della Redazione Odradek

GenovaG8-2.jpg
3. 20 luglio. La trappola non si chiude.
Dalle dinamiche della piazza emerge una certezza: l’assalto parte dai carabinieri. Dalle ricostruzioni successive, e dagli scontri verbali davanti alla Commissione parlamentare, alle telecamere, ai taccuini e ai telefoni dei giornalisti, emerge anche che quella decisione non fu contrattata tra tutte le “forze dell’ordine”. I carabinieri, dunque, si assumono l’incarico di far precipitare la situazione in piazza, seguendo un proprio piano che modifica e bypassa quello generale. Una “forzatura”, insomma, che corrisponde evidentemente ad una diversa direzione politica. La già notata presenza di ben quattro parlamentari di Alleanza nazionale nella sala comando dei carabinieri, tra cui anche un ex maresciallo dell’Arma — Ascierto -, non può non far pensare ad una corrispondente forzatura a livello del consiglio dei ministri. È una forzatura stupida dal punto di vista politico (distrugge da sola la “vetrina” cui Berlusconi tanto teneva), che diventa una stronzata persino dal punto di vista militare (e forse aiuta a capire perché i generali italiani non abbiano mai vinto una guerra, e forse neppure una battaglia).

L’attacco che doveva spezzare il grosso del corteo e circondare una “testa” in cui pescare i 2-3000 arresti in grado di “decapitare” (moralmente, politicamente, strategicamente) il movimento non sfonda.
Il corteo resiste. La prova di forza che doveva restituire al movimento il senso della propria impotenza a fronte dell’“immane forza dello Stato” si rovescia nel suo contrario: lo Stato appare come un ottuso manganellatore senza un briciolo di ragione, il movimento come un portatore di ragioni (non completamente imbelle, però).
Contribuiscono a questo “capolavoro” militar-strategico un paio di clamorosi errori da parte dello Stato maggiore delle “forze dell’ordine”. Il primo, strategico, è la sottovalutazione dei numeri che il movimento sarebbe stato in grado di portare a Genova. De Gennaro e compagnia avevano confidato nell’effetto dissuasivo della campagna stampa alimentata con le veline del Sisde (sangue all’Aids, Osama Bin Laden, portafogli esplosivi, marziani guerriglieri, ecc): “massimo 40mila persone”. Ma, di fronte a una situazione quantitativamente assai diversa da quella attesa, non cambiano il piano di battaglia. Il secondo errore è una conseguenza, ed è la sopravvalutazione delle proprie forze. Gli “strateghi” che gestiscono la piazza hanno l’assoluta certezza che le masse di manifestanti convenute a Genova non dispongono di unitarietà di intenti, coordinamenti sul campo attendibili, un briciolo di organizzazione, strumenti di difesa. Agli occhi loro — armati, inquadrati, organizzati a dispetto di linee di comando palesemente in concorrenza — i cortei si presentano con la consistenza del burro. Applicano perciò il piano previsto, una ripetizione in grande della mattanza di Napoli. Tentano di circondare un grosso spezzone di corteo attaccandolo a ridosso della ferrovia, su via Tolemaide, ben dentro il tratto di percorso autorizzato. E quindi non lasciano — a diverse migliaia di persone — nessuna via di fuga. Non restano perciò scelte. O ci si difende, con il nulla che si ha a disposizione — e con il molto che si riesce a trovare in una città — o si viene squartati da un ciclo di cariche che non mirano a disperdere il corteo, ma ad agguantare quanta più gente possibile.
E il corteo resiste. Dentro e fuori il gorgo centrale dell’attacco. Resiste spontaneamente. L’unico piccolo “aiuto” viene dalla particolare composizione “alchemica” che si è creata a Genova. Si ritrovano contemporaneamente in piazza quel tanto di “memoria” dispersa ancora presente e le energie fresche di una parte della nuova generazione. Si fonde e si ritrova, si manifesta come “intelligenza animale”, potremmo dire; istintiva, autodifensiva, mossa da salutare istinto di sopravvivenza.
Intelligenza collettiva inconsapevole del “tutto”, ma improvvisamente certa che lì, in quel crocicchio di strade, si gioca una partita che va al di là dell’immediatamente comprensibile e che riguarda la sopravvivenza del movimento stesso (almeno nella sua componente nazionale, certo; ma anche il movimento internazionale difficilmente avrebbe digerito con disinvoltura una disfatta in occasione dell’appuntamento di massa più rilevante). Intelligenza istintiva che supera le differenze tra “componenti” e si condensa in una sufficiente massa critica reattiva in grado di stoppare per ore le cariche della polizia e dei carabinieri. Non di più.
Ma è sufficiente a costituire l’evento che, nel suo imprevisto verificarsi, cambia qualitativamente l’appuntamento di Genova: non ci si scioglie.
3a) Non è una valutazione “militare”, ma eminentemente politica. Venerdì il movimento non viene distrutto, come era nei piani e come ogni componente — col suo “autonomo” comportamento — aveva inconsapevolmente contribuito a preparare. Sopravvive e trova nell’infamia dell’attacco e dell’uccisione di Carlo Giuliani ragioni moltiplicate per tornare in piazza moltiplicandosi. La violenza crescente da parte dei carabinieri che non riescono a portare a termine il “piano di battaglia”, fino all’uccisione di Carlo Giuliani, si trasforma addirittura in crisi politica internazionale del governo e moltiplica le “simpatie” verso il movimento (si vedano le cronache dei giornalisti presenti e a loro volta pestati, le proteste dei principali governi occidentali, Dipartimento di Stato americano e governo austriaco — Haider! — compresi). Piccolo paradosso: un movimento prevalentemente pacifico sopravvive solo grazie all’essere riuscito a difendersi (all’esservi stato costretto). Una parola va pur detta su una valutazione che ha avuto una certa fortuna, nel “comune sentire” dei compagni, nei giorni immediatamente successivi all’uccisione di Carlo: la polizia e i carabinieri “cercavano il morto”, si dice. Insieme a Scalzone e numerosi altri compagni “non di primo pelo”, vedendo montare il dispositivo repressivo e il parossismo “terroristico” dell’attesa messo in piedi dal governo di centro-destra (e da giornali che dire corrivi è decisamente poco), siamo stati tra quanti avevano valutato probabile che a Genova qualche manifestante trovasse la morte. Proprio per questo ci sentiamo in dovere di dire che quella impressione del “senso comune” (“cercavano il morto”) non corrisponde al vero. È sempre importante capire davvero quel che è accaduto, per poterne trarre valutazioni attendibili e decisioni appropriate. E, per estrarre un giudizio sensato dagli avvenimenti, occore mettere a confronto quanto è accduto in piazza con le esperienze storiche pluridecennali del movimento, italiano e non. Sulla base della documentazione — facilmente reperibile — sugli scontri di piazza dell’ultimo dopoguerra, oltre che sulla memoria di qualche decina di migliaia di persone, si può dire con assoluta certezza che quando le forze dell’ordine cercano il “morto in piazza” ci sono sempre anche un gran numero di feriti per colpi di arma da fuoco. Quando insomma viene dato l’ordine di usare le armi a un piccolo esercito (18.000 uomini, come minimo, a Genova), accade sempre che quest’ordine venga raccolto da un congruo numero di militari. Sparano in tanti, perché è stato loro detto che è possibile farlo, “anche in casi non estremi”. Moltiplicandosi il numero dei colpi sparati diventa sempre più probabile che siano molti quelli che vengono colpiti. Specie quando, come nel caso di questo movimento, non c’è nessuna preparazione collettiva a un’eventualità del genere. E dai dati storico-statistici sulle “sparatorie” emerge con chiarezza che per ogni persona uccisa c’è un numero superiore di feriti: da tre a dieci. A Genova è morto Carlo, ma nessun altro è stato colpito da una pallottola. Ne sono state sparate certamente molte altre, e ci sono numerose testimonianze — verbali, fotografiche, filmate. Ma non c’è stato un ordine di “sparare sui manifestanti”. Non perché questo governo non sia disposto a farlo, e anche con una certa “generosità”. E siamo certi che lo farà, purtroppo anche presto. Ma non intendeva farlo in un’occasione internazionalmente così esposta, davanti a così tante telecamere, prima ancora di passare un solo esame di “democraticità” tale da fugare i molti dubbi sulla sua “cultura politica”. Accadrà certamente, magari di sera, contro proteste più limitate di numero, senza testimoni “professionali” presenti; e si vendicheranno con maggiore ferocia nelle camere di sicurezza delle questure, delle caserme dei carabinieri, negli uffici matricola delle prigioni, specie quando non saranno decine di persone a passare tra le loro mani, quando non ci sarà il rischio di massacrare fotografi e giornalisti insieme a compagnucci sedicenni, teatranti stranieri e quacchere statunitensi. Ma quell’ordine, che pure è “nelle corde” di questa classe politica e nell’istinto delle “forze dell’ordine nostrane”, non è stato dato a Genova. Il governo Berlusconi — sulla traccia della linea seguita dal suo inqualificabile predecessore “di centrosinistra” — aveva però messo in piedi un meccanismo che andava avanti da solo, “slegando le mani”, per di più, agli istinti peggiori della sua bassa forza repressiva: “il morto” che questo governo temeva non poteva non esserci. In fondo è semplice: se usi certi mezzi non puoi che ottenere certi risultati, qualunque sia stato il tuo obiettivo.
3b) L’attacco a freddo sul corteo spazza però via anche le “autorappresentazioni concettuali” con cui ogni componente di movimento si era presentata a Genova. Le differenze interne non contano più nulla, perché il governo si è posto come nemico di tutti. È insomma evidente che la “pratica stile black bloc” ha fornito la prevista “scusa” per le cariche; ma è altresì evidente che l’attacco — proprio perchè portato contro il corteo, anziché contro i “gruppetti violenti” — ci sarebbe stato comunque. Anzi, c’è stato comunque. Stare ancora oggi al di sotto di questo livello minimo di comprensione significa condannarsi ad agire come una marionetta teleguidata nelle prossime fasi del movimento (sia che si operi come “ultrà pacifisti’ che come “antagonisti sfasciatutto”).

4. 21 luglio. L’attacco a tutto il movimento.
Il giorno dopo l’assalto della polizia non cerca più neppure il pretesto dei “black bloc”. Abolito ogni “gruppo di raccordo” tra forze dell’ordine e manifestanti, l’attacco investe tutta il corteo in ogni sua componente.
Ma le dimensioni di massa sono enormemente cresciute. E anche la determinazione a restare in piazza nonostante gli attacchi. Non era scontato, dopo il massacro del giorno prima. L’uccisione di Carlo moltiplica i presenti e le energie. La resistenza si riproduce, la “rivincita” che le cosiddette “forze dell’ordine” cercavano non viene trovata. È ancora una volta paradossale, perché non lesinano certo la violenza. Ma nonostante abbiano davanti un corteo pacifico, palesemente disarmato, non riescono a dissolverlo.
È questo che ci fa dire un movimento ormai esiste e la consistenza delle sue ragioni è incomprimibile. E difatti, se obbligato, si batte per affermare il suo diritto a esistere.
In questa seconda giornata ci sono protagonisti nuovi. I metalmeccanici della Fiom (ma non solo) e la più evidente presenza di Rifondazione connotano più largamente la composizione sociale e politica del movimento. Pezzi molto più grandi di corteo si muovono ordinatamente, tengono le fila anche sotto le cariche, portano una diversa abitudine ad “abitare” la piazza. Palesemente spiazzati da un’aggressione che non provavano più da un ventennio e oltre, hanno comunque tenuto duro, evitando nella misura del possibile lo scontro aperto.
Delegati di fabbrica e militanti di un partito parlamentare, di nuovo dopo una vita, hanno conosciuto l’onta del pestaggio poliziesco e dell’arresto. L’evidenza della presenza di Fiom e Rifondazione, e la violenza dell’attacco portato proprio contro i loro settori di corteo, la dicono lunga sulla rottura sostanziale nella politica repressiva in Italia. Da Napoli in poi, non c’è più neanche il riconoscimento formale dello “scudo” parlamentare proteso su settori sociali e aree politiche. Erano anni che non si assisteva a parlamentari, spintonati, dileggiati e addirittura feriti, con ostentata sicurezza dell’impunità. Lo spazio dell’opposizione, nella testa dei governanti attuali, è ridotto al lumicino. Rifondazione e la classe operaia, il sindacato stesso, si trovano di fronte a uno scenario politico del tutto nuovo (per quanto sia molto antico nelle sue forme essenziali). E a poco varrà il far riferimento a formule politiche degli anni appena conclusi. Il salto di qualità nel confronto sociale non ammetterà “incomprensioni”.
L’assato finale alla Diaz segna la degna conclusione di un percorso mentale che si è fatto strada nei dirigenti militari (e politici) della piazza. Incapaci di fermarsi e ragionare sul perché il loro “magnifico piano” non abbia funzionato, rincarano la dose. La conquista del “quartier generale nemico” — una scuola pubblica, con dentro poche decine di persone rimaste lì a dormire perché non avevano trovato i mezzi per ripartire — è logicamente comico quanto fattualmente tragico. Rivela una miseria intellettuale imbarazzante, proprio per questo terribilmente pericolosa. È il limite obbligato per ogni mentalità militaresca che abbia perduto il senso e il limite dettato dalla politica. Lo “spirito d’annientamento” che l’ha pervasa è stato palese in ogni atto e passaggio: dall’irruzione al pestaggio, dalle “pratiche” di Bolzaneto alla esibizione di pura vigliaccheria dei principali dirigenti di polizia di fronte agli interrogatori dei magistrati e a quelli assai meno “stringenti” messi in scena dalla cosiddetta Commissione d’indagine parlamentare.
In questo episodio riassuntivo di Genova e dell’atteggiamento della nuova classe politica di governo (interiorizzata fino al fanatismo dalla bassa forza militare) si è perfezionata l’estensione a livello di massa delle tecniche di annientamento psico-fisico individuale sperimentate negli anni ’70-’80 contro le formazioni armate di sinistra. Tecniche di tortura in senso proprio: ovvero procedure “testate”, preparate con cura (anche nell’apparente “casualità” affidata agli “umori” di questo o quell’agente), verificate praticamente in passato su piccoli gruppi di cavie prigioniere, servoassistite da medici e infermieri consenzienti. Tecniche da segrete di questura o da celle di isolamento in carcere, spesso denunciate da singoli e regolarmente sottovalutate da giudici, garantisti e stampa per assenza di testimoni “terzi” a convalida. Tecniche ora spiattellate sotto la luce dei riflettori, rivendicate dagli stessi torturatori come “procedure standard”. Di cui non si coglie più neppure la mostruosità.

5. Dopo Genova
Due diversi piani di riflessione:
a) Un movimento ormai esiste, ed è il luogo su cui a livello mondiale tendono a convergere e precipitare tutti i momenti rilevanti (e non) di critica pratica del capitalismo presente. Al di là dello “scadenzismo” (per cui assume visibilità internazionale solo nel momento in cui si contrappone fisico-televisivamente a un momento celebrativo simbolico-godereccio della globalizzazione: i vertici) la critica alle modalità in cui si afferma il modo di produzione capitalistico in questa fase si è raggrumata in un movimento. Ciò significa in primo luogo che esso ormai può prescindere dalle singole componenti: ognuno può decidere di starci dentro o uscirne, ma non c’è più — se mai c’è stata — una componente cospicua che possa decidere col suo atteggiamento della sopravvivenza o meno del movimento; questo, ovviamente, su scala mondiale: all’interno di ogni singolo paese o area i pesi specifici possono esser tali che effettivamente una qualche componente possa risultare ancora “determinante”: ma ciò implica solo che, in quel dato paese o area, il movimento locale è a rischio.
a1) Un livello di analisi complessiva condivisa ormai si impone. Il dibattito su il manifesto, in estate, è stato un importante rivelatore dell’urgenza che comincia a esser avvertita a più livelli (semplice “volontario’, organizzatore, intellettuali). Ciò che inquina, sfrutta i bambini, modifica geneticamente interi blocchi del ciclo alimentare, che distrugge diritti del lavoro e diritti umani, che annulla le sovranità nazionali bombardandole o corrompendole, che omogenizza le differenti culture distruggendole, è una sola e identica macchina-organismo. Che va ormai nominata e riconosciuta (globalizzazione, palesemente, può significare troppe cose per significare davvero qualcosa). Questo non è un accordo raggiungibile per via pacifica. Richiede scontro: culturale, politico, ideologico. E ognuna di queste parole ha un senso assolutamente positivo. Nel senso, fondativo, che fa crescere chi vi partecipa e riduce a macchietta chi vi si sottrae per coltivare, nel suo infame piccolo giardino, “la propria inconsistente verità”.
a2) Una qualche idea su quale altro mondo sia possibile, di conseguenza, è altrettanto necessaria: non solo per “tenere insieme” il movimento, ma per costituirne un senso positivo, oltre che “critico”. Nonostante il gran ciarlare di “pluralismi” e “novità stravolgenti”, non appena i discorsi (i documenti, le lettere, i libri) affrontano questo livello di problemi, escono fuori le “solite” due direttrici di marcia: l’illusoria possibilità di un capitalismo riformato e più umano, oppure un suo superamento di cui non si intravvede al momento né la strada né, tanto meno, il progetto dopo la drammatica esperienza e tragicomica fine del “socialismo reale”. “Solite” non sta qui per “noiose ripetizioni”, ma in senso scientifico: tertium non datur.
b) la “guerra civile italiana” si riproduce nonostante, e anzi attraverso la globalizzazione. Lo sviluppo civile è rimasto rachitico, inadeguato rispetto ai tassi di crescita economica. Figlio di distorsioni economiche e sociali che dobbiamo a questo punto considerare irriformabili; il conflitto sociale non trova mai un luogo istituzionale di composizione, ma solo “patti” inficiati fin dalla firma, che saranno rovesciati e traditi alla prima occasione. Il proletariato — per quanto salottieri e guerrafondai siano diventati i suoi “dirigenti ufficiali” — è riguardato dai ceti dirigenti ancora e sempre come folla nemica, soggetto fuori dallo Stato, contro cui lo Stato va usato. Ne consegue anche l’inestirpabilità di una caratteristica “ribelle” che segna il proletariato di questo paese, che gli fa giustamente vivere lo Stato come l’arma del nemico, ma che spesso gli impedisce di accedere a una visione generale — fondativa — della trasformazione sociale e politica.
Le classi in lotta si specchiano, anche quando si combattono. Le virtù o i difetti dell’una condizionano lo sviluppo dell’altra. L’indifferenza alle regole, in Italia, ad esempio, le attraversa entrambe. In forme che, per il proletariato, comporta spesso un livello di rissosità politica (leaderistica, personalistica) interna assolutamente autolesionistica e letale.
Ma a questo punto si può notare anche come alcune delle caratteristiche strutturali specificamente italiane somiglino terribilmente a quelle che si vanno imponendo nel cuore della superpotenza e di qui — per li rami — all’interno della civiltà europea stessa. L’anomia generalizzata (i presidenti del consiglio che si fanno le leggi ad personam, la lobby dei petrolieri Usa che si insedia in prima persona sugli scranni dell’amministrazione dell’unica superpotenza, senza più ricorrere a intermediari politici, ossia a funzioni programmaticamente pensate per la mediazione all’interno della classe dominante) che discende dalle istituzioni più importanti del pianeta entra nei corpi sociali, li pervade, li possiede e li perverte. Annientando le ragioni e le modalità (le regole) del vivere civile comune, costruisce al tempo stesso le premesse della guerra di tutti contro tutti, ovvero della guerra civile globale. Si parli di accordi sul clima o sui paradisi fiscali, sui missili antimissile o le armi batteriologiche, propugnare l’anomia a favore del potere del più forte significa infatti solo e soltanto preparare il terreno al confronto sulla pura base della forza. La guerra infinita, contro nemici fungibili e sostituibili a capriccio del presidente Usa, è perciò esattamente la forma di guerra — dal lato dell’imperialismo — che corrisponde alla guerra civile globale.
b1) Una classe dominante che non è una classe, ma un insieme modulare componibile (e continuamente ricomposto) di gruppi aziendali, corporazioni, “autonomie”, mafie; la “legge” di questo insieme non è “l’interesse generale in quanto classe” (da cui discendono regole condivise e un’amministrazione comune “neutrale”, ovvero non appartenenente ad alcun gruppo e in grado di far credibilmente rispettare le regole); ergo, questa classe dominante non è borghese, e di conseguenza la macchina che ha messo in piedi non è uno Stato liberale. Le sue regole — vigenti in modo pratico o in discussione su quello legislativo — non costituiscono mai una validità erga omnes. Sono, per usare un’espressione assurda quanto la realtà che indicano, “regole puntuali”, valide solo “caso per caso”. In epistemologia si dice “ad hoc”, ovvero “non regole”.
b1a) “L’emergenza”: da “logica” a sistema ordinario di governo. Si pensi solo a questo dato: dal ’76, anno della “solidarietà nazionale”, il Pci — la sinistra “ufficiale” — ha dismesso ogni critica agli apparati polizieschi, che hanno anzi ricevuto appoggio incondizionato anche nelle situazioni democraticamente più “dubbie”: legge Reale, Bologna ’77, il “concorso morale”, via Fracchia, le torture contro i brigatisti, l’art. 90 o il “41 bis” nelle carceri, ecc. Eppure non c’è stata una minima modificazione culturale o ideologica interna ai corpi di polizia. Napoli e Genova ci ha riconsegnato, senza più alcun velo, la fotografia di una polizia (e carabinieri, e finanza, e polizia penitenziaria, medici compresi) “corpo separato con ideologia fascista”, sottratto a ogni responsabilità civile e rivendicante il “diritto” di esser posto al riparo dall’occhio della legge (certificato dalla legge 78/2000 di riforma delle forze dell’ordine). Un apparato che anzi, da 25 anni di appoggio acritico “da sinistra”, ha tratto maggiore e legittima convinzione che il proprio status naturale sia quello di un corpo separato non criticabile e non imputabile. Vale la pena di individuare il tratto saliente della logica dell’emergenza: la costruzione del nemico pubblico, l’individuazione del nemico interno. La chiamata a raccolta della popolazione contro il “nemico pubblico” è un evento sociale; il suo veicolo principale sono i media; i protagonisti sono gli opinion makers (politici, intellettuali o, più banalmente, livorosi editorialisti a un milione e mezzo per “pezzo” da 80 righe). Lo strumento è la simbolizzazione di una vittima; se esiste, bene, altrimenti se ne inventa una (“la devastazione della città di Genova” è un classico esempio di “invenzione della vittima”). L’individuare un “nemico pubblico” legittima la crezione di un doppio livello giuridico: uno “normale” per quanti aderiscono “oggettivamente” all’esistente (a insindacabile giudizio dell’ordine costituito; banalmente, dal governo e dal “senso comune” costruito con i normali organi di informazione), e un altro per quanti contrastano “soggettivamente” con quest’ordine. Per i primi valgono le regole democratiche e le leggi esistenti; per i secondi, semplicemente, no. Un’apartheid interna alla società, non codificata esplicitamente come tale, ma ferreamente applicata. Chiunque, a turno, ci può cadere dentro: cominciarono con i brigatisti, continuarono con i mafiosi e i tangentisti (ironia della storia: dell’emergenza erano stati fin lì i primi beneficiari, ancor più dei piccisti che se l’erano inventata insieme a Cossiga). Ci furono momenti epici e internazionalisti (Saddam Hussein, Milosevic e la Jugoslavia). A riempire gli intervalli vennero i minus habens, e fu il turno di zingari, immigrati, pedofili, scioperanti nel trasporto pubblico, impiegati dello Stato; presto toccherà a lavoratori con contratto a tempo indeterminato, pensionati che hanno lavorato “solo” 35 anni, studenti e professori non in grado di apprezzare i “vantaggi” della scuola-azienda, famiglie di fatto. Altri ne verranno. A turno, implacabilmente. Ognuno potrebbe dire che qualcuna di queste categorie, in fondo, “se lo merita”. A ognuno, infatti, càpita a turno di esser “fuori” da una di esse. A turno. A questo “nemico pubblico” si può fare di tutto. Anche la tortura, l’isolamento in carcere, la consegna all’arbitrio della feccia della società arruolata in qualche guardianìa. Nessuno ha mai nulla da eccepire a questa procedura d’apartheid; tanto riguarda sempre qualcun altro. La “scoperta” dell’ignominia — per ciascuno o per ogni singola categoria — avviene solo quando la procedura viene applicata su di sé: volgarmente, sul proprio corpo. L’alto grido rivendicante la “democrazia sospesa” erompe solo allora: e trova una società insofferente, sghignazzante, pronta al pollice verso come nel più squallido dei peplum movies casarecci. E ti gridano: “garantista di merda!”, magari con la voce di Moretti (nel senso di Nanni). Il suicidio in carcere di alcuni tangentisti — gente che più di ogni altro aveva lucrato sulla “compattezza sociale” garantita dall’applicazione intensiva della “logica dell’emergenza” — è la riprova del carattere mostruoso di questo meccanismo (altro che “la rivoluzione che divora i suoi figli”!). Strana cosa, la democrazia. O è per tutti o per nessuno. Stupisce l’infingardaggine — la stoltezza masochistica — di quanti, magari dall’interno del movimento o dietro le scrivanie di redazioni ultra-democratiche, invocano una maggiore durezza verso i “violenti” e pretendono per sé un trattamento “civile”. Stupisce perché la civiltà costruita nel ventennio dell’emergenza è esattamente “questo” trattamento. Nelle procedure degli apparati statali non ne sono previsti altri. Questa è ora normalità, non eccezione. Quando ragazzi provenienti da altri paesi lamentano d’esser stati costretti a genuflessioni umilianti, a esibizioni corporee indegne di un essere umano, il governo ha facile gioco nel rispondere che queste sono le procedure usuali. Per chiunque cada nelle mani delle “forze dell’ordine”. Dov’è lo scandalo? Non nella procedura o nel trattamento, che sono beffardamente “uguali per tutti” (e sei stato anche tu a volere che fossero così per gli altri). Sta allora nell’esser considerati “nemici” quando non ci si sente tali? Ma non sei tu a decidere se sentirti “nemico” oppure no. C’è questo Stato che, da vent’anni, è stato delegato a decidere chi va considerato tale. E anche tu sei stato d’accordo nel concedere allo Stato questo potere definitivo. Che senso volete che abbia il dire “sono rimasto seduto in terra a mani alzate, ma sono stato picchiato lo stesso”? Non dovevi essere lì; dovevi restare a casa tua, a maledire televisivamente quelli che, al tuo posto, si stavano prendendo le legali manganellate di Genova. Nello show sei capitato nel posto sbagliato, ma il copione non cambia. Una seconda “ironia della storia”, però, va còlta. In questo giro di valzer, con la destra facista al governo, anche gli ex-piccì finiscono sotto la ruota dentata dell’emergenza. Rifondazione paga per prima — e in modo pesante — il prezzo, certamente. Ma anche ai Ds, quando fanno troppo gli “scandalizzati” per le “scene cilene”, viene ricordato che “questo è il gioco”. E che domani, chissà, potrebbe toccare a loro. Tutta questa storia riporta al centro del pensiero (dell’attenzione sarebbe pretendere troppo) il problema della legalità; un fantasma che ha occupato per intero il lessico di una sinistra perbenista, sinistrofoba e anticomunista anche quando presume d’esser sinistra (basterebbe pensare a Cossutta). Ora la questione può esser nuovamente nominata con spirito laico e memoria storica. Hitler prese il potere legalmente, vincendo le elezioni; i suoi atti furono tutti, perciò, perfettamente legali. Olocausto compreso. E non crediamo ci possa essere una misura più illuminante dell’orrore che può generare una ossessione legalitaria che prescinda dal merito, dai valori, dalla nozione di giustizia. Ci volle una guerra mondiale per ristabilire la parvenza di una giustizia. Legalità, non dovrebbe esser necessario ricordarlo, è un concetto “positivo”: riguarda semplicemente la “legge che c’è”, senza stare a sottilizzare se sia “giusta” o meno. Lo jus primae noctis era legge, no? La legge “è”, direbbe Sylvester Stallone in una sua qualsiasi giullarata. Altra cosa è la giustizia, il corrispondere di una norma a un giudizio di valore. Altra cosa, insomma, è la legittimità: di un potere, di una norma, di una procedura. Vent’anni di emergenze — di “democratiche” eccezioni ai princìpi giuridici con valenza universale — hanno costruito una cultura popolare, un senso comune di massa, di cui si sono impadroniti, con il viatico del centro-sinistra, i loro legittimi copywriters: fascisti, tycoons televisivi, petrolieri texani “ammanicati” con la Cia. Detto altrimenti: il cedimento sistematico alla cultura dell’efficientismo senza princìpi produce un mostro (fascista in senso proprio) che si riconosce, alla fine, nella sua cultura primigenia. Chiunque sia stato l’idiota che ha pensato di cavalcarla per servirsene. E non c’è mai stato idiota più grande di quella parte di “sinistra” che ha pensato di poter “trasformare pacificamente l’esistente” all’ombra dell’“eccezione emergenziale” sistematica. I picchiatori dei Gom della polizia penitenziaria (re-istituiti nel 1997 dal ministro cossuttiano Diliberto) o del “nucleo antisommossa” della Celere esistono e “lavorano” in quel modo da anni: non sanno fare altro. Sono un’“eccezione” all’interno dell’apparato repressivo? Non diciamo sciocchezze: sono degli “specialisti”, perciò monomaniaci monofunzionali, che coprono un ruolo “istituzionale”, non più “eccezionale” di un autista o di un assistente sociale.
b2) Le “regole” di questo Stato non obbediscono più a nessuna metaregola costituzionale; al punto che anche il corpus costituzionale viene riguardato come insieme di regole ordinarie, decise a maggioranza semplice e secondo le convenienze congiunturali. È da notare che il centro-sinistra ha legittimato per primo questa prassi invalidante la cornice costituzionale (ad esempio con la “riforma federalista dello Stato”, ma anche con l’esproprio del Parlamento e consegna all’esecutivo della riforma dello Stato perseguita dal ministro Bassanini). La cornice, insomma, si è rotta e non può “trattenere” più nulla (ammesso e non concesso che abbia in precedenza potuto trattenere qualcosa di più che non l’esplodere incontrollato della guerra civile). Il che vuol dire: non esiste più un “arco di forze costituzionali” che considerano “invalicabili” alcuni confini. Per ogni mostruosità che viene proposta — con un’intervista o con una battuta — si trova un certo numero di buontemponi “modernisti” che si chiedono “perché no?” e non trovano, ovviamente, risposta.
b3) L’opposizione “legittima”, in questo quadro, gode di uno status quanto mai incerto e revocabile; lo slittamento verso l’equiparazione a “nemico” da combattere senza limitazioni riguardo ai mezzi è una tentazione irresistibile per chi occupa in un dato momento il governo; la mattanza di Genova (la Diaz e i pestaggi di Bolzaneto) sono un precedente esemplare di questa realtà di fatto.
b4) La presenza di un partito comunista legale è meno tollerata e tollerabile che nel recente passato. Per quanto debole sia — numericamente e come “intellettuale collettivo” — il suo stesso esistere riproduce cultura antagonista, fa sopravvivere memoria, rimanda alla possibilità di superamento positivo di quest’ordine, costituisce una sponda naturale del conflitto di classe quotidiano; al di là della sua consistenza come “soggetto antagonista”, insomma, rappresenta di fatto un ostacolo al pieno dispiegamento del nuovo “regime politico” berlusconiano. Questa cosa, naturalmente, l’ha capita per primo il governo: le manganellate distribuite a piene mani sui settori di corteo chiaramente identificabili come Prc e persino sui suoi parlamentari ne sono una patente dimostrazione.
b5) La variabile “terrorismo”.
Il portafoglio di Genova, la busta esplosiva a Fede, la bomba di Venezia, quella contro una sede della Lega a Vigonza, la busta al prefetto di Firenze (Serra): una lunga serie di attentati, andati a segno o mancati, che vengono ricondotti tutti all’“area anarchico-insurrezionalista”, oppure ai “gruppi contigui alle nuove Brigate rosse”. Una domanda diventa decisiva: da chi vengono “ricondotti”? Dagli “inquirenti”, come sempre. Ma dov’è una sola conferma empirica di questa riconduzione? Da nessuna parte. In compenso molti commentatori ed editorialisti “preoccupati di professione” ci ammanniscono quotidianamente esempi e paralleli con gli anni ’70, sul rischio che si ripropongano gli “anni di piombo”. Accogliamo l’invito a confrontare i fatti di oggi e quelli di ieri, e pesiamo un po’ analogie e differenze su un punto decisivo: come si fa ad attribuire a qualcuno, con ragionevole certezza, un atto di violenza?: vedi infra, tra i Documenti, “Le ‘bombe’ prima di Genova”, di Velina della Sera.
b6) Il governo Berlusconi, a Genova, sembrava quasi un unicum in campo occidentale. Dopo l’11 settembre, l’attacco all’Afghanistan, la “legge marziale mondiale” decisa dal governo Usa e “valida” per qualsiasi cittadino non statunitense, scopriamo che rappresenta quasi un modello di soluzione della crisi dei modelli di democrazia rappresentativa nell’epoca della globalizzazione. Un’avanguardia della reazione, insomma, che ha inaugurato pubblicamente la strada su cui l’America sta chiamando tutto il mondo cosiddetto “civile”. L’esito, però, non è scontato. Più che la reazione dei paesi arabi — che ci sarà, se non altro per difendere la residua proprietà sulla rendita petrolifera, ma che rischia anche di aggravare la serie delle limitazioni invalidanti ai princìpi “democratici” — sarà decisivo l’atteggiamento dell’Europa. I prossimi mesi — al massimo un paio d’anni — vanno in questo senso monitorati come un passaggio chiave: o l’Europa si definisce come spazio giuridico-politico liberale che circoscrive e tende a eliminare l’anomalia fascista italiana e l’influenza “giurisdizionale” Usa, oppure fatalmente saranno queste a “infettare” un’area alle prese con problemi enormi di “equilibratura” tra regioni a differente composizione di capitale, con differenti culture giuridico-politiche (e grandi masse di popolazione completamente estranee alla tradizione “democratico-parlamentare”). La forza propulsiva di questo moderno fascismo sta proprio nel proporsi come “semplificazione” plebiscitario-commerciale delle pratiche di governo in una società complessa ed economicamente avanzata.
L’Europa è infatti ancora solo uno spazio economico comune; le sue istituzioni politiche sono in fieri; la sua costituzione formale ancora solo un abbozzo (con tratti da “aborto”). Se entra nella “costituzione materiale” dell’Europa in fase costituente il tratto autoritario-fascista di cui il centro-destra italiano, ma soprattutto la nuova e internamente incontrastata amministrazione repubblican-petrolifera americana, sono portatori consapevoli, la “guerra civile” da italiana diverrà continentale, facendo arretrare le lancette della storia.
La guerra, naturalmente, gioca spaventosamente a suo favore azzerando ogni analisi della storia come processo («Silete, sociologi», intima Panebianco dalle colonne del Corriere della Sera), azzerando con un solo colpo di penna due secoli di conquiste liberali (l’habeas corpus è già solo un vago ricordo negli Stati uniti; la libertà di stampa è rinviata a tempi migliori, la stessa libertà d’opinione e voto dei parlamentari repubblicani è stata messa in discussione sia negli Usa — con la povera Barbara Lee ribattezzata “Barbara Laden” — che in Italia). Svelando l’ipocrisia, soprattutto, della ragione ideologica elevata a bandiera della “giustezza” di questa guerra.
La “guerra infinita” (“giustizia infinita”, libertà duratura”, ecc) comporta lo stato di guerra interno permanente, anche quando l’azione militare ha per teatro territori lontani dal proprio. In questo caso, oltretutto, il territorio è il mondo intero e le megalopoli occidentali sono in prima linea. La scelta della guerra perenne “in nome della libertà” implica perciò che proprio la libertà — i diritti civili, di opposizione e critica, di informazione e azione politica, e persino di movimento di uomini e capitali — sia la prima vittima. Non c’è possibilità di attenuazione verbale. Gli ossimori che hanno costellato gli anni ’90 — “guerra umanitaria” resta l’esempio insuperabile — sono a questo punto impossibili anche da pensare. L’unica libertà che resta è quella d’impresa, l’investire denaro. Tutto il resto è potenzialmente vietato o “pericoloso”. I diritti del lavoro pesano “troppo” sui bilanci delle imprese, quelli dei popoli poveri incidono sui prezzi delle materie prime, gli spazi di democrazia (dovunque) diminuiscono la fluidità delle decisioni operative centrali e “rischiano” di incidere persino sul merito di quelle decisioni. Tutto troppo complesso. Non c’è, ai livelli massimi delle classi dirigenti del pianeta, un’idea e una politica in grado di presentare l’accumulazione come portatore di vantaggi visibili (non solo “ideologici”) per tutti. Troppe libertà creano illussioni e confusione, specie agli occhi di chi deve gestire “il tutto”. Ergo, una “riduzione di complessità” si impone.
Libertà? Solo per l’impresa e il profitto. Per questo, e davvero solo per questo, è già guerra civile globale.