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La comparsa di una lista nera di docenti universitari di presunta appartenenza alla comunità israelitica è apparentemente, nella sua scarna dimensione cronachistica – un blog, peraltro rapidamente oscurato, pubblica la lista condendola di insulti razzistici – una notizia di scarsa rilevanza. Passata l’emozione del momento, è anzi possibile che la notizia venga ribaltata in un’accusa all’isteria di quanti in queste ore stanno prendendo posizione, giustamente, contro questo atto odiosamente razzistico.

Perché ciò non avvenga è necessario smontare questa notizia per mostrare come essa sia una sorta di baule degli orrori, al cui interno, come in una matrioska, si annida e si concentra una pluralità di fattori che vanno combattuti al tempo stesso singolarmente e globalmente. Proviamo ad impostare una prima analitica dell’antisemitismo contemporaneo, enucleandone i tratti. Il primo dato è l’esistenza stessa di una lista, evidentemente. La cui compilazione non può in alcun modo essere scissa dallo sfondo inquisitorio su cui si staglia. Una proliferazione di liste, compilate ed ostentate con ricercati effetti retorici e performativi nelle ultime settimane: la lista dei firmatari dell’appello critico nei confronti della presenza senza contraddittorio di Joseph Ratzinger alla Sapienza (alla quale afferisce, forse non a caso, una cospicua parte degli iscritti alla lista nera antisemita), accompagnata da richieste di licenziamento dei docenti (Maurizio Gasparri); o la lista dei giornalisti e dipendenti RAI, schedati per supposta appartenenza politica (Libero). Questa ostentazione ha il suo punto di forza non nel contenuto delle liste, ma nell’attività di schedatura, che allude ad una sorta di spada di Damocle perennemente appesa sul capo di chiunque. Particolarmente sottile, nella sua rozzezza, è ad esempio l’arte di pubblicare appelli recenti o antichi, decontestualizzandoli ed esibendoli come prova di una “banalità del male”: una via molto praticata da chi cerca di traghettarsi dalle proprie alle altrui sponde esibendo il proprio pentitismo in fogli, blog o libri revisionisti, nei quali si mescolano disinvoltamente liste sessantottarde (“ecco chi incitava alla violenza!”) ed elenchi recenti (“ecco gli amici dei terroristi!”), sino alla favola dell’Archivio Mitrokhin.leggi_razziali.jpg
Così facendo, quella piccola miseria umana che è la risentita compilazione di nomi trova un senso all’interno di una funzione essenziale nello Stato moderno: l’immissione di ordine nella complessità dell’esistente attraverso la sua organizzazione in archivi, elenchi, mappe. Non si ricorderà mai abbastanza come i genocidi della modernità – in primo luogo quello ebraico – affondano la propria radice nella capacità di pianificazione razionale della burocrazia: come ha dimostrato Bauman (dando corpo empirico alle ricerche di Foucault e Deleuze sulla società di controllo), questa attività di organizzazione è ciò che rende incomparabile l’antisemitismo novecentesco con la restante tradizione di persecuzioni ebraiche. La compilazione di una lista non è un atto neutro: ma non lo è neanche la semplice inclusione di un nome all’interno di un elenco. L’inclusione, la catalogazione, l’enumerazione sono atti con i quali la concreta singolarità di un individuo viene ridotta a cifra generalizzabile: tutti gli appartenenti alla lista finiscono così per essere appiattiti sul tratto generale che designa l’insieme, all’interno di un processo di spersonalizzazione che bypassa la capacità di giudizio critico. Compilare una lista non è, di per sé, un atto violento o ultimativo, dice la coscienza del compilatore; ed eseguire una pianificazione sulla scorta di una lista pre-compilata assolve l’esecutore dalla responsabilità dell’intera operazione. Gli esecutori potranno sempre accampare l’attenuante di aver eseguito un comando eteronomo (la “banalità del male”), i compilatori auto-assolversi dalle conseguenze. La leggenda che vuole le leggi razziali ininfluenti e inattuate e scarica la colpa del genocidio degli ebrei italiani sui soli invasori nazisti nasce, a voler concedere la buona fede, da qui (è la tesi, ad esempio, di Alberto Balboni, senatore di An, nel suo mai ripudiato libro Repubblica Sociale Italiana e Resistenza, Ferrara, Politeia, 1990). Aggiungiamo: chi compila dà per certo – e performativamente insinua che sia certo – che un tratto comune tra gli elencati esista. Oggi di nuovo gli ebrei, ieri gli zingari o i rumeni, prima ancora gli arabi o gli albanesi, e via computando. Un’operazione che il più delle volte è mistificatoria: asserire un tratto comune di comodo spesso nasconde il vero tratto, o la vera causa, come quando l’appartenenza a questo o quel gruppo di uno stupratore nasconde la sua effettiva appartenenza all’immaginario e alle pratiche maschili prima ancora che “etniche”. Nel caso di questa lista, siamo ad un livello più raffinato: insinuare l’esistenza di una giudeo-connection nell’accademia italiana significa infatti insinuare che tale accademia sia eterodiretta, infiltrata, oscuramente sobillata. Guardiamo ai fatti: la “pretesa” di un nutrito gruppo di docenti di manifestare liberamente il proprio pensiero senza arrestarsi davanti ad un neo-guelfo principio di autorità (lo ha ricordato con fermezza Stefano Rodotà) è stata presa a pretesto, in un parossistico crescendo diffamatorio, per un attacco nei confronti dei docenti, poi della Sapienza, infine dell’Università italiana nella sua interezza. Volantini e manifesti così orientati e variamente firmati, ma sempre riconducibili a Comunione e Liberazione fanno tutt’ora mostra di sé nelle università e nelle scuole. Adesso altri insinuano che tra quei docenti vi sia una cospicua congrega giudaica. A quale mulino porta quest’acqua sporca? Dietro le apparenze, a quello di chi, nel rivendicare come naturali e al tempo stesso divinamente ispirate le posizioni clerico-reazionarie in materia di etica, scienza e financo logica espresse dall’attuale pontificato, non può che rigettare ogni voce dissenziente nel campo del male, dell’innaturale, dell’aberrante, del demoniaco. E se questo avviene tra le menti cosiddette pensanti, non è difficile capire che dinamiche simili, ma meno controllate, possano scaturire in menti meno “raffinate”. Se, com’è accaduto [clicca qui], si nega persino ad Elie Wiesel un’autonoma capacità di esprimersi sul rapporto tra olocausto e fede nell’assoluto e lo si imputa di ricercare il plauso della borghesia illuministica milanese (Davide Rondoni sull’Avvenire del 27 giugno 2007), come stupirsi di atti che discendono dalla stessa intolleranza?
Chi compila, insomma, sfoga il proprio rancore politico, e forse avanza una richiesta di attenzione verso i prossimi padroni in cerca di obbedienti e servili esecutori; insinua sospetto e minaccia, sperando forse in un effetto d’insicurezza e precarietà psicologica e sociale nelle vittime della propria attività: ma soprattutto, inizia un inavvertito (dalla propria coscienza prima ancora che da altri) gioco all’apprendista stregone, i cui esiti sono, sul medio periodo, imprevedibili – il che non significa che non si presenterà qualcuno, prima o poi, a raccoglierne i frutti.

Intervento pubblicato su Liberazione del 9 febbraio 2008