di Dziga Cacace

Ov3-01.jpg44-Amore e altre catastrofi di Una Babbea, Australia 1996

Allora: siamo giovani, parliamo di noi, spariamo due o tre banalità sull’amore, facciamo i politically correct e mettiamoci dentro anche amore lesbico e due gay che usano il preservativo; non tralasciamo l’accattivante vita del campus universitario, l’amore per il cinema e una bella marea di citazioni, perlopiù a sproposito ma, si sa, l’importante è citare per dimostrare che qualcosa s’è letto o visto. Confezioniamo il prodotto con i pochi (?) soldi a disposizione, tanto ormai il “povero” è sinonimo di capolavoro (il Sundance Film Festival docet), condiamo il tutto con tanta piacevole e leggera musica supergiovane e tanti spezzoni in super 8 (che fa tanto avant-garde modernista) e presentiamoci a un Festival incrociando le dita. E succeda quel che succeda. E che succede? Beh, il Festival è quello di Venezia e pubblico e critica sono talmente rincoglioniti che il film, ‘anvedi, ottiene un buon riscontro e viene distribuito in tutto il mondo: la ventiquattrenne regista babbea si vedrà recapitare qualche bell’assegno e tra due anni farà un altro film schifoso per cui i critici diranno che, guarda i casi della vita, “dopo un brillante esordio ha perso la vena”.
Questo è Amore e altre catastrofi, l’ennesimo furbo prodotto autoreferenziale. Una bella commediola dove non si ride manco per errore, dove i dialoghi sono esasperanti e l’unico spiraglio di luce è dato dall’inserto nella colonna sonora, peraltro banale, di Sunday Morning dei Velvet Underground. Poi, certo, i personaggi principali sono carini, è facile immedesimarsi o prenderli in simpatia… e no, scusate: una beneamata minchia!


Una è una sfigata che sta scrivendo una tesi su Doris Day protofemminista (agghiacciante silenzio in sala alla salace battuta), l’altra una casinista egoista e stronza che riconquista la sua donna in maniera molto improbabile. I due maschi di contorno sono ancora più deprimenti: il primo è uno gigolo solitario e filosofo come potevo esserlo io in terza liceo quando mi sentivo neoplatonico; l’altro è uno sfigato di proporzioni inaudite. Dopo tante vicissitudine che fanno capire come venga vissuta l’università in Australia (cioè, non facendo assolutamente un cacchio), l’amore e la sincerità trionfano su tutto e il bel prodotto fornisce anche un lieto finale che ci fa uscire dalla sala rasserenati. Non sia mai che ‘sti lazzaroni di studenti australiani, già vessati da troppe feste e altre amenità, non riescano a realizzare i loro maturi e adulti progetti sentimentali. Non mi è proprio piaciuto. (Cineclub Lumière; 8/3/97)

45-Una estranea fra noi di Sidney Lumet, USA 1992

Una porcata vi seppellirà: da un regista che ha abituato a ben altro, un film insultante e orrendo. In un esornativo quanto rozzo prologo ci viene presentato il personaggio principale: una poliziotta esuberante che usa la pistola prima di collegare il cervello. Il cervello, poi, non è che fornisca grandi garanzie di affidabilità. Uno dei pochi meriti della regia è quello di aver affidato la parte a una attrice perfetta: infatti Melanie Griffith, evidentemente ancora scombussolata da troppo alcol, polvere bianca e sberle dell’ex Don Johnson, fornisce un viso sfatto (ricorda la Moureau, ma ha trent’anni di meno) e una interpretazione stucchevole. Il livello intellettuale del personaggio si attaglia perfettamente a quello presunto dell’attrice e tutto torna. Comunque, fatta la presentazione di ‘sta cretina, sappiamo che le viene affidato un incarico investigativo all’interno della rigida comunità chassidica di New York. Il giallo mette sinceramente pena e Lumet non si preoccupa di lavorarci sopra, ciò che tenta di fare è raccontare l’incontro tra due realtà inconciliabili, gli ortodossi ebrei chassidici e una cittadina americana abbastanza stupida da rappresentare un campione preponderante della popolazione. Tutto il film è costruito su questa comunicazione difficoltosa ma il dubbio se ciò avvenga per reale differenza culturale ed etnica o per la stupidità della protagonista è sinceramente forte. Finanziato da produttori ebrei, il film vorrebbe fornire un ritratto della comunità ortodossa realistico e lontano dagli stereotipi e invece riesce in pieno a costruire un’atmosfera di pittoresco esotismo, sottolineata dal continuo ricorso ad allegre musichette yiddish, in cui ogni interrogativo è risolto a ‘sta maniera: comportamento dei personaggi ortodossi inusuale e/o diverso dal nostro; stolida richiesta del perché da parte dell’agente investigativo; risposta “Nel talmud (o Torah, Kabbalah etc.)…” e dissolvenza, senza quindi mai spiegare un cazzo e facendo sembrare la comunità chassidica un branco di stregoni misteriosi. In sovrappiù Lumet costruisce una patetica storia d’amore tra la Griffith e Ariel (promettente studioso del Talmud che l’aiuta a risolvere il caso), destinata a non concretizzarsi ma che, comunque, fornisce un apice lirico quando lei gli chiede di leggergli un brano della Kabbalah e lui, casualmente, legge: “comincia ad amarla e lascia che prima le si formi la secrezione vaginale”; abbastanza deprimente anche il percorso di maturazione che dovrebbe compiere la tardona in questione e il rapporto che s’instaura con il Rebbe (il capo spirituale della comunità), suo nuovo “padre”, dopo un agghiacciante incontro con il padre vero, ovviamente alcolista anonimo rozzo e insensibile. Che lezione ho colto dalla visione? Come dice la Kabbalah, “in ogni cattiva azione si può trovare una parte di bene” e, infatti, la perniciosa visione del film m’ha reso edotto del fatto che Lumet è ormai perso e che d’ora in poi bisognerà evitare qualunque film che abbia come protagonista l’insopportabile Griffith. (Vhs; 10/3/97)

46-Prima della pioggia di Milcho Manchevski, Macedonia/Gran Bretagna/Francia 1994

Un balsamo per gli occhi. Dopo tante porcatine e alcune autentiche schifezze, mi concedo questa seconda visione per un film che, purtroppo, avevo visto soltanto grazie al castrante medium televisivo. Dovrei scrivere una recensione di tre pagine perché è un film di rara bellezza, assolutamente compiuto sia narrativamente sia formalmente. Aiutato dal direttore della fotografia Darius Kondhji in clamoroso stato di grazia, Manchevski costruisce un film esteticamente molto accattivante (tanti i momenti visivamente emozionanti; impossibile non ricordare la lunga sequenza in cui si vede Londra riflessa sul finestrino del taxi che trasporta due dei protagonisti o, ancora, la serie di carrelli e dolly che seguono la liturgia all’interno della chiesetta ortodossa) e anche dal punto di vista narrativo, riesce a calarsi in tematiche di difficile trattazione senza essere retorico e, rischio non indifferente, palloso, né superficiale, anche quando si concede dei momenti “rilassanti” (la scena della fotografia con l’autoscatto, la citazione di Butch Cassidy). Che altro dire? Notevole la sceneggiatura a loop, come l’ineluttabile spirale di violenza, gli attori e tutto l’apparato tecnico in generale. Bellissimo: negli ultimi anni, uno dei migliori film in assoluto. (Cineclub Lumière; 11/3/97)

47-Talk Radio di Oliver Stone, USA 1988

L’esuberante e provocatorio Barry Champlain dirige uno show radiofonico di grande successo che gli attira sia simpatie sia l’odio dell’America più razzista e retriva. Scontroso, volutamente antipatico, incapace di gestire la sua vita privata come i rapporti con i suoi radioascoltatori più corretti, Champlain provoca un razzista e subisce i primi avvertimenti di una minaccia che tragicamente si avvererà. Film claustrofobico, girato quasi tutto nella buia sala di registrazione dell’emittente dello show, Talk Radio risulta convincente, con un buon ritmo e soprattutto una gran bella performance di Bogosian. Discreti i dialoghi, interessante la visione notturna di Dallas e la costruzione di un personaggio ambiguamente respingente (o interessante). Sono sicuro che la maggior parte del pubblico americano (che deve avere abbastanza snobbato il film, comunque) avrà esultato alla morte del performer radiofonico. Per una volta sarebbe stato più educativo un lieto fine, alla faccia di quel popolo di bestie. (Vhs; 12/3/97)

Ov3-2bis.jpg48-Tom Jones di Tony Richardson, Gran Bretagna/USA 1963

Avventure e amori di Tom Jones — quello del romanzo di Fielding, non il cantante tamarro — , rampollo illegittimo cresciuto in una famiglia nobile, raccontati in modo scanzonato e divertito, ammiccando più volte allo spettatore. Il film risulta piacevole anche se un po’ datato. Bellissimi alcuni carrelli (le scene della caccia alla volpe) e azzeccate le caratterizzazioni di alcuni personaggi. Gradevole, ma… non so. (Vhs; 13/3/97)

49-Una cena quasi perfetta di Stacy Title, USA 1995

Lo spunto è carino: cinque amici uccidono persone nocive all’umanità invitandole a cena e servendogli un vino corretto con arsenico. Crepano anti-abortisti, nazisti, razzisti, fanatici musulmani etc. Dopo un po’ la faccenda diventa ingestibile e ci si avvia a uno scontato e moralistico finale in cui l’allegra combriccola è vittima del suo stesso veleno, per mano di un politicante che s’era deciso di risparmiare. Spunto carino e paradossale, dicevo, ma la regia non è capace di gestire a dovere il bel materiale a disposizione e i dialoghi sono presto stucchevoli. Ci sarebbe da lavorare sui conflitti che scoppiano all’interno del gruppo di giustizieri, si potrebbe essere cattivi fino in fondo e si dovrebbe costruire e mantenere un ritmo che, invece, manca assolutamente. Ok, adesso sono anche talmente saputello da dire cosa bisognava fare e cosa non. E certo! E sono tali e tanti i difetti che lo sfogo è proprio dovuto. Una delusione, con il solo lampo di I’d Love to Change the World di Alvin Lee coi Ten Years After e alcune belle inquadrature a fornire il poco piacere. E delude anche Cameron Diaz. (Cineclub Lumière; 17/3/97)

50-I magi randagi di Sergio Citti, Italia 1996

Accatto’, dacce soddisfazione! Per quanto letteralmente sfasciato da una giornata tra Milano e Parma, ho abbastanza apprezzato questo piccolo film: tre disperati mandano avanti uno scalcinato circo dove, come ferocissime belve, vengono presentati al pubblico esemplari di nazisti e mafiosi. La trovata non piace al pubblico burino di Monferoce e i tre sono costretti a scappare. Sulla strada della loro fuga incontrano un parroco che ha il problema di assoldare tre attori per una rappresentazione “al naturale” del presepe. I tre, nella loro innocente purezza, riescono a trasmettere un vero messaggio d’amore e, complice una stella cometa che li indirizza, iniziano a cercare, per annunciarlo al mondo, il nuovo Messia. Concluderanno che Gesù rinasce ogni volta che nasce un bambino. Detto così è allarmante, e invece il film possiede una sua coerente poesia, un fascino lirico nelle figure di questi tre adorabili lestofanti. In un Italia percorsa da tensioni egoistiche e razzistiche, venduta al dio denaro e alle speculazioni (illuminanti le scene girate con, sullo sfondo, i quartieri dormitorio di Roma), Citti ricorda l’impellenza di ritrovare il valore delle cose che non hanno prezzo. L’apologo è piacevole e ricorda molto la scalcinata e grottesca poetica pasoliniana (omaggiata con cinque minuti in cui appaiono in rapida successione Citti fratello, Davoli, la Betti e anche il buon Stracci de La ricotta). Anche se nel secondo tempo il film si affloscia notevolmente, il prodotto vale. (Cineclub Lumière; 20/3/97)

51-Furore e grida di Jean-Claude Brisseau, Francia 1988

Amaro film francese che gode di una fama un po’ immeritata. Interessante, ok, e piacevole, ma da qui al capolavoro ce ne passa, eccome. Bruno, da un collegio per ragazzi con problemi familiari, raggiunge la madre (che non vedremo mai: è sempre fuori casa a lavorare) a Bagnolet, nella periferia di Parigi. Qui conosce Jean-Roger, un teppistello, figlio di un delinquente. Bruno e Jean-Roger diventano amici, ma mentre Bruno tenta di istruirsi con l’aiuto di una giovane professoressa, Jean-Roger cerca la sua affermazione sociale compiendo atti teppistici sempre più gravi e violenti. Intanto suo fratello maggiore, Thierry, decide di abbandonare la famiglia per fare una vita finalmente normale, scelta che innesca una spirale di avvenimenti che porteranno al tragico e consolatorio finale. Il film ha i suoi migliori momenti quando racconta in modo partecipe la vita dei due ragazzini e le loro (anche spiacevoli) avventure, anche se il paragone di certi esaltati con Zero in condotta sa un po’ di bestemmia. Crolla invece decisamente quando si abbandona a facili simbolismi (il pulcino, la colomba disegnata da Magritte, l’aspirazione al volo) o quando costruisce sequenze oniriche molto oscure (la donna nuda o vestita da sposa) e, francamente, liriche come il Baglioni di Avrai. Peccato perché, nonostante queste vistose cadute, la trama è ben gestita e prende e le virate grottesche sono azzeccate e ben inserite (il padre che gioca al tirassegno in casa e sfonda il muro che comunica con i vicini, l’accoglienza all’assistente sociale, il commento del padre – “non è nulla, non ha niente” – di fronte a ogni cadavere). Film, a ogni modo, interessante. (Vhs; 21/3/97)

52-La donna di Parigi di Charlie Chaplin, USA 1923

Finalmente, alla ricerca di materiale utile alla rassegna del Lumière di quest’anno, vedo l’ultimo capolavoro di Chaplin che mancava alla mia collezione. Osannato dai miei amati sovietici e da Arnheim, il film parte con un’aperta dichiarazione: stavolta Chaplin non vuole farci ridere. Infatti La donna di Parigi racconta la vicenda di Maria, contesa da due uomini, senza mai indulgere alla comicità, se non in pochi e misurati momenti. L’ironia si stempera in due o tre feroci stilettate (la clamorosa scena della massaggiatrice, che, a parer mio, Arnheim ha decisamente equivocato); Chaplin stavolta preferisce dedicarsi alla costruzione dei personaggi e in effetti gli dà un buono spessore: costruisce quello che potrebbe sembrare un banale feilleuton melodrammatico e che invece risulta un maturo film drammatico. Ogni sentimentalismo e il ricorso alla facile lacrima sono banditi in nome di un’obiettività che rifiuta la divisione del mondo in buoni e cattivi o in ricchi contro poveri o altre contrapposizioni schematiche di cui, peraltro, lo stesso Chaplin si avvaleva nelle sue storie comiche. Stavolta la vicenda è realistica, nel senso che non si ricorre ai soliti cliché per far vedere l’ipocrisia dell’opinione pubblica (altro titolo con cui è conosciuto il film). Tutta la vicenda nasce sempre da accadimenti casuali o banali: i personaggi arrecano e subiscono dolore senza esserne mai veramente responsabili, tutti incapaci di respingere la loro naturale grettezza. Nonostante un finale dolciastro (Chaplin sbanda e si cala le brache: Maria, la protagonista, si ritira in campagna dove accudisce degli orfani) l’accusatorio assunto non andò giù al pubblico americano e il film risultò un grosso insuccesso. E invece, c.v.d., il film era proprio bello, semplice e intelligente e, a parte il finale, mai retorico. (Vhs; 21/3/97)

Ov3-3.jpg53-Piovono pietre di Ken Loach, Gran Bretagna 1993

Piovono pietre sulla classe operaia e piovono pietre sugli spettatori. Il compagno Loach è un’onesta persona, un regista civile, un osservatore partecipe dei drammi della classe operaia negli anni del dopo thatcherismo e, allo stesso tempo, un obiettivo narratore, ma… Eh sí, ma. Il caro Ken Loach costruisce opere vibranti d’indignazione che ci scuotono nel profondo ma che, purtroppo, hanno una costruzione cinematografica un po’ scadente. Lo so, è come sparare sulla Croce Rossa, Loach non si dovrebbe criticarlo. Eppure, scusate, ma ogni volta rimango atterrito dalla povertà narrativa, dalla sceneggiatura debole, etc. Poco male se Loach è cinematograficamente “povero”, può essere una scelta, ma il resto no. Boh, detto questo, poi, io il film me lo vedo in santa pace, lo partecipo e, dal momento che il regista ci presenta dei poveri cristi che sono massacrati sí dal sistema, ma anche dalle loro debolezze, non posso che riconoscere quel realismo, quella attendibilità di cui lamento sempre la mancanza in tanto altro cinema. Insomma, sottovoce e tra noi, Ken Loach mi pare un po’ un cane, ma di quelli fedeli, onesti e sinceri. Per cui diamogli un osso. (Vhs; 22/3/97)

54-Legge 627 di Bertrand Tavernier, Francia 1992

Una boccata d’aria fresca: Tavernier dimostra che si può girare un poliziesco, un film schiettamente d’azione, senza perdere di vista la realtà e senza fare ricorso a personaggi dallo spessore psicologico pari a zero. E si può parlare di droga senza luoghi comuni e farlo prendendo coerentemente una posizione. Loulou è un poliziotto alle prese con le mille difficoltà del mestiere. Mancano i mezzi, le attrezzature e la libertà di movimento cui una squadra antidroga dovrebbe ricorrere. Nonostante tutti questi guai, Loulou si barcamena tra successi e sconfitte, girando filmini matrimoniali durante i week-end e dividendo la sua vita privata tra una moglie borghese e una ragazza drogata che fa la vita. Il racconto non è compiaciuto e i personaggi non sono per niente stilizzati secondo improbabili cliché, anche se la prostituta tossica e sieropositiva o tutti gli spacciatori extracomunitari potrebbero sembrarlo. Tavernier, incurante di ogni correttezza politica falsamente ipocrita, decide di dirlo fuori dai denti e la sua onestà intellettuale lo permette senza che lo si possa accusare di generico razzismo. Il risultato è scontroso, ammorbidito da uno stile che sa però anche essere gradevolmente ironico. Bello. (Vhs; 22/3/97)

55-Un, due, tre stella! di Bertrand Blier, Francia 1993

Può una banlieue squallida e disordinata come quella di Marsiglia diventare luogo di poesia se abitata da un’umanità colorata e sensuale? Può, secondo le parole della protagonista “diventare una periferia carina” grazie all’amore? Blier costruisce una vicenda stralunata, scanzonatamente surreale, cercando una poetica tra Pasolini e Almodòvar; ma l’ansia di stupire lo spettatore e di essere al contempo “lirico” non trova più sbocchi dopo la prima mezz’ora e il film naufraga miseramente. Peccato, perché l’idea era senz’altro interessante e qualche spunto è francamente riuscito (per esempio la scena in cui i teppisti sostituiscono le enormi lettere che rendono riconoscibili gli anonimi palazzi, gettando alcuni abitanti nel caos). La regia non è piatta e scontata, buone sono le scelte fotografiche e gli intensi cromatismi. Quello che manca assolutamente è una storia coerente. L’educazione sentimentale di Victorine va avanti a strattoni e non risulta mai convincente: la banlieue, più che uno spazio sul quale attuare una pertinente riflessione, diventa solo il disordinato scenario urbano in cui ambientare una vicenda altrettanto sconclusionata. “Ti accorgerai che a volte nelle periferie possono succedere dei miracoli…”. Sí, ma qui non succede proprio un bel niente. Molto deludente. (Vhs; 23/3/97)

56-Ognuno cerca il suo gatto di Cédric Klapisch, Francia 1996

Esile ma intelligente, ben girato e recitato, Ognuno cerca il suo gatto è un film che mantiene ciò che promette (finalmente, visti i tanti pacchi recenti). La scomparsa di un gatto costringe una giovane parigina a una ricerca che la porta a conoscere il suo arrondissement e la variegata popolazione che lo abita. Riscopre così la vita di quartiere che troppe volte si reputa scomparsa nelle metropoli: a volte basta entrare in un bar per capire che non è così. Assunto forse un po’ banale ma ben gestito, per un film estremamente piacevole. (Cineclub Lumière; 23/3/97)

Ov3-4.jpg57-Via da Las Vegas di Mike Figgis, USA 1995

Qualcuno di mia stretta conoscenza ha straparlato di capolavoro. Da scrupoloso critico mi sono procurato la pellicola in questione e me la sono diligentemente sorbettata per poter confutare le tesi entusiastiche di cui ho appena detto. E dunque? Dunque: Via da Las Vegas sarà uno spartiacque, un po’ come l’invasione sovietica dell’Ungheria nel ’56. E sí, perché io straccio la tessera del Partito: eccheccazzo, Pier Paolo! Siamo cresciuti con Truffaut e tu trovi poetico questo pappone falso e compiaciuto? E dài… Vabbeh, andiamo con calma: uno sceneggiatore disoccupato, dedito con geometrica potenza all’alcolismo, decide di farla finita andando a terminare i suoi giorni a Las Vegas, massacrandosi con dosi industriali di superalcolici. Nella cittadina del Nevada incontra Sera, una prostituta dal cuore d’oro, anche lei sola, disperata e chiaramente patatissima, che s’innamora prontamente di lui. Lungi dall’ostacolare i suoi propositi suicidi, lo accompagna in questa discesa negli inferi fino all’annunciato e strappalacrime finale. Figgis sceglie un soggetto estremamente drammatico ma sembra che, più dell’analisi di due struggenti solitudini, gli interessi avere un copione che gli consenta di mostrare, peraltro in modo fastidiosamente morboso, un percorso di autodistruzione. Nulla c’è risparmiato, complici due prove attoriali obiettivamente riuscite: vediamo ingurgitare qualche ettolitro di alcol, assistiamo a un bello stupro e rivediamo quel bel tomo di Julian Sands (indimenticato protagonista canino di Boxing Helena e di Aracnofobia). Il tutto in una veste patinata che abusa grammaticalmente di dissolvenze e rallenti. La Las Vegas notturna più che essere lo scenario adatto per questo dramma, sembra solo un’affascinante città dalle mille luci, fotografata com’è con compiaciuto estetismo. I dialoghi sono ridicolmente ridondanti e le pretese liriche affondano in una poesia propriamente adatta per l’infantile pubblico statunitense, pronto a commuoversi quando Dumbo sta per morire. Falso patetismo a buon mercato per un prodotto doppiamente irritante, date le aspirazioni presuntuosamente “alte”. Pessimo. Con tutto l’affetto possibile, caro Pier, d’ora in poi non ci casco più. So già fin d’ora che, contrariamente ai tuoi giudizi, Romeo + Giulietta sarà una porcata giovanilistica e che, invece, Testimone a rischio sarà un film civile e decente. Senza rancore. (Vhs; 23/3/97)
P.S.: Anche se non ritratto assolutamente su questo prodotto moralmente deprecabile, devo ammettere che Testimone a rischio, pur essendo un film civile e decente, è confezionato in modo sciatto e anonimo e, sostanzialmente, delude. Di Romeo + Giulietta continuo a leggere in modo lusinghiero, per cui sarà probabilmente una porcata giovanilistica ma con molti motivi d’interesse e finirà che andrò a vederlo senza irritarmi. Pace?

(CONTINUA — 3)