di Valerio Evangelisti

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Il procuratore Sciabolaro entrò in ufficio pimpante. La sera prima, alla testa della squadra di pallamano dei Magistrati, aveva battuto la squadra rivale degli Uscieri, ponendo le premesse per la conquista della coppa del Gruppo Sportivo del Tribunale di Milano.
Lo sguardo gli cadde sul quotidiano spalancato sulla sua scrivania. “Nazario Sauro è brutto”, recitava il titolone che sovrastava una grande fotografia.
Sciabolaro si lisciò i baffi bianchi, soddisfatto. «Ottimo» commentò ad alta voce. «Questa è la volta che riusciamo a farlo estradare.»
Il primo quotidiano ne copriva una serie d’altri. La foto era la stessa. Semmai variavano i titoli, ma di poco: “I quattro delitti del feroce terrorista”, “I cinque assassinii del tremendo delinquente”, “I sei crimini del crudele serial killer”. L’ultimo quotidiano della pila era La Sicilia di Catania: “I nove omicidi e i due scippi del sadico Nazario Sauro (che non è mai stato siciliano)”.

In quel momento entrò l’anziana assistente di Sciabolaro, la signorina Cesarina Mariotti, baffuta e sdentata, ma per il resto ancora passabile, malgrado la gobba. Aveva con sé un fascicolo tutto ingiallito. «Noto che ha visto i giornali che le ho portato, dottore» trillò. «Ho fatto anche le ricerche di cui mi aveva incaricato. Ho qua i dati, però c’è una cosa strana. Non ho mai trovato il suo nome.»
Sciabolaro spalancò gli occhi. «E’ strano davvero. Sarà perché il processo è passato a me solo in un secondo tempo. Mi legga comunque i passi più importanti della sentenza.»
«Come faccio? E’ tutto scritto in tedesco!»
«In tedesco? Come sarebbe a dire?»
La signorina Mariotti sorrise furbescamente. «Oh, ma io un po’ di tedesco lo so. Ecco quello che ho capito. Il processo a Nazario Sauro si svolse nel 1916. L’imputato, che era comandante di sommergibile, fu condannato a morte mediante impiccagione, dopo un drammatico confronto con la madre, che il tribunale militare aveva…»
Sciabolaro levò gli occhi al cielo. «Ma signorina Mariotti, le pare che io, nel 1916, potessi già dirigere un processo?»
La donna si impettì, offesa. «E io che ne so? Non mi sono mai permessa di chiederle la sua età. Ci mancherebbe.»
«Signorina, porti via quella roba.» Sciabolaro cominciava a perdere la pazienza. «Il Nazario Sauro su cui cerco informazioni è quello di cui parlano tutti i giornali. Terrorista evaso e fuggito prima in Costa Rica e poi in Francia, diventato famoso autore di fumetti, difeso dalla potente lobby dei fumettisti. Altro che sommergibilista!»
La signorina Mariotti stentava ad arrendersi. «Perché? Uno che ha fatto tutte quelle cosacce non potrebbe essere stato anche sommergibilista?»
«Sparisca!» urlò Sciabolaro.
Sulla soglia, la donna si voltò. «Permetta che glielo dica con franchezza, dottore. Quando qualcuno solleva un’obiezione logica, lei si mette a gridare. Non si fa così. Proprio no.»

Nello stesso momento, a Parigi, i tre magistrati della Chambre d’Accusation stavano sudando su un fascicolo di almeno 800 pagine.
Chi espresse l’opinione di tutti fu il grasso Jobéy. «Mi chiedo chi sia il fesso dell’Ambasciata italiana che ci ha mandato questa roba. Avevamo un problema semplice: giudicare ancora una volta Nazario Sauro ed estradarlo, finalmente. Adesso ci tocca leggere queste carte, che non capisco nemmeno che cavolo siano.»
«Sono gli atti dei processi che Nazario Sauro ha subito in Italia» rispose Jexécute, il più magro dei tre. «Primo grado, Appello, Cassazione, ancora Cassazione. Se aggiungiamo quelli che ha avuto in Francia, questo Sauro risulta l’uomo più processato della storia.»
«Direi che gli sta bene. Non era mai presente.. Poi si lamenta se è stato condannato. E’ come se io facessi il biglietto del treno, non mi presentassi alla partenza e dopo mi lamentassi di non essere arrivato a Marsiglia.»
L’autorevole Ditesmoy-Quoifaire, né grasso né magro ma semplicemente imponente, annuì con la testa canuta. «Un ottimo paragone, caro collega, magari da citare nella sentenza. Il problema è che i nostri predecessori hanno sempre negato l’estradizione. Chissà cos’avevano in mente. Magari pensavano che un tizio debba per forza assistere al suo processo, per essere condannato.» Ditesmoy corrugò la fronte. «I magistrati giovani hanno scarsa memoria per i precedenti. Ci sono casi di condanna in effigie che risalgono al XIII secolo. Semmai dovremmo appurare se una foto di Nazario Sauro fu collocata sulla sedia a lui destinata, durante le udienze.»
Jobéy e Jexécute meditarono per un minuto buono su quello sfoggio di cultura giuridica. Il magrolino, più giovane e meno conformista, fu il primo che osò rompere il silenzio.
«Ehm, esimi colleghi, mi permetto di suggerire di non seguire quella via. Se poi salta fuori che una foto di Nazario Sauro è rimasta chiusa in qualche penitenziario, per un motivo qualsiasi, dovremmo concludere che il Sauro ha già scontato la condanna.»
Ditesmoy reagì con indignazione. «Impossibile! Era l’ergastolo!»
«E se la foto fosse ancora là? Pensiamoci bene!»
Un generale moto di imbarazzo fece capire che il giovane Jexécute aveva vinto lo scontro dialettico. Per evitare di riconoscerlo, Jobéy cambiò argomento.
«Non divaghiamo. Il problema vero è ribaltare la decisione dei nostri predecessori. Qualcuno mi ha detto che esiste un principio giuridico chiamato Ne bis in idem. Ve lo traduco: nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso reato. Pare che valga anche in Francia. Questa Chambre d’Accusation ha già negato che Nazario Sauro sia estradabile, tredici o quattordici anni fa. Cosa facciamo?»
«Ecco una questione seria» commentò Jexécute, accigliato.
Ditesmoy rise, con una giovialità da cui non era estranea una punta di condiscendenza. «Ma no! Ma no! Esiste per caso un principio chiamato Ne tris in idem? Su, rispondete!»
«Credo che non esista» rispose Jobéy. «Non ne ho mai sentito parlare.»
«Allora è fatta! Le ordinanze della Chambre d’Accusation favorevoli a Sauro furono due. Inoltre la Procura, solo l’anno scorso, rifiutò di estradare il malandrino. Noi ci pronunciamo non per la seconda, ma per la terza o quarta volta! Il principio del Non bis in idem è salvo!»
Gli altri proruppero in un applauso spontaneo, conquistati dal rigore logico dell’argomentazione. Spentosi l’entusiasmo generale, il prudente Jobéy consigliò:
«Forse è il caso che mettiamo al corrente il collega italiano Sciabolaro delle nostre deduzioni. Finora è lui che ci ha suggerito come muoverci. Ci può aiutare a passare dai principi generali del diritto agli atti concreti.»
«Ottima idea» convenne Ditesmoy. «Chiamiamolo subito.»

Quando il telefono cominciò a squillare, Sciabolaro era nel bel mezzo di un’intervista a un redattore de L’Utilità. Sulle prime ignorò gli squilli e continuò a rispondere alle domande.
Seduto su una poltroncina dell’ufficio del procuratore, il giornalista domandò: «Come si sente nei panni di magistrato notoriamente di sinistra? Glielo chiedo perché L’Utilità la elogia di continuo e pubblica spesso suoi articoli.»
«Oh, mi ci trovo benissimo.»
«Cosa pensa della detenzione di Adriano Sofri?»
«Assolutamente sacrosanta.»
«E del caso di Silvia Baraldini?»
«Fosse stato per me, io a quella là avrei fatto tagliare… Ma il dannato telefono continua a squillare. Bisogna che io risponda.»
«Una domanda al volo. Secondo lei fu giusto riconsegnare Ocalan ai turchi, dopo che aveva trovato rifugio in Italia?»
«Giustissimo. Magari bisognava dargli anche un fracco di legnate… No, devo proprio vedere chi è che mi chiama.»
Sciabolaro alzò la cornetta. Un attimo dopo, il suo viso si illuminò. «Ah, mon cher Ditesmoy! Quel plaisir!» Coprì il microfono e guardò il giornalista. «E’ un collega francese. Mi perdoni. Del resto credo che l’intervista fosse finita.»
«In pratica sì. Volevo solo domandarle un’opinione sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli.»
«C’è poco da dire. Si gettò dalla finestra da solo. E’ vero che in quel momento era innocente, ma magari sapeva che in futuro avrebbe commesso delitti. O forse credeva di essere al primo piano, chi può dirlo?… Insomma, si toglie dai piedi o no?» Appena il giornalista fu uscito, Sciabolaro si riattaccò alla cornetta. «Excuse-moi, mon ami. Era uno della stampa, e faceva domande a vanvera. Come siete messi con quel dannato Nazario Sauro?»
Per parecchi minuti Sciabolaro si limitò ad ascoltare, annuendo di tanto in tanto. Infine disse: «La faccenda del Ne tris in idem è geniale, non c’è che dire. Farà scuola nel diritto. Però non c’è bisogno di arrivare a tanto, secondo me. Ho studiato il caso. Hai un foglio per prendere appunti?»
Dopo qualche istante, il procuratore riprese: «Dunque, siamo nel 1991. Sauro chiede asilo in Francia. La Chambre d’Accusation esamina il dossier giunto dall’Italia e rifiuta l’estradizione. Ma lo fa — bada bene — in assenza di una condanna divenuta definitiva. Mi segui?»
Sciabolaro attese la risposta, prima di andare avanti. «Invece la condanna era diventata definitiva qualche mese prima. Noi, però, ci eravamo ben guardati dal mandare in Francia la sentenza. Mica siamo scemi. A quei tempi voi francesi negavate sempre l’estradizione, quando in ballo c’era un ergastolo. Così ci siamo tenuti le carte e abbiamo lasciato che i tuoi colleghi si pronunciassero senza saperne niente. Si sono tenuti il Sauro, ma in via provvisoria, in attesa che la sentenza definitiva fosse arrivata. Be’, adesso è arrivata, e di quel fetente potete fare quello che vi pare.»
Il commento di Ditesmoy non fu lungo, ma dovette suonare scandaloso, perché Sciabolaro strabuzzò gli occhi. «Scusa ma non ti capisco. Cosa vuol dire che vi abbiamo mandato la sentenza dopo tredici anni? Lo trovi un periodo eccessivo? Il mio liceo mi mandò il diploma su pergamena quando ero già laureato da dieci anni. E questo cosa vuol dire? Che non sono diplomato?»
Seguì un breve silenzio, tale da permettere un consulto di Ditesmoy con i colleghi. Finalmente, udita la risposta, Sciabolaro sorrise. «Bravo, vedo che avete capito. La macchina della giustizia europea si mette in moto. E non credermi un ingrato, cercherò di ricambiare. In questi giorni sto riguardando il caso Dreyfus, e lavoro con i colleghi americani su Sacco e Vanzetti. In tutte e due le circostanze ci fu una chiara intromissione di scribacchini e intellettuali assortiti. Si mobilitarono i circoli snob, come ha scritto Gianni Fuoririotta… Come dici? Sacco e Vanzetti finirono sulla sedia elettrica?… Non sono ancora arrivato a quella pagina della sentenza. Be’, mi consola… Ma dimmi, quel tale Zola Emilio è ancora al mondo? So che è passato del tempo, ma i cattivi maestri sono come l’erba cattiva: non muoiono mai.»

Circa quindici giorni dopo Gianni Fuoririotta partecipava al comitato di redazione de Il Corriere della Repubblica, il più importante quotidiano italiano. Malgrado il suo passato nel gruppo extraparlamentare Lotta a Strappi, in quell’ambiente si trovava a suo agio. Il direttore proveniva da Potere Manovale, molti redattori da Avanguardia Bracciantile o dal vecchio Partito Piccista. Non era stato difficile, per loro, voltare gabbana. Il loro profeta defunto, Isidro Fontanelli, lo aveva fatto un migliaio di volte, e così si era conquistato gli allori di più grande giornalista della storia. Per i suoi discepoli era stato ancora più semplice. Si erano limitati a sostituire, negli slogan e nelle sigle di un tempo, la parola “guerra” alla parola “lotta”. Così “Lotta di lunga durata” era diventata “Guerra di lunga durata”, “Lotta continua” si era trasformata in “Guerra continua”, ecc. Lotta a Strappi aveva subito la stessa sorte, su ispirazione del suo leader Ariano Soffrì (sia nel senso di avere sofferto, che in quello, apostrofato, di essersi mostrato disponibile) (secondo la rilettura della “Vispa Teresa” operata da Trilussa: “La donna che soffre / Se apostrofa l’esse / Ha tutto interesse / A dire che soffre”).
Sebbene Fuoririotta non avesse la direzione del giornale, in redazione esercitava tutto il suo peso di opinionista affermato, per di più col ciuffo e un numero congruo di apparizioni televisive alle spalle. Tutti quanti attesero dunque, col fiato sospeso, che si pronunciasse sulla prima pagina del quotidiano in uscita.
Fuoririotta prese il suo tempo, poi esplose nell’esclamazione di sempre: «Ma chi ha messo insieme questa merda?»
«Cosa c’è che non va? Il titolo?» chiese il direttore Paolo Propoli, l’unico a non essere intimidito.
«No, il titolo va bene. ‘La magistratura francese accorda l’estradizione di quel bastardo di Na-zario Sauro, l’arcicriminale che scrive fumetti’. E’ neutro, sereno, obiettivo. Perfino troppo benevolo. Ma è rovinato da questa foto orrenda. Sauro digrigna i denti, d’accordo. Ma uno può pensare che sorrida, seppure malissimo. Invece sappiamo tutti che sorride solo quando pensa al sangue che ha versato.»
Il fotografo Joe Pesci, detto il Grande Benzini, si sentì tirato in ballo. «Ho fatto il possibile per avere una buona foto di Sauro. Gli ho spruzzato dell’ammoniaca sul sandwich che stava mangiando, gli ho infilato degli scarafaggi sotto la maglia. Alla fine ho mandato un amico a tirargli da dietro un calcio in culo. Quella è la smorfia peggiore che ha fatto.»
«Non basta.» Fuoririotta assunse l’espressione severa cara all’indimenticabile Isidro Fontanelli. «Se Nazario Sauro non risulta abbastanza repellente, ci vuole la foto di una delle sue vittime. Barbara Canne Fumigoni, su Il Resto della Stampa, si è detta commossa dallo spettacolo del figlio di una delle vittime di Nazario Sauro. Un invalido ferito da Sauro durante un agguato al padre. La Canne Fumigoni ha rivolto un appello accorato ai fumettisti francesi, in nome di quella immagine. Bene, la foto che voglio in prima pagina è quella del poveretto in carrozzella.»
Paolo Propoli tossicchiò. «Gianni, pare che Sauro non sia mai stato accusato di questa roba. Dicono che nelle stesse ore si trovasse lontano un centinaio di chilometri, ad ammazzare un droghiere.»
«E chi ha reso invalido l’invalido? Io, forse?»
«No, non tu. Risultò che fosse stato proprio suo padre, sparando a casaccio.»
Joe Pesci alzò una mano. «Io ho una foto di un droghiere morto! C’è un sacco di sangue! Magari vi serve!»
«Stai zitto!» lo rimbeccò Fuoririotta, un tantino isterico. «La gente se ne frega dei droghieri morti. Ci serve un invalido vero, chiunque lo abbia ferito Sei d’accordo, Paolo?»
Propoli annuì. «Sì. D’altra parte, anche nel caso del droghiere, non fu Nazario Sauro a sparare. Ammesso che ci freghi qualcosa.»
«Proprio nulla di nulla.» Fuoririotta guardò il Grande Benzini. «Ora vai in fretta a fotografare l’invalido. Come immagine, sarebbe più efficace se fosse caduto dalla sedia a rotelle. A volte basta una scossa un po’ violenta…»
«Capito, capo!»
Uscito il Grande Benzini, l’atmosfera si rilassò. Propoli cercò con gli occhi l’esperto di moda: un omino basso, dai modi affettati. Si chiamava Pino Correva. «Ehi, Pino, ti sentiresti di curare la critica dei libri a fumetti?»
L’ultimo libro che Correva aveva letto era stato Apologia dell’italiano mediocre, di Beppe Severgnini. Più le opere scelte in cofanetto di Oriana Fallaci. Tuttavia rispose, entusiasta: «Certo che sì!»
«E allora scrivimi una recensione in cui dici che i fumetti di Sauro fanno schifo.»
«Ma non li ho mai visti!»
«Cosa conta? Nemmeno io li ho letti Qui si combatte il terrorismo con tutti i mezzi. I fumetti disegnati da un individuo schifoso devono fare schifo per forza. A proposito, nessuno ha elementi che potrebbero collegare Nazario Sauro a Bin Laden?»
Un vicedirettore presente in sala, un egiziano, alzò la mano. «Io! Una fonte riservata, in Kuwait, mi ha confessato in via confidenziale che a Parigi c’è una quantità di musulmani. E dove abita Nazario Sauro? A Parigi!»
Fuoririotta meditò un poco. «Non mi pare una buona pista.»
«Sì che lo è! Chi può saperlo meglio di me, che sono egiziano? Le mie fonti, che non posso rivelare per il momento, mi dicono che ci sono stabili parigini pieni di arabi. Ora, Nazario Sauro, per tirare la carretta, faceva il portinaio in un quartiere popolare. Volete che gli integralisti islamici affidassero la loro spazzatura, piena di brandelli di carte segrete, a qualcuno che non era dei loro?»
Qui intervenne Propoli, piuttosto secco. «Mahdi (così si chiamava l’egiziano), sei un imbecille. Non dobbiamo far capire ai lettori che Nazario Sauro era un poveraccio, altrimenti simpatizzeranno per lui. Meglio presentarlo come ricchissimo, e coccolato dagli intellettuali parigini durante le loro orge.»
«A cui partecipano regolarmente arabi miliardari» aggiunse Mahdi con un sorriso furbesco.
Questa volta fu Fuoririotta a intervenire con secchezza. «No, lasciamo perdere la pista Bin Laden. Non ci porta da nessuna parte. Per la prima pagina propongo il titolo: ‘Magistratura francese: quello stronzo di Nazario Sauro sia estradato. Ricco com’era, frequentava i rifiuti di Parigi’. Che ne dite?»
Dopo un breve silenzio scoppiò un applauso scrosciante.

Il procuratore Sciabolaro, letti i giornali, aveva molte ragioni per essere soddisfatto. Manifestò il suo giubilo alla signorina Mariotti che, cercando di non essere vista, si stava spuntando i baffi usando l’anta di vetro di un armadio quale specchio.
«Ormai Nazario Sauro è incastrato! Dia un’occhiata ai titoli dei quotidiani. Non dicono una parola di vero. Buon segno! La stampa ci appoggia!»
La Mariotti si affrettò a nascondere le forbici. «Ma lei ha sentito il giornale radio, dottore?»
«No, perché? Che c’era da sentire?»
«Raccontano che Nazario Sauro è scappato. E’ sfuggito all’estradizione.»
La notizia colse Sciabolaro come una mazzata. Calò il pugno sull’armadio che conteneva le carte del processo Tabacci, in cui tutti erano finiti in galera tranne i colpevoli, visto che si erano pentiti.
«Oh, malandrino!» urlò furioso, mentre si soffiava sulle nocche arrossate. «Oh, vigliacco! Non ha nemmeno avuto il coraggio di accettare l’ergastolo con dignità! Conosco ergastolani che se ne stanno tranquilli in galera, anche se sono innocenti. Lui no! Lui preferisce il Costa Rica al bugliolo! Magari adesso è sotto le palme che gioca a golf con i suoi amici terroristi dell’ETA, dell’IRA, delle FARC, della Giovane Italia, di Al Qaeda, della Carboneria Universale Unificata, del PKK, dei Sublimi Maestri Perfetti…»
La signorina Mariotti non aveva mai visto il suo capo così alterato. Ne fu molto turbata, tanto che a stento osò sussurrare: «Si calmi, dottore! Questa volta è lei che confonde i fascicoli!»
«…della Società delle Stagioni, della Black Liberation Army, di Aides-toi le ciel t’aidera, della Cospirazione per l’Uguaglianza, di Narodnaja Volija, dei Beati Paoli, dell’Irish Republican Socialist Party, del Dev Genc, del Chukaku-Ha, della RAF, dei Vindicosi, della Società Mazziniana…»
Sciabolaro era un torrente in piena. Quando ebbe nominato tutti i gruppi terroristici esistenti o esistiti, si lasciò cadere esausto sulla sedia. Ebbe appena la forza di bisbigliare: «Ma io ti acchiapperò, Nazario Sauro, giuro che ti acchiapperò! E con te sbatterò in galera tutti quelli che, come te, sono stati denunciati dal pentito Piero Muto. Incluso quell’arabo di cui non ricordo il nome.»
La signorina Mariotti gli venne in soccorso. «Non si tratterà di Yasser Arafat?»
«Brava! Proprio quello! Era il capo di tutti i terroristi del mondo, lo sa? Muto rivelò che anche Nazario Sauro era ai suoi ordini. Vede la grande cospirazione islamista? Ma io metterò ai ferri sia Sauro che Arafat, dovessi morire all’istante!»
La signorina Mariotti esitò un poco, prima di pronunciare le parole successive. «Mi dispiace doverglielo dire, dottore. Credo che Arafat sia defunto, alcuni mesi fa.»
Per Sciabolaro fu il colpo definitivo. Scattò in piedi e annaspò a vuoto, mentre un filo di bava gli colava sul mento. «Un altro vigliacco che si sottrae alla cattura! Ma come ha osato! Lo farò disseppellire e farò bruciare la sua carcas…»
Il cuore del procuratore, già provato dai tornei di pallamano, non resse. Morì all’istante.

Il giorno dopo Il Corriere della Repubblica titolava su cinque colonne: “Quel porcone di Nazario Sauro ha tagliato la corda, dimostrando la sua colpevolezza. Indymedia, Agnoletto, Chavez e Bin Laden esultano. Costernazione delle vittime del terrorista”. L’articolo era firmato Fuoririotta, ed era corredato, per il dodicesimo giorno consecutivo, dalla foto di un invalido qualsiasi. Identica la prima pagina, e identica la foto, sul quotidiano post-comunista L’Utilità.
In entrambi i giornali, soffocato dalle priorità della cronaca, figurava un trafiletto intitolato: “Morto il procuratore Sciabolaro. Istruì tanti bei processi negli anni Settanta. Avversò Berlusconi e Fini perché non abbastanza forcaioli. Forze politiche indignate contro Vauro, che ha intitolato la propria vignetta ‘E’ morto un bischero’. Nasce una Casa del Pentito a lui intitolata, e un penitenziario che ne porterà il nome. Lutto anche nel mondo della pallamano giudiziaria, d’ora in poi dominato dagli Uscieri.”.