hendrix. Ho paura del… rito. Mi chiama. Io voglio essere nel rito. Voglio essere il rito. Ma. Ho paura. Di lui. Ho paura del rito.”

(Continua. La seconda puntata uscirà nella notte tra mercoledì 17 e giovedì 18 luglio, la terza e ultima nella notte tra mercoledì 24 e giovedì 25 luglio.)