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Anna Curcio e Miguel Mellino, La razza al lavoro (testi di Sandro Mezzadra, Giorgio Grappi, Costanza Margiotta, Chiara Bonfiglioli, Luca Queirolo Palmas, Enrica Capussotti, Caterina Mieli, Gianluca Gatta e Renate Siebert), manifestolibri, Roma 2012, pp. 174, € 24.00

Ad occuparsi di “razza” e “razzismo” si corre il rischio di ritrovarsi in un terreno vischioso, sul quale è facile scivolare sulle asserzioni del senso comune. Dopo tutto, cos’altro c’è da dire che non sia già stato detto? La “razza” non esiste, lo sappiamo tutti: è solo un pregiudizio. Il razzismo è il prodotto dell’ignoranza, dell’irrazionalità, forse dell’arretratezza rispetto alla modernità: e allora, piuttosto che attardarci a spiegare e rispiegare ciò che tutti sanno, non dovremmo indirizzare le nostre energie verso la realizzazione piena e senza residui dei processi di modernizzazione? E poi, diciamocelo: in Italia il razzismo non è mai davvero esistito: non è, anche questa, un’asserzione di senso comune? E allora, perché attardarci su fenomeni marginali — in fondo, la Lega fa un uso puramente strumentale degli slogan razzistici, i neofascisti sono un residuo ininfluente del passato, l’assassino dei due extracomunitari di Firenze era solo uno squilibrato…

Se avete sentito almeno una volta una di queste asserzioni di senso comune, e vi è sembrato che in fondo ci fosse del giusto in queste parole, avete una prima, buona ragione per leggere questo libro collettivo. Rinchiudere il discorso sulla razza nell’ambito delle dottrine “scientificamente errate”, dunque in una sorta di pre-modernità, significa infatti attenuare, se non nascondere, il rapporto che si intreccia tra i discorsi e gli enunciati sulla razza e gli specifici rapporti sociali che costituiscono la modernità: quasi fosse, la modernità, un luogo neutro e asettico, e non il prodotto di uno specifico modo di produzione capitalistico. In secondo luogo, significa celare alla comprensione la dimensione materiale e strutturale del razzismo «al centro della stessa costituzione coloniale della modernità capitalistica, sia al cuore della costruzione e della narrazione degli stati nazionali moderni e quindi dei loro stessi concetti di “cittadinanza”». Come ribadiscono Curcio e Mellino, «la nozione moderna di razza, così come le diverse forme storiche di razzismo a cui ha dato luogo, rappresentano un dispositivo di comando costitutivo di tutte le formazioni capitalistiche moderne» (p. 8). «Il razzismo è per noi strettamente connesso ai rapporti di produzione e alla loro trasformazione, poiché trae la sua principale “linfa necropolitica” dai cambiamenti, dalle rotture e dalla crisi nell’organizzazione sociale e politica» (pp. 23-24). In altri termini, le “razze” esistono davvero, non come dati ontologici o biologici, ma come costruzioni discorsive, come prodotti degli apparati di governo e controllo della forza-lavoro; ovvero, come sottolinea Sandro Mezzadra, all’interno della costruzione dello spazio nazionale come “incrocio di entità mobili” impensabile «al di fuori dell'”insieme dei movimenti che si determinano al suo interno”. L’istituzione di un territorio nazionale e dei suoi confini […] ha sempre avuto a che fare con questa intersezione di corpi in movimento, con la gestione della mobilità» (p. 38). In questo senso, nella tarda modernità in cui ci troviamo il termine “emigrazione” è diventato anche in Italia «il nuovo nome della “razza”» (citato da Balibar, p. 40).

im_not_racist.jpgA partire da questo nucleo concettuale si aprono, in questo densissimo lavoro collettivo, una serie di piste di ricerca, indagate sia sul piano teorico, sia su quello dell’inchiesta sul campo. Ne sintetizzo alcune: l’intreccio tra il discorso della “razzializzazione” e i rapporti sociali; la “perdita di memoria” dell’origine razzistica della modernità in senso generale, e di quella peculiare forma di entrata nella modernità che fu per l’Italia il processo di unificazione nazionale; la presenza di un substrato razzistico, sempre negato e sempre nascosto, all’interno della storia italiana; il legame tra stereotipi delle rappresentazioni di genere e la produzione dei discorsi razzisti; il ruolo della razzializzazione nella costituzione delle soggettività identitarie e nazionali.

«Per razzializzazione, scrivo i curatori, intendiamo l’effetto sul tessuto sociale di una molteplicità di discorsi e pratiche, istituzionali e non, orientati a una costruzione, a una rappresentazione, gerarchicamente connotata delle differenze (“fisiche” e “culturali”, “reali” e “immaginarie”) tra i diversi gruppi e soggetti e quindi al disciplinamento dei loro effettivi rapporti materiali e intersoggettivi» p. 29). Lo spazio sociale viene così costituito in base a meccanismi di inclusione-esclusione, gerarchie tra migrante e sedentario, e all’interno dello spazio assegnato ai migranti tra migranti più o meno “buoni”, dove l’aggettivo “buono” designa la capacità del migrante di adattarsi alle condizioni di sfruttamento salariale, di lavoro subordinato o illegale; ovvero, di creare imprenditorialità migrante (dai migranti vietnamiti negli USA a quelli albanesi in Italia), collocandosi così in una posizione intermedia nella gerarchia sociale. Ma attenzione: non si tratta di praticare un approccio riduzionistico che risolve nella dimensione economica la complessità della questione: se la riorganizzazione del razzismo è funzionale ai bisogni della produzione e al governo del lavoro vivo, «la traduzione di questi bisogni esprime un’esigenza generale di disciplinamento che trascende il momento dell’erogazione di lavoro, ma trova in esso uno snodo fondamentale. Il razzismo istituzionale funziona dunque utilizzando anche il colore della pelle e le caratteristiche fisiche o culturali, ma questo non costituisce il suo obiettivo. […] A definire la razza o l’etnia non sono soltanto, allora, caratteri preesistenti rispetto alla condizione di migranti, ma anche la classificazione burocratico-amministrativa che si articola a vari livelli, da quello della legislazione nazionale a quello delle politiche locali per l’integrazione, e che si pone alla base della costruzione dell’immaginario sociale» (Giorgio Grappi, p. 51).

La costruzione razzializzante dell’identità del migrante chiama in causa altre costruzioni identitarie: ad esempio, quella femminile. Lo evidenzia Chiara Bonfiglioli, introducendo il tema dell’omonazionalismo, «l’appropriazione di discorsi relativi all’uguaglianza di genere e di orientamento sessuale a fini razzisti e nazionalisti» (p. 77). Nelle rappresentazioni dei corpi, all’interno dell’immaginario piegato sul discorso mediatico-politico. Esemplari sono gli enunciati del cosiddetto “Ruby-gate” (“e se Ruby, anziché essere lo specchio di tutti i mali e di tutti i vizi del mondo, fosse un simbolo di emancipazione della donna musulmana?”; “è meglio essere appassionati di belle ragazze che gay”) e del caso Strauss-Khan, che testimoniano come «i corpi femminili — specialmente quelli delle donne velate — vengono usati per significare e imporre le dicotomie di progresso/arretratezza, noi/loro, cristianità/Islam, essere-europea-essere altra»: la donna europea è rappresentata «come libera ed emancipata, come simbolo della modernità occidentale, mentre le donne non-occidentali simboleggiano l’arretratezza del resto del mondo»; al tempo stesso, «l’omofobia viene presentata come una prerogativa delle popolazioni migranti» (p. 80).
Ma anche l’identità italiana si è costituita in un complesso intreccio tra italianità e razzializzazione: «le radici delle peculiari forme della razzializzazione nella storia italiana, scrive Caterina Miele, [vanno] ricercate in tre nodi problematici: la contiguità tra emigrazione e colonizzazione; la coevità del processo di unificazione nazionale con l’epoca del massimo sviluppo delle dottrine positiviste e biologiste sulla razza; la strutturalità del razzismo antimeridionale come controcanto del discorso sulla modernizzazione italiana». In altri termini, pur nelle sue storiche specificità, il processo di modernizzione in Italia non ha quei tratti di anomalia o di particularità che lo differenzierebbe dal resto dell’Occidente: la storia italiana si integra «a pieno titolo in quel comune destino europeo di crimini e violenza razziale, operati innanzitutto nel teatro coloniale, e di virulente prassi discorsive e politiche di costruzione della differenza finalizzata all’inferiorizzazione, al controllo e al domino delle classi sociali subalterne, dei colonizzati e, oggi, dei migranti» (p. 105). L’identità italiana si costituisce sulla scia delle dottrine razziali del positivismo, per un verso attraverso la teorizzazione dell’esistenza di «due diverse “razze” sul territorio nazionale, una ariana al Nord e una negroide (con un alto tasso di influenza africana) al Sud», la cui più chiara espressione è il pensiero di Alfredo Niceforo: dottrina che fu ampiamente utilizzata negli Stati Uniti come «supporto teorico alla costruzione di una precisa tassonomia di mansioni e a una conseguente gerarchia salariale fondata su basi razziali che permise di gestire le migrazioni di inizio Novecento» (p. 24). Come nota altrove l’eccellente analisi di Francesco Festa, «secondo questa divisione, i popoli dell’Italia Meridionale sarebbero passionali, individualisti, con scarso senso morale e spirito organizzativo; mentre, i Settentrionali avrebbero una psicologia fredda, un “io” scarsamente eccitabile, tendente alla socialità, all’organizzazione, a interessi politici. Queste sono le distinzioni a cui, con altre implicazioni razziste e politiche, giungono gli antropologi positivisti, seguiti poi da criminologi, sociologi, biologi, psichiatri, ecc. Si coniano teorie, elaborando tipizzazioni rispetto a una presunta “meridionalità”, di modo che emergano paralleli fra gruppi di popolazioni che, secondo distinzioni razziali, sarebbero “inferiorizzabili” e “subordinati“, per natura». Quello stesso italiano diviso tra Settentrionale e Meridionale recupera il gap di inferiorità rispetto alle altre nazioni attraverso l’avventura coloniale, porta d’ingresso nella modernità: un vero e proprio processo di de-provincializzazione dell’Italia, cui non è immune la più “illuminata” borghesia progressista — ad esempio Luigi Einaudi, secondo il quale l’emigrazione coloniale dimostrava «quali tesori di energia e ostinata volontà possedesse la nostra razza» (Un principe mercante, 1900, citato a p. 110).
La linea del colore nelle colonie africane passa attraverso l’intreccio di brutale violenza militare, e di dottrina positivistica (da Lombroso a Cipriani), i cui esponenti «contribuirono a fare del razzismo il principio fondante della legittimazione delle conquiste coloniali. […] Le teorie sull’inferiorità dei “meridionali”, di cui si ipotizzava l’appartenenza alla razza “negroide”, si intrecciarono all’istituzione della linea del colore in colonia: la questione meridionale veniva così esorcizzata nelle politiche razziali dell’Impero, pur continuando ad interferire nell’elaborazione nazionali di discorsi sulla razza» (pp. 111-112).
L’assenza di una reale messa in discussione della supremazia bianca al cuore della narrazione nazionale ha poi consentito, nel secondo dopoguerra, «una nuova traduzione del razzismo» che ha interessato i migranti meridionali: «dentro diffusi processi di inferiorizzazione e subordinazione, centinaia di migliaia di giovani furono indotti a svolgere lavori dequalificati con posizioni irregolari dal punto di vista amministrativo. Molti lavoravano a cottimo o in subappalto nell’edilizia. Altri, tra cui molte donne, furono impiegati “illegalmente” in una sorta di “artigianato di ritorno” all’interno dell’indotto industriale. Solo chi era in possesso della residenza trovò lavoro negli impianti industriali, spesso con mansioni usuranti. E alla razzializzazione si affiancò ciò che possiamo definire un processo di illegalizzazione del lavoro sostenuto da una vecchia legge fascista contro l’urbanesimo. In questo modo, gran parte dei lavoratori immigrati si ritrovarono come “clandestini” in patria, sospinti nelle nicchie del lavoro irregolare» (pp. 26-27).

racisme.jpgNon è difficile vedere un prolungamento di queste dinamiche nelle forme attuali della razzializzazione: sia in quelle esplicitate dall’asse Lega-neofascismo, sia in quelle annunciate da Grillo in più di un’occasione («Un Paese non può vivere al di sopra dei propri mezzi. Un Paese non può scaricare sui suoi cittadini i problemi causati da decine di migliaia di rom della Romania che arrivano in Italia. L’obiezione di Valium [= Romano Prodi] è sempre la stessa: la Romania è in Europa. Ma cosa vuol dire Europa? Migrazioni selvagge di persone senza lavoro da un Paese all’altro?», I confini sconsacrati) e mai criticate dai suoi adepti. Il perché è nel cuore della creazione del mito degli italiani brava gente con la quale viene tutt’ora riscritto il nostro passato: «l’incapacità della cultura italiana del dopoguerra di elaborare sia il suo criminale “passato coloniale”, sia il “passato fascista”». Questa incapacità avviene nelle forme di quella che Lacan chiama forclusione: il meccanismo di autodifesa con cui l’Ego espelle dalla cultura e dal Simbolico quel significante traumatico su cui viene a fondare la sua (sedicente, pretesa) integrità e coerenza: «non è difficile assumere che questa continua negazione dell’esistenza del razzismo nel dibattito pubblico e politico sta a significare proprio l’opposto: oggi in Italia buona parte dei conflitti sociali — e ancora di più con l’aggravarsi della crisi economica globale — riescono a trovare espressione (a divenire leggibili per gli agenti sociali) soltanto in termini razzisti e razziali. È proprio la forclusione della razza e del razzismo a rendere possibile al tempo stesso sia la razzializzazione come fenomeno materiale che il razzismo come fenomeno culturalmente impensabile» (Curcio e Mellino, p. 19).

Il processo di forclusione non è soltanto il modo in cui l’italiano medio si salva la coscienza allontanando dalla narrazione della propria storia il fondamento stesso della propria storia: è al centro della propria autocomprensione come “cittadino”. La necessità del migrante come fulcro di un dispositivo di inclusione-esclusione consente di definire la cittadinanza in relazione con ciò che è (o sarebbe) l’oltre della cittadinanza, e al tempo stesso di supportare un discorso razzista che non si autocomprende in termini di razzista: con le parole di Costanza Margiotta, «la figura del migrante è una componente essenziale del processo di inclusione-esclusione. Il migrante permette la riproduzione continua della figura del cittadino, non essendo il cittadino una presenza auto-evidente. La discriminazione del migrante irregolare o illegale è costruita grazie a una facile scorciatoia verso la legittimità: la cittadinanza. […] L’identità data di un non-cittadino è prodotta legalmente, e nel discorso pubblico diventa un nemico socialmente criminalizzato grazie alla retorica sulla sicurezza. Lo Stato ha il “legittimo” potere di discriminare tra cittadino e straniero, regolando l’accesso al territorio dei non-cittadini, ma è obbligato a permettere l’accesso a tutti ai diritti internazionalmente riconosciuti per il loro carattere eccezionale e non per il carattere eccezionale del caso specifico. Questo atteggiamento favorisce nell’opinione pubblica la credenza che la negazione della cittadinanza autorizza e giustifica automaticamente la negazione di qualsiasi diritto a coloro che sono titolari dello status personae» (pp. 73-74).