di Cristiano Governa

BenjaminButton.jpg“Mi chiamo Benjamin Button e sono nato in circostanze singolari…”; nascosto in un incipit del genere c’è un dono straordinario. La possibilità di associare la quotidianità del nome di un comune essere umano al fascino misterioso di quelle “circostanze singolari” che non tutte le vite possono permettersi. Di essere uno qualunque e, al tempo stesso, uno “speciale”. C’eravamo noi di cui tutti si scorderanno e c’era uno del quale valeva la pena raccontare la vita. L’incipit è collegato all’idea stessa che ha dato vita al soggetto, un filino meno nuova di quel che si pensa, ma comunque potenzialmente foriera di spunti interessanti, dell’uomo che nasce anziano e man mano che la sua vita prosegue, invecchia ringiovanendo. Una vita al contrario.

Sia pur con le dovute differenze (un uomo settantenne risoluto al suicidio viene colpito da un fulmine e regredisce nell’età) il film di Coppola Un’altra giovinezza (2007), dal romanzo di Dominic Matei, aveva recentemente scandagliato alcune possibili rotte di questo mare affascinante degli eventi vissuti all’indietro. La polpa, insomma, c’era ed era pure d’autore, il soggetto infatti si ispira ad un racconto di Scott Fitzgerald (Il grande Gatsby). Stiamo andando bene, un perfetto “amo” d’inizio, una grande idea di base, un racconto d’autore, e il regista è David Fincher. Il cineasta del Colorado in pellicole come Seven, The Game e Fight Club ci aveva dato tre perfetti saggi delle sue capacità, ma soprattutto del suo sguardo: penetrante, cupo, ma luminosamente vivo pur nell’assenza assoluta di speranza (Fight Club, il paradigma perfetto). La sceneggiatura? Ecco, qua forse la faccenda si complica. Se del tipo di apporto riconducibile al lavoro di Robin Swicord (Piccole donne, Matilda 6 mitica, Amori e incantesimi) si può ricavare un’idea leggendo i titoli ai quali fino ad oggi ha collaborato, così non è per Eric Roth (certamente il più famoso e complicato fra i due).
Per molti infatti Roth è da considerarsi “grande” per via del suo adattamento di Forrest Gump, che in realtà, a detta di chi scrive, è solamente la sua cosa più rassicurante e di successo (nelle società al crepuscolo culturale le due cose tendono a coincidere). Roth ha già dimostrato che può fare di tutto, da L’uomo che sussurrava ai cavalli a Insider. Diciamo dunque che lui è in grado di soddisfare la “richiesta” (e con essa il “mercato” che la supporta) e può dare a Mann una sceneggiatura come quella di Insider e a Spielberg quella di Munich. Secondo me ci siamo capiti. Personalmente preferisco i gusti di Mann, e credevo anche Fincher. Devo ricredermi, ma non è un problema e certamente non lo è stato per la produzione, alla luce dei tre Oscar che il film ha ricevuto. Infatti, dopo anni di “sbandamento”, nei quali la manifestazione non poteva esimersi dal premiare ad esempio capolavori come Crash, o comunque film di complessa digestione come Non è un paese per vecchi, siamo forse tornati ai tempi del Titanic (l’anziana che narra ricordando …) di A beautiful mind, o dello stesso Forrest Gump, nei quali l’impressione che si poteva ricavare era che alla fine vincesse il film più “giusto” del momento.
E quindi forse “giusto” è stato, a turno, sentirsi buoni (Forrest Gump) sentirsi cattivi (The Departed) sentirsi romantici (Titanic), il tutto in attesa che “giusto” fosse sentirsi come una bella fetta di umanità in realtà si sente: sola.
Insomma, possiamo sbagliare ma a volte sembra che per “giusto” debba intendersi ciò che può parlare bene o male della vita, senza mai in realtà entrarci dentro e toccarla nel vivo brandendone le viscere, nella nobiltà del sangue o nel tanfo delle secrezioni. “Io valuto le case dai cessi, non dai salotti” diceva un mio amico architetto. E così forse nel 2007 è stato “giusto” lo spietato film di Scorsese nel quale l’eterna lotta fra bene e male si dipana a favore di cinepresa, suonando comunque più confortevole di fronte a un lavoro “sconfitto” quell’anno come Babel e alla sua silenziosa (e pertanto rimbombante) fotografia dei meccanismi di solitudine e banalità del vivere (sia esso retto o deviante). “Non sono cattiva ho solo fatto una cosa stupida” dice una protagonista.
Tutto questo, per lo stesso principio per il quale se e quando l’ America vorrà davvero guardarsi dentro, non dovrà “accontentarsi” premiando American Beauty e il suo composto ritratto della cattiveria che regna nel focolare americano, ma ci farà la sacrosanta fatica di mettersi sotto al naso un Happiness di Todd Solondz. Perché lì non c’è cattiveria o adulterio, ma solo la sghemba follia del vivere.
American Beauty terminava drammaticamente ma anche con un’insostenibile pipetta sulla bellezza della vita, Happiness con una pipetta vera (in onore della vita perché ne “santifica” le miserie), di un bimbo grasso e brufoloso che mentre una famiglia è impegnata a fingere di volersi bene, di ascoltarsi, ha come missione primaria quella di amarsi da solo. Perché ha già capito che da solo era e da solo resterà. Non siamo spaventati dall’orrore di Happiness, ci turba di più l’ostinazione a voler pettinare quello stesso orrore.

Ma tornando al Curioso caso di Benjamin Button, a scanso di equivoci partiamo col dire che, per oltre un’ora, assisterete a un lavoro pressoché perfetto. Non è solo l’idea di questo bambino racchiuso nel corpo di un vecchio a colpire, funziona anche il perfetto marchingegno di interazioni della “creatura” con l’esterno. Il suo “esterno” è una strana casa di riposo priva del dolore e della solitudine che solitamente accompagna la fine in questi luoghi. Lì morire è un infinito pomeriggio tranquillo, trascorso scommettendo sulle previsioni del tempo e raccontando la propria vita a chi non c’era e adesso c’è. Le frecce delle loro vite, quelle degli anziani e di Benjamin, vanno in direzioni differenti; chi sta aspettando l’ultimo giorno è sereno mentre grande è lo sgomento di quel vecchio/bambino al cospetto del suo lento non morire. Da questa innaturale inversione di inquietudini parte il viaggio nella vita del “piccolo” Button. Tutti gli incontri, tutte le situazioni sono efficaci, come la passeggiata col pigmeo giramondo che lo porta fuori una mattina, gli offre un’aranciata e parlando della loro diversità gli dice “Quelli come noi sono soli, saranno sempre soli. Ma siamo tutti soli, la differenza fra noi e l’altra gente è che loro hanno una paura fottuta”. Buono e delicato è anche il primo sfiorarsi col padre che lo ha rifiutato, ma probabilmente il culmine, in termini di riuscita e di poesia del film, è l’incontro con la bravissima Tilda Swinton in un misterioso hotel fra mare in tempesta e neve persistente.
Lei è l’annoiata moglie di un agente segreto che vive in quell’albergo da anni, Benjamin è un marinaio più giovane del suo aspetto, che ogni sera torna a dormire lì. L’insonnia li farà incontrare; una notte, nella hall di un albergo.
Da quella volta, ogni notte si troveranno a chiacchierare nella cucina dell’albergo e tireranno l’alba raccontandosi le loro vite e come le hanno “potute”. Si ameranno nella dignitosa tristezza degli alberghi, fino a quando le esistenze li chiameranno a saldare i conti: lui con la guerra, lei con il mare. Un film denso, riuscito e profondo pur nell’accessibilità d’intreccio e dialoghi. Stava andando bene Fincher. Poi, l’impressione personale di chi scrive, è che addosso al film frani Hollywood con le sue pretese. E quando questo meccanismo mangia Oscar arriva, porta in dote una sorta di terribile incantesimo: rende tutto carino, perfetto e uguale. Elimina la dissonanza, in poche parole uccide Benjamin. Il mostruoso nanetto vecchio alla scoperta della vita diventa il bellissimo Brad Pitt (peraltro bravo e misurato) in consueta ottima forma, con i consueti addominali, le consuete magliettine, i consueti occhiali da sole. E l’attore è condannato per l’ennesima volta a fare se stesso, cioè a fare Richard Gere, cioè a fare Kevin Costner o qualunque altro bello vi venga in mente. In realtà quello è il momento in cui muore Benjamin privato della sua preziosa freak-aggine selvaggia e “ridotto” a un modello mozzafiato ma senza respiro. Allo stesso modo, quella bambina che il protagonista ha conosciuto all’ospizio, non è più una sua cara amica alla quale scrive una cartolina ovunque vada, o la fedele compagna di giochi della loro (sia pur inconsueta) infanzia. No, quella bambina diventa Cate Blachett, bellissima, tanto quanto Pitt, con occhi azzurri in dotazione e ovviamente un mestiere un po’ artistico e un po’ maledetto: la ballerina. Un mestiere che perderà in una serie di sequenze che richiamano (è il verbo giusto?) un pochino Sliding doors.
Certo, i due orologi biologici procedono con dinamiche e direzioni opposte, ma purtroppo invece di cogliere l’occasione per fare di un handicap la carta vincente, la sceneggiatura virerà sulla plausibilità che mette alla prova quello stesso incontro, chiedendo a una fiaba di rendere conto ai geometri dell’amore prima che alla sua stessa follia. Usando dunque “violenza” (se ci passate il termine) a un film che inizia come puledro ribelle e si trasforma in cavallo vincente da concorso ippico. E forse le prove finali della “violenza” subita da quello che avrebbe potuto essere un lavoro più riuscito, stanno nella perfetta rispondenza ai “comandi” del pubblico, che sorride e geme quando deve sorridere e piange quando deve piangere. Nemmeno agli spettatori, nel caso mai dovessero accorgersene, è stato concesso di invertire il destino e ridere finalmente dei drammi di un vecchio che in realtà è appena nato o restare feriti dal divertente bisogno di aiuto di un bambino che più ringiovanisce e diventa bello, più sta crepando. L’occasione di vedersi ribaltati meccanismi, canoni amorosi e fruizione delle sensazioni è andata confortevolmente a quel paese. Tireranno un sospiro di sollievo. Film e pubblico rischieranno dunque di lasciare da solo quello strambo amico Benjamin che, ci giurerei, lui sì che avrebbe ribaltato volentieri tutto. Una volta di più.