di Luisa Catanese

“…una stabile guarnigione di soldati spagnuoli,
che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese …”.
A. Manzoni

CatAlb.jpgAll’ultimo Consiglio di classe, il padre di una mia alunna ha detto: «Noi insegniamo ai nostri figli gli stessi valori che insegna la scuola, ma la sfida è impari: la televisione…»
No, non è vero, ho pensato, mentre dicevo di sì con la testa.
I valori non sono parole. Le parole non bastano. Gli insegnanti non sono la scuola. La famiglia non è la mamma e il papà. La televisione… Non ho detto nulla. Ho preferito discutere di quella classe piuttosto che della scuola come istituzione.
La figlia di quell’uomo è una ragazza intelligente, studiosa, educata. Non prende la parola quasi mai. In un tema, però, ha scritto che certi suoi compagni limitano il suo diritto allo studio. È un punto di vista assai parziale, ma la ragazza non ha torto. Nella riunione si è parlato a lungo di certi suoi compagni che «disturbano la lezione». Non vi dico cosa fanno: potreste disprezzarli. E disprezzarli, così come considerarli vittime dei genitori, degli insegnanti, o dell’intera società umana, non serve a cambiare la nostra vita e a trasformare il mondo.


Appena sono tornato a casa, ho riletto alcune pagine di Autobiografia di un altro, il manoscritto che Mario mi ha regalato prima di andare a vivere dove si parla una lingua straniera.
Mario R. è stato mio compagno di scuola. Lo conosco da quando ho imparato a leggere e scrivere.

***

Non sembrava una scuola. Era una casa fra le altre. Faceva pensare a una palafitta. Era molto vicina al fiume, a due passi dal Treno, un casamento grigio, lunghissimo, abitato da immigrati del Sud.
Negli anni ’80 fu chiusa e rimase vuota per alcuni anni. Nel 1990 fu occupata da giovani immigrati, senegalesi e marocchini senza casa.
Oggi l’edificio delle mie scuole medie è diviso in due parti: un centro di prima accoglienza per immigrati e un commissariato di polizia.

La madre ogni notte lo bacia alle tempie e nel buio scompare. Nel buio, quella notte e molte altre notti, c’è una ragazza. Quella ragazza è il cuscino, il materasso, le coperte che la madre di Mario rimbocca. Quando la madre spegne la luce, il bambino è un animale che si accoppia nella tana. La tana sono i seni della ragazza. La ragazza è un animale, un grande felino con i seni da donna, e lui è il maschio. La ragazza non è un’alga che odora sulla sabbia bagnata, non è come la donna che si spoglia e si veste, quando il bambino si sveglia a casa del fratello del padre. La ragazza non è la donna con la faccia da vecchia. La ragazza ha le guance rosse, i capelli lunghi, bagnati; è seduta sulla vasca da bagno, l’accappatoio è socchiuso. Lo abbraccia, lo stringe, mormora il nome del ragazzo che ama: «Amore, amore…» Il bambino non è quel ragazzo, ma nell’abbraccio è avvolto e si muove il corpo del bambino. La ragazza sussurra di non dirlo a nessuno, sarà il loro segreto.
La porta del bagno è chiusa, non è chiusa a chiave. L’uomo dice a Mario di entrare. Il bambino apre la porta. L’uomo è seduto. L’uomo bagna i vestiti e i capelli del bambino. La porta è chiusa, non è chiusa a chiave. Il bambino entra in bagno. L’uomo si alza in piedi per coprirsi. Il bambino si avvicina e lo tocca. L’uomo gli sporca i vestiti e i capelli. La porta è chiusa, non è chiusa a chiave. L’uomo gli dice di entrare. Gli dice di aspettare, ha quasi finito. Il bambino lo vede, si avvicina, lo tocca. L’uomo gli bagna i vestiti e i capelli. La porta è chiusa, non è chiusa a chiave. Il bambino entra in bagno. L’uomo chiude la porta. L’uomo gli sporca i capelli e i vestiti. La porta non è chiusa a chiave. Il bambino è in bagno. L’uomo entra, si toglie i calzoni, si siede. Gli viene nei vestiti e nei capelli.
Gli ha sporcato i vestiti e i capelli. È un odore insolito. Cerca di pulirlo, ma le mani sono sporche e lo sporca di più. Anche se l’odore è diverso, al bambino ricorda lo sterco di cane nei sandali, fra le dita dei piedi. O forse no, è lo sterco di cane che gli ricorderà le mani dell’uomo.
La moglie dell’uomo apre la porta del bagno. Grida, maledice il marito, piange. Cerca di pulire il bambino. L’uomo impreca, gira su se stesso, agita le braccia. L’uomo apre la finestra e solleva il bambino. La donna urla, abbraccia la vita dell’uomo; si aggrappa all’uomo che sporge il bambino dalla finestra.
L’uomo ha aperto la finestra e solleva il bambino. Non è facile ricordare l’ordine dei gesti. Non è facile credere a quel minuto, dopo tre ore, dopo trenta anni. È solo un minuto della vita, meno di un minuto: una piccola cosa, meno importante, di anno in anno, di altri minuti. Il corpo del bambino non esce mai del tutto dalla finestra. Questo è sicuro. Almeno una parte del corpo, la testa e le braccia, o le gambe, resta in casa. Le mani dell’uomo o le mani della donna trattengono una parte del suo corpo. Forse le mani della donna afferrano i vestiti, i capelli del bambino. E le mani del bambino afferrano i vestiti dell’uomo e della donna, si aggrappano alla finestra, al davanzale. Se le mani del bambino non afferrano i vestiti dell’uomo e della donna, se il bambino non si aggrappa alla finestra e al davanzale, le mani della donna lo trattengono, forse lo afferrano per i vestiti, per i capelli. Forse le grida della donna frenano l’uomo. Forse le grida di un vicino. Forse l’uomo voleva davvero affacciarsi alla finestra col bambino per mostrargli gli alberi del giardino. Qualcuno in giardino li ha visti. Da un’altra finestra li vedono. No, nessuno li vede.
Non è ancora successo niente che gli cambi la vita. Quelli che vogliono fargli credere che sarà segnato per sempre, quelli che lo vogliono convincere, quelli che gli credono senza ascoltare, quelli che non vogliono credergli, sono quelli, non lo sterco di cane, che gli fanno del male.

A scuola Mario non va in bagno volentieri. Ha paura di incontrare i fratelli Milizia che chiedono il pedaggio per l’uso del cesso e mettono le mani addosso ai più piccoli. Anche questa mattina Salvatore e Pasquale, a turno, ciascuno ridendo del gesto dell’altro, davanti a tutti, nel cortile della scuola, hanno afferrato per i capelli, alla nuca, un ragazzino molto piccolo. Gli hanno abbassato la testa fino alla cintura e gli hanno detto: «Metti la testa a posto».
Mario vuole che la scuola dell’obbligo finisca. Vuole studiare in una scuola dove Salvatore e Pasquale non possano entrare. Desidera che siano eliminati. Sogna i suoi compagni in fila, muti, finalmente muti, verso lo spogliatoio di una palestra buia.

Bologna, 1978-2008