di Mauro Baldrati

amour.jpgIn questi tempi di giovanilismo esasperato, di grillo-renzismo, di TQ, trovare un’opera che va decisa controcorrente è interessante. Amour di Michael Haneke, già Palma d’Oro a Cannes 2012 e miglior film straniero nel carrozzone degli Oscar 2013, va in questa direzione. Benché molta critica si sia impegnata per definirlo un film sull’amore tra due ottantenni, Amour non è tale. Certo questa classificazione lo rende più accessibile, meno escludente verso chi non ha voglia di calarsi nella tristezza della vecchiaia, con la sua durezza e, in un certo senso, la sua condanna. L’estetica giovanilista si basa anche sulla sopravvivenza di ricordi post-adolescenziali: l’immortalità, l’indistruttibilità, l’intoccabilità, la capacità di superare qualunque crisi, qualunque disgrazia, perché “siamo” protetti, eterni e predestinati. La fine non è prevista, né accettata. La paura della fine è così esorcizzata, rimossa. Proprio questa paura è stata capitalizzata nei secoli, dal potere, dalla religione. Su questa paura atavica prospera anche il mercato del giovanilismo: alla crudeltà della fine naturale viene opposto un “agito”: all’enunciato freudiano dell’uccisione del padre, simbolico, si oppone un passaggio all’atto, con l’uccisione reale dei padri, con le varie “rottamazioni”, le sostituzioni generazionali, l’avvicendamento al potere solo su base anagrafica. Facendo trionfare la propria invincibilità si cerca di fermare il tempo, di rendere eterno un segmento di vita.


In realtà in Amour il tempo non è fermo, ma esaurito. E’ un film sul fine vita. L’amore, se è rappresentato, è il rapporto di una esistenza terminata, l’attaccamento di due persone che, arrivate a un punto di non ritorno (l’esatto contrario del giovanilismo, dove lo spazio è immobile), non hanno altre possibilità che cercare di gestire il residuo di tempo a disposizione. Non ci sono tenerezze né languori, né nostalgie in questo film crudo, che racconta senza reticenze la discesa agli inferi della vecchiaia, della malattia, e della morte. Cercare di cambiare le carte in tavola è comprensibile, visto che nessuno può chiamarsi fuori. E’ più ricreativo immaginare (promettere?) baci tra ultraottantenni, seguirli nell’evoluzione (o de-evoluzione) del sentimento, quando il corpo cambia, perde energia, tensione. Ma non c’è nulla di tutto questo in Amour. In un dramma da camera, l’intero film girato in un appartamento, con tre personaggi più alcune comparse, senza le esagerazioni e le sciatterie di un Carnage, uno dei due crolla. Tocca alla donna, colpita da un ictus e da una paralisi progressiva, che degenera rapidamente fino alla mancata autosufficienza, fino alla devastazione. Il marito dovrà accudirla, servirla, annientare se stesso. Non senza scatti d’ira, non senza durezza, irritabilità, contraddizioni, esasperazione. Lo fa perché non ha altro. Perché deve. Perché questo è il suo divenire. Lo fa finché ha energia, finché tutto crollerà definitivamente, e il buio non si avvicina più, ma cala, come una cappa nera, sul fine vita.

Questo è “amore”?
E’ questo l’amore tra vecchi?
Se è così, si tratta di una scelta arbitraria dello spettatore. L’amore di Amour non è una trasfigurazione, né un messaggio di speranza. La fine passa sopra a ogni cosa, e costringe gli ultimi, i vecchi, a rinchiudersi nell’appartamento-sarcofago aspettando l’epilogo.

Jean Louis Trintignant, 82 anni, che interpreta Georges, vaga per la casa come una specie di marionetta, forse per un problema di deambulazione. Lava i piatti, cucina, legge il giornale. Si accorge subito che in Anne c’è qualcosa che non va. In lui non vediamo solo il passato di grande attore gauchiste, di esistenzialismo, di nouvelle vague; sembra di sentire il suo autentico nodo di disperazione, per un evento in grado di abbattere per sempre l’esistenza di un adulto: la morte della figlia Marie, uccisa nel 2003 dal compagno Bertrand Cantat, leader del gruppo rock Noir Désir, che, ubriaco, la picchò a morte.

Emmanuelle Riva, 86, grande attrice di Alain Resnais, Pontecorvo, Bellocchio, amica di Marguerite Duras, bella (può essere definita bella una donna di 86 anni? Emmanuelle Riva lo è), porta il personaggio di Anne verso il declino irreversibile con un tale realismo, con una tale mutazione fisica che alla fine del film, quando la rivediamo in forze, in una sorta di visione di Georges, restiamo confusi, increduli.

Isabelle Huppert, 50 anni, una sterminata carriera di attrice impegnata con Tavernier, Goretta, Chabrol, Ferreri, Taviani, è la figlia Eve, musicista, che quando la madre precipita nell’abisso cerca di entrare nella vita blindata di Georges, di strappare Anne dalla sua bara domestica di non-morta per farla rinchiudere in un’altra bara, un istituto per vecchi non autosufficienti. Ma viene respinta, letteralmente, duramente, da Georges, che vuole rispettare le ultime volontà di Anne, che aveva orrore degli istituti.

L’ultima volontà di Georges, e forse di Anne, è l’epilogo che non può avere mediazioni, né varianti, che non concede scusanti né condanne.
Questo finale può, o “deve” essere un estremo atto d’amore e morte?
Quasi tutti i commentatori concordano.
Forse perché è difficile accettare che l’ultima caduta nell’abisso, quello da cui non vi è ritorno, non possa essere un “simbolo”: di espiazione, di riscatto, di dolcezza.
Ma, semplicemente, la pietra tombale della parola “fine”.