di Marilù Oliva
zagaria.jpg«Ho ritrovato anche qualcosa che avevo perso da anni, ho ritrovato il mio corpo. E proprio quando l’ho ritrovato non sono riuscita ad accettarlo, perchè ormai lo sentivo rubato e sfruttato». (Anna Maria Scarfò)

“Malanova” (Sperling & Kupfer), come altre opere della giornalista Cristina Zagaria, parte da una storia vera, cruda, feroce, quella di Anna Maria Scarfò – altra voce del romanzo -, storia consumatasi in Calabria, a San Martino di Taurianova: dai tredici ai sedici anni Anna Maria è stata in balìa di un branco di compaesani, tre uomini che hanno abusato di lei psicologicamente e fisicamente. Quando ha trovato la forza di ribellarsi a questo giogo e denunciare i suoi aguzzini, si è esposta a un nuovo tipo di violenza, più ambigua e invincibile perché basata sul numero, sul pregiudizio e sull’ignoranza: l’ostracismo sociale di un paese che ha scelto di schierarsi a favore degli uomini incriminati, additando Anna Maria come unica responsabile, come “la puttana”, la “Malanova”, e perseguitandola subdolamente. Punizioni molteplici in cui, per assurdo, le prime a scagliare le pietre sono state proprio le donne: quelle coinvolte come mogli, madri o fidanzate dei veri colpevoli.


Cosa ti ha maggiormente colpito, in questa storia, per decidere di raccontarla in un romanzo?
La violenza di una cultura. La violenza delle donne. La violenza del paese. La violenza che può esprimere il nostro Sud. Da tutto questo sono partita, non solo dalla violenza degli uomini su una donna. La storia di Anna Maria Scafò doveva essere raccontata perché lei non è stata solo vittima del branco, ma anche della cultura del suo paese, che l’ha condannata come “puttana”, perché ha rotto la regola del silenzio. In questa storia le vittime sono tante, non è solo Anna Maria. Per me sono vittime tutte le donne, le madri, le sorelle, le mogli degli stupratori che si sono scagliate contro Anna, la sorella e la madre di Anna…che hanno dovuto subire come lei, e poi c’è la Chiesa, l’intero paese…è una storia che ha dell’incredibile, se pensiamo che è una storia vera, nell’Italia di oggi.

Hai visitato i luoghi della violenza, ti sei documentata in loco. C’è qualcosa che non immaginavi e che hai scoperto stando a contatto con la realtà narrata nel romanzo?
Sì, sono stata in Calabria, a San Martino di Taurianova, Taurianova, Cittanova. Con Anna Maria abbiamo percorso i luoghi della sua storia, le campagne dove hanno abusato di lei. Sono stata nelle caserme dei carabinieri e nello studio dell’avvocato Rosalba Sciarrone. Non avrei potuto lavorare diversamente. E nella realtà non cercavo “scoperte”…non mi aspettavo niente e non mi sono stupita di niente. Ho solo guardato, osservato, assorbito umori, modi di dire, atmosfere, tempi, detti, abitudini, sguardi, silenzi… per poter scrivere dall’interno la realtà. “Malanova” è un romanzo puro, ma la raccolta del materiale l’ho condotta come se fosse un’inchiesta giornalistica. È sempre da questo “mix” che nasce la mia scrittura.

Anna Maria ha scelto, nonostante l’ostracismo sociale, di restare nel suo paese ed è stata inserita in un programma di protezione. Vive sotto scorta e non può uscire di casa, anche perché i suoi aguzzini hanno scontato il carcere e ora sono in libertà. Cosa spinge una comunità a fare scudo contro una vittima?
Il mantenimento dello status quo ante. La paura del cambiamento. L’abitudine all’omertà e al silenzio. L’ignoranza, usando questo termine come mancanza di occasioni di sviluppo culturale e sociale.

Si può definire questo libro un tributo all’altra metà del cielo violato. Qual è l’atteggiamento diffuso, in Italia, nei confronti delle donne che subiscono violenza?
Questo libro, anche per volontà di Anna Maria, è stato scritto come testimonianza per tutte le donne: la violenza si può sconfiggere con il coraggio della denuncia. Per il resto, non si può generalizzare l’atteggiamento in Italia, nei confronti delle donne vittime di violenza, ma proprio dopo due mesi di presentazioni di “Malanova”, posso dire che non solo al Sud, ma anche al Nord, la donna che decide di denunciare un abuso deve lottare non solo contro il proprio senso di pudore, il trauma, le insicurezze… ma anche contro una comune e diffusa (più di quanto immaginiamo) opinione che forse è “stata lei a provocare”. Voglio dire che viviamo ancora in una cultura profondamente maschilista. E mi riferisco prima di tutto a noi donne.

Oltre a quella fisica, esiste anche un altro tipo di violenza più sottile, meno denunciabile: quella della subordinazione, delle possibilità sempre più ridotte —soprattutto a livello dirigenziale- per una donna piuttosto che per un uomo?
Assolutamente sì. E questa subordinazione è nella testa degli uomini, quanto nella concezione che le donne hanno di se stesse.

Come si potrebbe ovviare a queste mancanze della nostra società?

Con il confronto tra uomo e donna, senza ghettizzare la discussione solo nei circoli “femminili”. E soprattutto con leggi chiare e nette, che tutelino le vittime nel momento della denuncia e le accompagnino durante tutto il processo, fino a un attimo dopo che la sentenza è stata pronunciata.

Se tu dovessi aggiungere una postilla sull’utilizzo mediatico oggi della figura femminile?
Direi alle donne di aver una stima più alta di se stesse.

Ci saluti con una citazione da “Malanova”?
Io sono la Malanova, per chi ha abusato di me, perché non mi fermerò se non davanti alla verità. Io sono la Malanova per chi non crede nella forza delle donne. Io sono la Malanova per quelle madri e quelle mogli, che difendono i loro mariti e i loro figli, per paura, abitudine, ignoranza. Io sono la Malanova per chi nella mia terra ha paura di denunciare, di rompere il silenzio, di cambiare. Io sono la Malanova perché cerco l’amore.