florio1.jpgdi Giuseppe Genna

[Questa breve spy story è stata pubblicata dalla rivista Maxim, con illustrazioni di Gianfranco Florio. E’ inedita sia su Web sia in libro. gg]

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La via era stretta, la perpendicolare obliqua di un’arteria squallida e intasata: auto di pendolari sonnolenti sempre, emissioni multiple, il vecchio smog sostituito dal nuovo, nell’era del metano e del silicio. La palazzina: curva, stile fascista, vernice esterna verdemarcio, quattro piani. Borghese piccola piccola. Piena periferia. Stonate prove di acustica, disarmonici suoni disturbanti dalla parallela alla via, che era chiusa (uno sguardo allarmato nel constatare la parete di marciume e metalli contorti contro cui terminava quel vicolo cieco: presenza di bidoni arrugginiti: tracce di traffici oscuri, chiarissimi a chi osservava: acidi, materiale da discarica abusiva, tossico, inquinante, radioattivo, che decade a millenni da ora). Una discoteca, lì dietro, che occasionalmente era stata monitorata (piaceva ai russi, uno era stato ospitato la notte, dormiva dentro la discoteca, Kolarov si chiamava, uno che trafficava in uranio, trasportava codici di cassette di sicurezza elvetiche che solo lui sapeva, a memoria: la chiave perfetta del globo decadente – una chiave umana. E lo avevano sorpreso al buio, svegliandolo, i capelli grassi biondi, un ucraino in realtà).

Nessuna portineria.
Due battenti in griglie di alluminio.
Non citofonare.
Tra poco le volanti riempiranno la via, lo stanco ispettore arriverà un poco più tardi, dismesso, lo sappiamo tutti come va, ormai.
Non si può mai sapere come va. Captata la richiesta di intervento alla polizia di Metropolis, chi troverà sulle scale, sulla scena?
Un colpo secco al centro dell’incrocio delle barre di alluminio: si piegano, si spezzano, anche il vetro va in piccoli frantumi, non c’è sangue, è solo una piccola porzione in frantumi. E’ spezzata la serratura, saltata un metro più in là, nell’androne: ombroso, fresco. Un riparo modesto alla periferia di Alphaville.
L’ascensore: legno moganato, il pulsante classico a fianco anni Sessanta, le cifre a segmenti come nei settanta negli orologi al quarzo: quarto piano.
Salire le scale. Lentamente, pesantemente.
Quando sta svoltando nella tromba delle scale a destra in vista del secondo piano, i corpi nell’androne, giù: massaie preoccupate, massaie frenetiche ed eccitate, l’orgasmo dell’omicidio, “Hanno sfondato la porta!”, “L’hanno uccisa senza pietà!”, le banalità delle storie multicolori che roteano attorno alla morte.
Al quarto piano. Ecco la porta, semichiusa. Dovrebbe trattarsi di un bilocale, secondo le indicazioni che gli hanno inviato sul cellulare.
Uno sguardo veloce (ancora non si avvertono le sirene: è un bene).
Un piccolo corridoio, buio: da percorrere.
La cautela innalzata a difesa è una forma di attenzione che fa scattare verso il salto di attacco. L’uomo è un felino, in occasioni ambigue.
Sulla destra: un cucinotto stretto, la luce di latte che stenta a entrare dalla finestra ingrigita da lievi croste di smog. Il bicchiere di acqua non terminato sul tavolo in tek. Piatti, nel lavello finto inox.
Sulla destra: il bagno. Porta chiusa, smerigliata. Nessuno dentro, in quanto buio? Cautela.
Sulla destra: la sala. In realtà: tre letti e la televisione satellitare. Pareti ingiallite, la vernice bianca troppo vecchia per reggere alle usure dei respiri unticci dei clandestini, della grande ruota umana che è girata qui, corpo che sostuiva corpo, lo stesso letto per centinaia di dormienti clandestini.
Dritto sul fondo, finalmente: la stanza finale.
Lei è lì.
Qualcun altro è lì: le massaie orgiastiche chi avranno lasciato a fare la guardia?
Sporgere la testa rapidissimo: un uomo. Settant’anni, forse più. Chino sul letto. Sta toccando la gamba della donna morta. Si sta strusciando la mano sulla cerniera dei pantaloni. Lo sappiamo tutti: sta per.
Entra, deciso.
Il vecchio ha un sussulto, si chiede balbettando se per caso loro della polizia, e poi va a sbattere la nuca contro la parete rivestita di carta arancio e grani bianchi. Si fa male alla testa, si accascia. Incosciente. Non è grave.
florio2.jpgEcco la donna.
Rivoltarla.
La schiena inarcata naturalmente, schiena di latte. Le natiche, la perfezione della pelle. La lieve peluria.
Rivoltata: è abbagliante. Carne bianchissima. L’anomalia è sul collo.
Ovviamente: è cinese.
Dove avrà messo il filo d’arianna che ci permetterà di uscire da questo labirinto?
Il loro impero è ovunque, nelle strade delle nazioni esaltano il loro anonimo mandarinato.
Le sirene. Clamori dalla strada. Arrivano le volanti.
Il letto, sfatto. Lei: nuda, eterea oltre la bellezza. Questo sogno infranto, i molti pensieri, i giochi sporchi… Come si dice spesso delle cinesi: una bambola di porcellana. In un giallo si direbbe: la ceramica si è rotta.
La borsa: presa. Aprire i cassetti del mobile vecchio e laccato con cura, le incisioni dorate per conferire un’aura di buona fattezza, di sicurezza illusoria ma permanente.
Nel cassettone: niente.
Nelle pieghe del letto: niente.
Ovunque: niente.
Il livido dello strangolamento sta maturando: grasso, approssimativo, petecchiale.
Accontentarsi della borsa: le volanti si sono fermate con grande stridìo dei freni: all’americana, in piena suburra a Sin City.
Uscire sul pianerottolo, salire verso i solai. Un colpo secco alla porta in legno fragile che porterà sul tetto: infatti, le scale verticali, poche. L’odore di cemento e calce vecchia. Il buio trafitto da polvere a particole, soffocante. L’ultima porta, nuovamente un colpo secco, e quindi è sul tetto incatramato e respira una boccata di aria umida e afosa l’Uomo dei Servizi Italiani.
Si sposta per i tetti, in digradare, saltando infine dietro la barriera di bidoni arrugginiti sospetti (invierà un sms alla sede centrale: non torna nulla in quei bidoni, bisogna controllare i bidoni). Spazio di un largo cavedio lasciato a discarica: erba e rifiuti, plastica. Tra le reti di una branda verticale, dietro fusti rugginosi: gli imbecilli della polizia davanti al portone forzato.
Va verso la discoteca dove avevano beccato Kolarov (la testa del russo che salta, sussulta al colpo di silenziatore, quel tremito, quello scatto pneumatico, come un sisma fatto di un’unica onda, e poi il gorgoglìo, il rilassamento dei muscoli, delle carni, dei cervelli, la testa esplosa come un ribes schiacciato…)
La borsa della cinese. “Ti prego, fa’ che…”
Trovato!

Il nome è Fan Qianrong, coniugata Nicotra. Certificato di matrimonio, allegato ai documenti, nel portafogli gonfio: Salvatore Nicotra di Torre Annunziata. Uno che presta se stesso a matrimoni a ciclo. A meno che non fosse un documento falsificato. Ma non rischiano. “Questi non rischiano” pensa l’Uomo dei Servizi Italiani. Fa caldo sotto la tuta da moto e rilascia folate calde il motore e anche il serbatoio del vecchio Monster Ducati. Almeno potesse levarsi il casco…
Fan Qianrong. Una puttana, come sempre. Un centro massaggi, al solito.
Era già davanti alla vetrina: Centro Massaggi Kichi, dietro Porta Romana, a pochi isolati dalla scuola di teatro: saranno famosi o credono ancora di poterlo diventare, i giovani idioti italiani.
La vetrina del Centro Massaggi: l’estetica sempreguale delle decine di parrucchieri o negozi di massaggio — figure occidentali in grafica Hello Kitty. Imbarazzante, nella città di Blade Runner. Ogni negozio, un posto sicuro dove approdare, rifugiarsi, dirigersi in Germania, in Svezia. Magari approdare a e ripartire da Amburgo, come aveva fatto nel 2001 Mohammed Atta.
Era ora di levarsi la tuta aderente di sintex nero.

Trader Armani: gessato lucido. Scarpa D&G: una stringata Kristal. Orologio: Tudor Heritage al polso. Nessuna arma: bisogna fare in modo che non serva. La barba lievemente accennata. L’aria matura e scapestrata quanto basta per uno che ha superato i 45. A passi sicuri verso il centro massaggi delle puttane cinesi. Aprire con decisione, mantenendo flessuoso il polso, per non risultare ridicolo nel caso la porta risultasse chiusa.
Infatti: è chiusa.
Aspetta, controlla il cellulare, ha l’aspetto di un Nokia Xpress e non lo è. Attende qualche secondo.
Un ennesimo sorriso ipocrita di una cinese: quanti ne ha visti in pochi giorni? E’ una delle operazioni più fastidiose che…
“Cerco Fan”.
Il volto improvvisamente corrucciato della puttana cinese. Lui entra. Le altre puttane sullo sfondo: arredamenti umani.
La cinese scuote la testa. “No Fan”.
“Fan. Fan Qianrong”.
La puttana cinese continua a scuotere la testa. “No c’è nesuna Fan qui, no viene, noi masàgi…”.
Scostarla. Avvicinarsi alla fila di “porcelline”: così chiamano le clandestine fuoriuscite quelli che le fanno fuoriuscire dalla madre Cina.
Intimorite, una gestualità elementare e idiota.
“Fan. Cerco Fan. Chi abita da Fan? Chi sa dove abita?”
Nessuna risponde, sembra che abbiano visto la mummia di Deng Xiao Ping risorgere dal mausoleo di Stato: è venuto a riportarle nelle campagne del Sichuan, il vecchio comunista.
Sulla sinistra: scale. Deve essere veloce e preciso. Scende.
Profumi disgustosi, dolciastri. Aromi artificiali. I lettini con i separè. I manager e gli impiegati non mangiano alla pausa pranzo, qui a Paperopoli: si fanno assaggiare.
Stanza sul retro. Porta anonima. Ovunque: puff di boa viola acceso. Dietro la porta: armadi.
Nel primo: niente, roba delle altre, vestiti flosci. Secondo armadio: niente, borse delle puttane, profumi e mutandine rosa. Terzo: centro: il microdisco della videocamera digitale, dentro un portafoglio identico a quello di Fan. Ci avevano azzeccato.
Risalire le scale con calma. La puttana cinese al telefono: chiama aiuti connazionali.
Un rapido sguardo alle tremule creature Han: una a caso. “Sei tu Fan?”. Lo sguardo sorpreso di tutte.
La prende per mano, la guida sotto, sulle scale si ferma, il gessato Armani è comodo, la stoffa che scivola sulle gambe conferisce una preziosa sensazione all’epidermide.
Si fa assaggiare.

Casa sicura: davanti al Palazzo di Giustizia. Impossibile parcheggiare. Telecamere ovunque. Fare della casa sicura la propria casa. Dicesi “casa sicura” il covo che l’intelligence mette a disposizione in territorio ostile per i suoi agenti: un luogo privo di pericoli dove ripararsi, riposare, nascondersi, attendere. Case sicure in piena Mumbai Padana. A casa nostra, siamo estranei. E poi: un servizio segreto è tale soltanto se non lo si chiama servizio segreto. Chiamiamolo Terzo Servizio Segreto, visto che i due italiani li conosce anche il figlio del portinaio. Non va bene. Non bisogna avere in mente che lo sia: né servizio né segreto.
Quindi la casa sicura è: uno degli studi fotografici più in vista della città.
Per l’Uomo dei Servizi Italiani, una stanza in cohousing.
Due piani per culattoni che truccano modelle e armadilli che scattano le foto in cambio di sesso semplice, invocato a ogni flash. Un sesso continuo, una ruota per criceti. Le modelle: enti bionici, glomeruli allungati, sagittari dalle anche meccaniche ad altezza ascelle, mascelle squadrate di titanio e sguardi che emanano iodoformio e ipnotizzano senza alcuna ragione.
Dentra la Stanza. Seconda porta interna: blindata. La luce è troppo intensa. La mancanza di finestre non è sufficientemente attenuata dall’aria condizionata, rarefatta e gelida. Il laptop sulla scrivania nerolucida. Si muove nel bianco abbagliante. Il microdisco della digitale. Prepara l’unità esterna per leggerlo.
Connessione riuscita. Ricerca dei driver: completata. Doppio clic sulla periferica. Inizia il carnevale delle brutte immagini.

florio3.jpgSono decine di ragazze cinesi, nude. Qualcuna è palesemente minorenne. Carne fresca in un ambiente iodato, saturo di vapori salini. La camera trema. Viene passata di mano: Fan entra in campo. Il collo era molto più allungato, a cigno, di quanto si aspettasse: l’avevano strangolata con violenza incontrollata. E’ nuda anche Fan: l’aveva vista soltanto due ore prima, nuda. La videocamera riprende male, tremula. Seguire con lo sguardo Fan: incede tra corpi scivolosi, nudi. Le donne superano la ventina, l’ambiente pare saunistico, privato — l’interno di una villa, forse. Fan procede, guarda i corpi delle altre puttane. All’improvviso, sprofonda.
E’ inginocchiata. La testa ondula. Sta assaggiando un uomo. Si intravede la pancia piatta dell’uomo. Si intuisce una capigliatura argentea. Non entrano in campo i connotati.
Aspettare.
Le altre ragazze: si baciano, si leccano, fingono, gemono senza goffaggine.
Si alza di colpo l’uomo con la pancia piatta e la capigliatura argento. E’ l’Uomo Famoso che nessuno si attendeva. Fan lo sta assaggiando fino in fondo.

Alla sede centrale devono avere discusso in una riunione lunga, molto lunga, circa l’opportunità. La situazione: i cinesi del Te Wu (il servizio segreto di Pechino) utilizzano a Milano un contatto di altissimo livello, che intermedia con gli arabi. E’ da qui, da Gotham, che si stanno preparando le Nuove Torri. Ci impiegheranno un decennio. Ingegneri cinesi addestravano qaedisti nei campi afghani, verso il confine pakistano, nel 2000: indisturbati. La guerra li ha disturbati. Il contatto italiano che fa da mediatore: è connesso con gli arabi. Sua moglie è araba. Lui dirige diverse società. E’ al top. Insospettabilissimo. Ora ci si spiega la necessità di un servizio segreto personale, parallelo, che girava per tutta la sua rete di società.
I componenti passeranno attraverso lui. I suoi viaggi a New York. O in Brasile: è più semplice.
Alla fine, alla sede centrale, avevano acconsentito.

Sta uscendo dallo stadio dove ha urlato. Lo stadio sta ribollendo di gioia. Scende con le guardie del corpo, entra nella Mercedes Facelift.
Un uomo in Ducati Monster passa accanto rombando, le tre body guard sono infastidite, si voltano. L’uomo con la capigliatura argento è stupefatto, si sta allargando sulla sua camicia Eton, si allarga a vista d’occhio, la macchia di sangue ad altezza pancreas.
Le scosse di dolore arrivano al cervello.
Il cadavere di Fan si scuote nella bara vicino all’inceneritore.
Le Nuove Torri non esplodono, crollano nei millenni.
L’Uomo dei Servizi accelera verso la periferia della Piccola Mela Marcia, questa città di tradimenti insospettabili e silenziosi. 2010: e tutto ancora passa di qua.

Siamo ancora vivi. Siamo anche noi vorticanti nel grande maelstrom.