di Dziga Cacace

Free Your Mind
And Your Ass Will Follow
Funkadelic

ddv4100.jpg416 — Il Grande Black Out del 2003 e A Fish Called Wanda, diretto per procura da Charles Crichton, Gran Bretagna 1988

Vedere film è tanto bello, ma ahimè c’è anche da portare a casa la pagnotta televisiva e oggi è stata una campale giornata di copione e prove: sudore, sangue e lacrime prima della prima, che registreremo domani. Torno a casa vagamente esaurito e penso che questa città mi ucciderà perché è zeppa di animali in macchina e perdo mezz’ora per trovare un maledetto parcheggio. Entro in casa, accendo Televideo e apprendo che: venti morti a Haifa, botte da orbi a Roma e due cosiddetti No Global arrestati. E allora decido di scoppiarmi un film che possa sollevarmi da questo fardello di pensieri, l’adorato Un pesce di nome Wanda. Perfetto il plot, perfetti gli attori, quasi perfetto il ritmo, un po’ sornione e con qualche caduta nella farsa. Ma il godimento è assicurato, specialmente da John Cleese, l’avvocato Archie Leach (il vero nome di Cary Grant), spento e impacciato british man sotto le cui ceneri cova la passione troppo a lungo repressa. Jamie Lee Curtis — avete presente in Una poltrona per due, quella scena? —, mai così accattivante, è la molla di ogni appetito, sessuale o venale che sia. Un pesce… è la storia di una fuga (dalla famiglia, dalle convenzioni, dall’Inghilterra, dal lavoro, dalla borghesia) ed è anche una riuscita contrapposizione tra due visioni del mondo: quella americana — vitale, strafottente, ingorda, menefreghista — e quella inglese — pomposa, rigida, repressa, tradizionalista.

Menzioni anche per John Palin, il timido Ken coi pantaloni azzurrini perfettamente attillati, e per il premio Oscar Kevin Kline, il fantastico ignorante superomistico Otto. Soggetto e sceneggiatura di John Cleese, regia del settantottenne Crichton (e un po’ si capisce) e comicità a livelli stratosferici almeno in quattro scene. L’ho visto per la quinta volta e ho pensato che non capiterà più fino ai miei cinquant’anni, quando assumerà tutto un altro sapore. La prima fu con Ferro e Donde all’Odeon di Genova, nell’inverno del 1988: pesavo quindici chili di meno e c’erano l’URSS, l’apartheid e la Thatcher e non è detto che si stesse peggio. Comunque: erano 22 giorni che non vedevo un film, uno dei più lunghi digiuni cinematografici della mia storia di spettatore (interessantissimo, lo so) e nel frattempo sono successe alcune cose, strettamente personali, okay, ma se io vedo i film in una certa maniera è perché vivo in quella maniera, non si scappa. E chi, su riviste e quotidiani, non vi parla di sé non può e non sa farlo neanche dei film che recensisce, no? Vabbeh: comunque una settimana fa, il 27 settembre, è stata una peculiare giornatina di lavoro e divertimento. Il programma che faccio deve difendersi continuamente da denunce e, anche se finora c’è andata bene, gli avvocati costano. Motivo per cui ci imbarchiamo in operazioni che ai più potrebbero apparire insensate, come prestarci alla realizzazione di un calendario per il turpe mensile Maxim. La faccenda è ben retribuita e il fotografo è Patrick Demarchelier, quello dei ritratti a Lady D., per dire: perché no, dunque?
ddv4101.jpgIl giorno stabilito confluiscono sul set fotografico alla Triennale di Milano (la location, ché fa figo dire così) il mondo del giornalismo e del fashion, mortacci loro. Ed è una cialtronata che non ci si crede, perché tutti si dicono che ogni cosa è “eccezionale”, dal vestito che indossi al tempo che fa, e tutti si convincono che lo sia semplicemente perché continuano a dirselo a vicenda. Io mi guardavo con alcuni miei colleghi: saremo mica vittime di uno scherzo? L’augusto Demarchelier contribuisce alla messa in scena illusionistica sottolineando i suoi scatti con poche scelte parole, in crescendo: “Bon! Superbe! Génial!”, per poi tornare professionalmente all’inglese e intimare ai valletti “Okay! Another set please, let’s go! Move, move!”. Un vero grandissimo briccone che trinca vino e piglia per il culo a caro prezzo il parassitario mondo del glamour, qualunque cosa significhi. In serata l’immersione nell’effimero continua con una cena celebrativa al Gioia 69 (…) localaccio frequentato da puttanieri e puttane assortite. E dal Cacace, che ci sta come un guanto. Non potendo far altro, stordito da musica orrenda e ipnotizzato da tanto silicone che neanche in un bidone Saratoga da trenta litri, bevo e mangio come una belva. Torno a casa con Pier Paolo e son le 3 e mezza di notte e mentre siamo ancora in macchina, all’improvviso, il black out generale. Tutto nero, ma nero nero come in una foresta del Congo in una notte senza luna. Incredibile. Anche bellissimo, se volete. Solo che il giorno dopo i ministri Lunardi e Castelli (…) asseriscono che dobbiamo dotarci di centrali nucleari. Altrove le smantellano, noi ce le dovremmo costruire per evitare altri black out energetici notturni (a fabbriche chiuse e consumi bassi). Roberto Castelli. Ministro. Della Giustizia, oltretutto. Che pazienza. E poi, dopo un mese di dolore, ho fatto la mia prima visita dall’andrologo, il quale mi ha sottoposto a un controllo della prostata con agevole ditata lubrificata dal retro. “Si metta a novanta gradi, potrebbe darle fastidio”. Macché: perché la verità è che siamo tutti preda di un retaggio culturale omofobico. E alla fine il dottore ha concluso la sua visita — dopo un’ora di termini scientifici e ricercatissimi — con un liberatorio “Lei ha, deo gratias, due bei coglioni”. Perdono il latinismo, perché la conclusione è che lì non ho niente, il che è già qualcosa. Seguiranno ulteriori indagini. (E non ditemi che avere male alle balle non influisca sul parere di ciò che vedo, eh?). (Dvd; 4/10/03)

ddv4102.jpg417 — Final Destination di un prevedibile professionista, USA 2000

Dopo laute libagioni, rassegnate discussioni politiche e conseguenti bevute alcoliche, ci dedichiamo assieme alla cugina Alessandra a un innocuo filmetto di serie B dove degli odiosi studenti americani schiattano come mosche: colpi di scena assortiti, trama non indecente e attori non canissimi. Prodottino iettatorio per teen agers USA perfetto anche per il babbaleo che di questi tempi alberga in me, Final Destination (perpetrato da tale James Wong) c’è passato in fretta, lasciandoci con un buon gancio narrativo per un seguito che non vedrò mai. Ho poche certezze, questa è una. Nel frattempo anche la realtà ha fornito parecchi spunti degni di un horror di bassa lega: mentre la maggioranza sembra andare verso la dissoluzione senza che l’opposizione presunta se ne renda conto, il 7 ottobre uno che era fascista – ma poi sostiene di essersi pentito – ha detto una cosa neanche di sinistra, semplicemente umana e logica: ha chiesto il voto per gli immigrati, cioè di chi qui lavora e paga le tasse, richiesta che la sinistra supposta (non uso il termine “supposta” a caso) s’è dimenticata di fare, diciamo da una ventina di anni a questa parte. La proposta ha fatto scalpore (“Dare il voto… ai… NEGRI?!?”) e se ne son presto dimenticati tutti, promotore incluso che però ha fatto la figura del democratico. Ma era un fascista. Ed era in questura a Genova, durante il G8. Ricordo poche cose, questa è una. Intanto sul lavoro siamo tutti nervosetti e io, dopo la registrazione dell’ultima puntata, ho tirato un potente calcio a una porta, solo che non era in legno pieno come credevo, ma alveolato. Per cui non ho rotto il piede, ma la porta sì, rimanendo incastrato nel telaio come succede ai cartoni animati. Tanto, grazie alla Tremonti, il nano se la scalerà come costo, vedrai (ma figurati: l’ho pagata io fino all’ultimo cent, la maledetta porta. E poi me la sono scalata come costo di gestione. E beh, ci mancherebbe). Faccio cose stupide ultimamente, questa è una. (Dvd; 11/10/03)

ddv4103.jpg418 — Il silenzio dopo lo sparo dell’ottuso Volker Schlöndorff, Germania 1999

Presentato alla Berlinale, applaudito dal pubblico teutonico e segnalato dalla critica italica Il silenzio dopo lo sparo è un film scritto, girato e fotografato col culo. Questa immane schifezza tratta della storia di una terrorista della R.A.F. che fugge nella Germania Democratica, dove avrà vita comunque difficile. E quando sembra arrivata alla pacificazione con la società e con se stessa, paf!, cade il Muro. Fuga disperata ancora più a Est, per finire falcidiata da una guardia di confine. Giuro che ho goduto e avrei puntato e scaricato il mitra anche contro il regista e gli sceneggiatori. Schlöndorff ha la mano leggera come un minatore ebbro e firma un film tutto urlato, scoordinato, frenetico senza motivo e senza alcun approfondimento psicologico, tanto meno politico. Una merda di pellicola, rozza e declamatoria, tagliata con l’accetta, dove il parallelismo tra l’incertezza politica e quella sessuale è insistito, morboso e antipatico. Le due protagoniste principali (Bibiana Beglau ha una bella faccia, in effetti) hanno vinto a Berlino il premio come migliori attrici: mah. Il risultato di questa tragica visione è che adesso non avrò più alcuna autorità nelle mie proposte a Barbara: ha borbottato come una caffettiera per tutto il film e me la farà pagare. In fondo alla cassetta c’è Martin, A Little, intervista di Ciprì e Maresco al divino Scorsese che ci racconta la sua infanzia nella New York “siciliana”. Niente che non ci abbia già detto miliardi di volte in ogni intervista, ma fa comunque piacere sentirlo dalla sua voce (in un inglese perfettamente intelligibile). E poi ci siamo guardati Friends che, dopo una cinquantina di episodi di Sex and the City, sembra infantile, irreale e soprattutto poco divertente. Ho amato Friends — lo giuro, vostro onore! — perlomeno fino alla quinta serie. Poi ho sempre più perso interesse e ormai, alla nona stagione, non ci credo più. M’annoia, m’imbarazza, si ripete, non sorprende: è diventato una soap opera dove l’unica curiosità risiede nell’anticipare le acrobazie di sceneggiatura per movimentare l’intreccio copulativo. Un po’ poco, dài. (Vhs da Tele+; 16/10/03)

ddv4104.jpgA corte di Ritchie Blackmore
Ovvero: la mia prima testimonianza per conto di Rolling Stone

Non è un film, ma è come se. Perché se uno si chiede che fine abbia fatto Ritchie Blackmore, l’uomo che ha coniato il metallo nobile dei Deep Purple, l’inventore del riff archetipo di Smoke On The Water, viene a sapere che il suddetto se la spassa suonando musica antica sulla chitarra acustica in una nuova formazione, i Blackmore’s Night. Eh?! Sissì. E l’ho visto! Il grande chitarrista è uscito dal gruppo, un mese dopo che l’avevo visto in concerto a Milano, dieci anni fa. Adesso veleggia verso i sessanta e, complice il sodalizio artistico e sentimentale con la sua nuova compagna (la simpatica bambola Candice Night, da cui il nome della band), è uscito di coccio e ha cominciato a suonare melodie rinascimentali, madrigali e ninne nanne. Uno dice l’amore, eh? Siccome voglio testimoniare l’incredibile evoluzione stilistica, non mi lascio scappare l’odierna esibizione milanese del “nuovo” Blackmore. Tra gli spettatori c’è qualche metallaro old style con jeans elasticizzati, Adidas Jabbar con strisce blu e chiodo nero, ma soprattutto — e non sono neanche pochi — c’è la corte dei miracoli che abitualmente segue i concerti dei Blackmore’s Night. Praticamente le comparse della Melevisione: questo è uno happening, un salto nei secoli bui, un gioco condiviso da Ritchie (in stivali di feltro e giubba trattenuta da cintura con fibbione), la sua compagna (addobbata da fatina) e un’allegra compagnia conciata da giullari e cortigiane. Coi bracieri ardenti ai lati e il lugubre castello sull’orizzonte, il palco è scenografato come una piazza medievale; mancano giusto i ceppi e un catering a base di sidro e cinghiale da sbranare direttamente dagli spiedi. Quando prendo posto in quinta fila devo far spostare alcuni spettatori vestiti come Troisi e Benigni in Non ci resta che piangere. Davanti a me una famiglia con padre e madre usciti da un dipinto del Caravaggio venuto male e figli pietosamente mascherati da moschettieri, anche perché — per dei bambini — non si devono essere trovati costumi più adatti di quelli. Mancano giusto il mago Zurlì, la strega Nocciola e i classici nani di corte ad allietare la folle atmosfera. Poi parte il concerto e devo dire che non è niente male: gli ultrà danno il via alle danze con una teoria di inchini enfatici, scappellamenti piumati e balletti a braccetto. Blackmore a un certo punto mette da parte liuti e ghironde e sfodera una Stratocaster bianca, concedendo un contentino ai metallari depressi. Ma si ritorna subito all’ortodossia medievale, per finire tra grandi piroette e allegre danze bucoliche. È un gioco, insomma, ma suonato bene. Ma come tutti i giochi, rischia di durare poco. (Teatro Smeraldo, Milano; 25/10/03)

ddv4105.jpg419 — Buongiorno, notte dell’onirico Marco Bellocchio, Italia 2003

È una giornata peculiare (come vedremo più avanti) e questo sembra il film giusto. Dunque: Barbara è un animaletto estremamente intuitivo ma anche logico e ogni suo giudizio è ponderato in maniera esasperante. Beh, stavolta rifiuta il film addirittura sui titoli di coda, cosa che non è mai avvenuta in quattordici anni di vita assieme. Io invece sono confuso ma felice e trovo Buongiorno, notte una straordinaria prova d’autore. Straordinaria perché completamente fuori dall’ordinario cinematografico, unica, inedita: la rilettura dell’evento che più ha segnato la storia politica italiana recente, il caso Moro. L’uccisione dello statista sembrò sancire la sconfitta delle BR e il loro scollamento da quella zona intermedia di intellettuali e giovani che si trovavano in mezzo al guado. Diede il via alla repressione più feroce e indiscriminata, creò clamorose crisi di coscienza all’interno del Movimento e della lotta armata, seppellì la possibilità di un dialogo. Fu uno spartiacque politico e morale. E Bellocchio cosa fa? Prende la Storia per brani significativi e la rimonta in forma di sogno, mettendoci incongruenze, didascalismi, eventi grotteschi e intime notazioni umane: rivisita il sequestro Moro e ne fa una riflessione claustrofobica e spietata sulla propria generazione (che nel mito della Rivoluzione aveva creduto) e sulla generazione che l’aveva seguita (che la Rivoluzione aveva provato a praticare). La scrittura del film è spiazzante e il montaggio aumenta questa sensazione: chi si aspetta un film realistico viene preso in contropiede. Qui, la logica è quella dell’inconscio: le accelerazioni temporali, le scene stranianti e le spiegazioni non richieste possiedono dinamiche oniriche, fino all’emozionante e liberatorio finale dove si concretizza quella che — mai confessata apertamente — deve essere stata la speranza di molti, la liberazione magnanima del prigioniero nemico. L’associazione dei sogni è libera: disturba, disorienta, ma ci rivela molto di quello che non possiamo o sappiamo dirci, del carico di utopie tradite in cui tuttavia s’è creduto con generosità nonostante il dolore e il sangue, e c’è un significato intensissimo in quella panchina di Lenin vuota (ma non chiedetemi quale, eh). È kitsch l’accostamento tra le urla orgasmiche di The Great Gig In the Sky dei Pink Floyd e le immagini dei partigiani uccisi dai nazifascisti, sono grottesche la corte papale o la famigerata riunione col medium (partecipava anche Prodi, probabilmente dormendo) da cui uscì il nome cui nessuno diede retta: Gradoli (qui, il nome è Bernardo ed è un private joke col Maestro Bertolucci). Buongiorno, notte è provocatorio e intensissimo e il rischio del ridicolo è costantemente sfiorato. Io ho provato fastidio quando i quattro brigatisti ripetono come un mantra che “la giustizia proletaria vincerà” o al primo accostamento tra le lettere dei condannati a morte della Resistenza e la sentenza fatale a Moro, ma poi questo delirio visivo, musicale e concettuale ha sempre avuto più senso, come la camminata finale del prigioniero liberato (lo splendido Roberto Herlitzka), sotto la pioggia, trascinata da un allegro Momento musicale di Schubert, mentre sullo sfondo sventola un’impossibile e diacronica bandiera della pace. Più ci penso, più mi sembra un’opera riuscita: una presa di posizione di un intellettuale su un argomento scomodo, cosa che oggi nessuno fa più. E il cinema torna a essere uno strumento di discussione. Tra gli amici, Riccardo lamenta il Moro troppo buono e il Moretti troppo cattivo. Forse non l’ho notato perché non sono un brigatista come lui o perché questo mi sembra un film di uomini, di emozioni, di sentimenti, di pietas e non di sola politica, dove la Storia vale nella sua reinvenzione. E anche perché il film si conclude con il titolo e poi una lenta emblematica carrellata sulle facce di bronzo al funerale di chi venne lasciato morire. Bellocchio s’è offeso come un bimbo di quattro anni per non aver vinto il Leone d’oro: ma Marco: che t’importa? I premi sono materia per gossip giornalistico; il film rimane bello, intenso e scomodo anche senza un trofeo sulla mensola. Proiezione maldestra con l’audio della sala a fianco che si sente durante i silenzi di Bellocchio. Torniamo a casa e dal tg apprendo che Andreotti è stato assolto in Cassazione per il delitto Pecorelli, per “non aver commesso il fatto”. Ma signori giudici, guardate che mica crediamo che l’abbia ucciso materialmente lui, eh? Vabbeh. Poi rimanendo sempre in tema seventies ci vediamo l’intervista doppia Faranda-Cossiga, scritta da me e Riccardo e realizzata da lui, bella e inquietante. (Cinema Eliseo, Milano; 30/10/03)

ddv4106.jpg420 — The Experiment del ligneo Oliver Hirschbiegel, Germania 2001

Il Grande Fratello in mani ai tedeschi: ve lo potete immaginare? Altro che le nomination e i pianti italici. No, una prigione ovviamente nazista (evvai di luogo comune, loro — forse inconscio, ma emblematico —, non mio!), con regolamento inflessibile e secondini e controllori che vogliono il sangue vero, per capire quali risultati dia l’Esperimento. Ma in mezzo alle cavie c’è un giornalista, eh eh!, capito il furbacchione? Il film è un po’ gnucco e prevedibile, ma cresce discretamente, poi si appiattisce e non sorprende più fino alla fine, in una teutonica legnosità punto gradevole. Niente di che: è un film tedesco, ho detto tutto. Intanto è arrivato sugli schermi The Dreamers e io levito felice per l’aere pregustando una mia deliziosa parentesi bertolucciana. E in quest’atmosfera sospesa vengo a sapere che l’attore Roberto Zibetti, conosciuto sul set di Io ballo da sola (dove aveva fatto indigestione di angurie, lordando poi il set con torrenziale vomito rosato) e poi visto delinquere recitativamente in film come Nonhosonno e Radiofreccia, ha infine trovato un ruolo nella soap Incantesimo. Non so bene perché, ma la cosa mi pare aver senso. Forse sono depresso. (Dvd; 1/11/03)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 41)