Claudiomagris2.jpg
Hortusmusicus.jpg
Nel suo numero attualmente in libreria (A. V n. 18, aprile-giugno 2004), la prestigiosa rivista di cultura e politica (e molto altro, tra cui soprattutto la musica classica) Hortus Musicus, diretta da Roberto De Caro, dedica ben dieci pagine alla difesa di Cesare Battisti. Ciò alla faccia di chi sostiene che gli intellettuali italiani schierati a sostegno di Battisti siano pochi o marginali. Del resto si tratta di capire di quali intellettuali si stia parlando. Non a caso l’editoriale di Hortus Musicus elenca gli uomini di cultura italiani che, durante il fascismo, non si vergognarono di collaborare alla rivista Il Primato di Giuseppe Bottai (prima o poi pubblicheremo anche noi quella lista sorprendente).
Da Hortus Musicus A. II n. 8, ottobre-dicembre 2001, riprendiamo un commento alle posizioni assunte quello stesso anno da Claudio Magris, dopo gli scontri per il G8 a Genova. Di recente lo stesso Magris è intervenuto su Le Monde con un articolo rivolto contro Cesare Battisti, in cui incredibilmente richiamava la tesi, smentita anche in sede giudiziaria da almeno ventiquattro anni, di un Toni Negri capo delle Brigate Rosse. Sulla continuità tra le due prese di posizione, facciamo nostro il commento che Lenin (sbagliando) rivolse a Rosa Luxemburg: “Anche un’aquila può volare bassa come una papera”. (VE)


TERTIUM NON DATUR?
di Gulliver

Taci. / Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane
(Gabriele d’Annunzio, La pioggia nel pineto)

«Non se ne vede ancora la fine». «E invece sì».
(Karl Kraus, Detti e contraddetti)

Tra gli effetti memorabili del Ritorno all’Ordine, persuasivamente argomentato nel dibattito genovese del luglio scorso dalle Forze appunto dell’Ordine, non sarebbe giusto trascurare in sede storica — non inediti, ma antropologicamente sempre affascinanti — i sovrumani silenzi, la profondissima quiete subito docilmente scesi sugli interminati spazi delle patrie Lettere, pietrificanti una foresta solitamente canora de omnibus rebus et quibusdam aliis. Lo storico freni comunque la vana tentazione di intonare ancora una volta la litania della trahison des clercs. Sull’acuta sensibilità eolica dei nostri garruli pennuti non ci sono più misteri, da almeno cinquecento anni. Perché l’ultima covata dovrebbe tralignare? E d’altra parte in questa occasione la deplorazione globale non saprebbe apprezzare come merita una preziosa variante individuale all’unanime, ubbidiente afasia: non, si badi, l’incontinente trillo tenorile di un futile usignolo, ma, per il decoro della categoria, su le soglie del bosco il grave, sofferto bubbolare di un vecchio gufo sapiente.
L’eccezione peraltro va spiegata. Infatti — non fosse legittimo il sospetto che alla dipartita di Indro Montanelli, in uguale misura inattesa e dolorosa, si sia subito aperta la corsa alla successione, a colmare il vuoto incolmabile —, dovrebbe stupire che un letterato di indiscutibile aplomb mitteleuropeo come il professor Claudio Magris, a mattanza ancora calda, invece di andare al mare come l’intellighenzia italiana nel suo complesso, si sia affrettatamente assunto di disvelare il Vero della Strafexpedition di Genova, mimando seriosamente le amene banalità e spiritose invenzioni goldoniane per cui era famoso il Maestro di Fucecchio, affabulando proprio come avrebbe fatto lui se appena appena ne avesse avuto il tempo, con la stessa sua disinibita incuria per la decenza tanto a lungo apprezzata al dopoborsa milanese e al Circolo della Caccia del borgo natio. Candido come il vecchio Indro quando gli si parlava di guerra dei gas in Africa Orientale, il pensoso Claudio si è provato a distillare l’essenza concettuale dell’affaire genovese glissando zelante sui dettagli (Troppa indulgenza per certi ribellismi. Violenza, pericolo di assuefazione, in Il Corriere della Sera, 24 luglio 2001). Non gli interessava infatti chi a Genova avesse massacrato chi, pago di sapere — Udite, udite! — che «alla magistratura spetta appurare le responsabilità di chiunque, dimostranti e forze dell’ordine, e — una volta accertati eventuali reati — punirli senza riguardi per nessuno». Be’, siamo giusti, questa Montanelli se la sarebbe risparmiata. Lui era toscano, mica mitteleuropeo. Lui Pinocchio lo aveva letto e della giustizia sapeva ciò che c’è da sapere. E non sembrava uscita da una pagina di Collodi la promessa del capo della polizia di una severa inchiesta interna per accertare eventuali abusi? Ci avesse invece pensato su senza fretta il candido Claudio, se lo sarebbe forse chiesto se nelle circostanze genovesi la sua rinunzia ad interrogarsi sulla mattanza e i suoi autori non fosse la prova migliore dell’assuefazione che egli stesso lamentava, con l’indignata amarezza civica prescritta ad un aspirante opinion maker: «una generale tendenza a considerare accettabile — o addirittura encomiabile — un certo grado di violenza e di violazioni della legge».

Se non altro il tempo onestamente concesso alla meditazione avrebbe risparmiato al professore la più precipitosa palinodia che sia toccata ad un bubbolio postasburgico. Ansioso di bruciare sul tempo la concorrenza nel gran premio dei Tartufi, il professore è incappato infatti in un infortunio che purtroppo ne rivela tutta la mortificante distanza dal modello. Sulla guerra chimica in Africa Orientale il grande Montanelli seppe fare lo gnorri per sessant’anni. Sulla violenza della polizia a Genova l’emulo non c’è riuscito per più di quarantott’ore. È vero però che l’Indro nazionale aveva qualche vantaggio: alla conquista dell’Impero non c’era la televisione, nemica della fantasia, che ti potesse smentire in tempo reale. Fatto sta che, mentre il memorabile bubbolio del professore prendeva il suo giusto posto nella hit parade dell’apologetica quisling di tutti i tempi, l’intera Europa poteva apprezzare all’ora di cena una brutalità poliziesca che a memoria di vescovo non s’era vista in Italia nell’ultimo mezzo secolo, tale da turbare persino il presidente del sindacato europeo di polizia, il tedesco Hermann Lutz, che ad occhio e croce tanto tenero non deve essere («Sono profondamente colpito dal modo di procedere dei colleghi italiani», ha dichiarato alle televisioni mitteleuropee. «Di fronte a quelle immagini, ho pensato che si trattasse di fatti avvenuti in una dittatura, nell’Europa dell’Est o a Cuba, non da noi, nel centro dell’Europa»). Anche se purtroppo scripta manent — è il fardello dei letterati! —, che poteva fare il troppo alacre professore, se non tornare precipitosamente in pista, contrito Pierrot ululante alla luna la sua differita, ma sempre inventiva indignazione?
Ecco dunque due giorni dopo (Il dovere della verità in Il Corriere della Sera, 26 luglio 2001) il Magris stracciarsi le vesti come Ecuba sulle fumanti rovine di Troia, gemere non già per le violenze, ma per il sospetto delle violenze, della inaudita e inaudibile lesione, horresco referens, allo Stato di diritto: se fosse vero ciò che si dice degli abusi della polizia su cittadini inermi e inoffensivi «verrebbero meno ogni certezza giuridica, ogni garanzia personale, ogni sicurezza politica, ogni ordine sociale, e il Paese si troverebbe nel vuoto e nello smarrimento». Be’, non esageriamo: l’«ordine sociale» ne ha viste (e fatte) ben altre. Piuttosto è il professore ad annaspare nel vuoto e nello smarrimento, dimentico tra i singhiozzi dei debiti pregressi dello Stato di diritto e dilaniato al presente dall’atroce dubbio civico: lui a Genova purtroppo non c’era e nemmeno guardava la televisione, come deve ogni cittadino ansioso di sapere. Forse, professoralmente sdegnoso di popolari semplicismi ostensivi, nel frattempo chiedeva aristocratiche, rasserenanti suggestioni epistemiche alle sue muse mitteleuropee (magari non a Kafka, epistemologo, in tema di Stato di diritto, notoriamente tendenzioso). O, se non si intratteneva con le muse, dormiva. Perciò, dimenticata la sua incrollabile fiducia nella magistratura, ora l’ignaro professore associa il suo dolente grido di «Verità, verità!» al coro filisteo dei custodi dell’arca vuota, invoca «piena luce» da una commissione parlamentare d’inchiesta: perché il popolo italiano deve sapere! Come se il popolo italiano, o almeno la sua parte interessata alla cosa, non necessariamente maggioritaria, l’abbondante verità non l’avesse vista già con i propri occhi, fosse o non fosse a Genova. E come se — sebbene in proposito Pinocchio non si pronunzi — dopo la commissione Stragi presieduta dal senatore Pellegrino qualcuno potesse ancora pensare che una commissione parlamentare d’inchiesta (o altro inventivo Sherlock Holmes parlamentare, come bubbola oscuramente alternativo il professore) sia la Bocca della Verità. E così ci risiamo. Debitamente transustanziata in civismo catalettico la civile indignazione, il professore può tornare tranquillamente a menare il can per l’aia, come dicono a Fucecchio.

Però si farebbe torto alla dottrina del professore se la discussione si fermasse alle intemperanze della polizia, che in fondo sono dettagli su cui non può indugiare la riflessione filosofica. La quale bubbola invece, chi lo avrebbe pensato?, che la tragedia di Genova è stata tutto un equivoco, un colossale errore di logica. Questa sì è una trovata degna dell’Indro e dei suoi orbati lettori! Nessuno nella circostanza, argomenta il professore, ha interpretato il ruolo che la logica gli assegnava e — com’è suo dovere e privilegio di intellettuale, almeno così si dice — ridistribuisce le parti secondo ragione. «I ruoli fra sostenitori e contestatori del G8 si sono invertiti, perché a contestarlo dovrebbero essere semmai gli ultraliberisti, contrari a qualsiasi interferenza nel puro e selvaggio meccanismo del mercato». Chi può negare in effetti che sarebbe stato bello vedere insieme in corteo con le loro bandiere le Sette Sorelle, la Del Monte e la Mc Donald’s, le multinazionali farmaceutiche benemerite del Continente Nero, gli ultraliberisti procacciatori di organi dei bambini brasiliani e i trecentoquaranta nababbi globali? Chissà se si sarebbero limitati ad una democratica esibizione peripatetica o se avrebbero gettato sillogistici cubetti di porfido contro la Zona Rossa? Qui invece, insiste la logica, avrebbero dovuto asserragliarsi «i fautori della solidarietà e dell’intervento contro la miseria», che dovrebbero piuttosto «accusare il G8 d’intervenire troppo poco, d’investire troppo poco nella lotta alla fame o all’Aids». Ha ragione il professor Magris, che stupidi a non averci pensato, non lo sanno che certe volte basta chiedere? Rimane un solo punto oscuro nel luminoso scenario alternativo disegnato da Claudio il Loico: se assediati fossero stati gli agnelli protezionisti e assedianti i vampiri liberisti, la polizia da che parte sarebbe stata? a chi avrebbe giustamente dispensato le sue bastonate democratiche?

Purtroppo il Novum Organum Tergestinum non si occupa di questo pur interessante sviluppo ipotetico. Che non sia tanto questione di logica formale, ma piuttosto di dialettica? In ogni modo il Claudio continua argutamente a spremere la sua trovata. E che ti inventa? «Senza capacità logica — assicura apodittico — non c’è democrazia». Be’, questa è proprio nuova. Sinora si era pensato — lo pensava anche Montanelli — che una certa dose di cretinismo fosse indispensabile. Ma il professor Magris ha un consulente di sicuro affidamento, una vera autorità in materia di logica e di democrazia: il «piccolo Partito dei comunisti italiani», che, autentica vestale del rigore deduttivo e induttivo, ha sdegnosamente preso le distanze dai contestatori della globalizzazione, «ha stigmatizzato il confuso ribellismo di tante proteste e dei loro supponenti leader». Vivaddio!, tutto meno che la confusione logica del ribellismo, ha ragione il piccolo Partito, mai colpevole di cedimenti a questo proposito. In effetti il piccolo Partito era ancora in mente Dei — quando si dice la precocità! — e già la vocazione al rigore logico era scritta nel suo codice genetico dalle scelte dei suoi padri in pectore, più o meno supponenti ma ribelli no davvero!: chi potrebbe dare del ribelle all’onorevole Cossutta? Sfogliamo a caso l’album di famiglia, un vero campionario di logica militante. «Il comunismo — novellando del suo buon tempo ricorda nostalgicamente il professore — ha sempre combattuto questo ribellismo sentimentale e pasticcione, che storicamente in passato è stato un vivaio e un calderone dei fascismi». Come no, professore, lo diceva anche Stalin. E lui sì che se ne intendeva, che sapeva come «trasformare in forze politiche consapevoli e responsabili quelle che altrimenti erano plebi oppresse, genericamente rivoltose ed eccitabili, estranee alla coscienza politica e manipolabili a piacere». Lo sapeva, lo sapeva, professore, sapeva come farle «divenire componenti costruttive dello Stato». Murandole vive, professore, sulle granitiche fondamenta logiche di fucilazioni in massa, deportazioni, persecuzioni etniche e religiose, gulag, sanguinarie trasformazioni materialistico-dialettiche di comunisti in fascisti e di fascisti in comunisti. In verità bisogna avere un cuore ben saldo e uno stomaco di ferro, oltre che un inestinguibile bisogno metafisico di Ordine, per condividere le nostalgie del professore. E un’aristocratica indifferenza al comune senso del pudore per dichiararle in pubblico. Quanto a logica comunque, come mostra ancora l’album di famiglia, da giovani i padri fondatori del piccolo Partito furono incrollabili come un teologo della Sorbona, roghi inclusi: non scelsero mica la logica aberrante dei rivoltosi di Budapest e nemmeno, più tardi, gli sconsiderati sillogismi impropri dei convulsionari di Praga. Sempre per l’Ordine e la Disciplina i padri, per la logica militante del carro armato e del gulag. E dunque come potrebbe il piccolo Partito derogare logicamente dal suo Dna? Infatti non deroga: lo si è visto quando ha partecipato alla definitiva confutazione della nave dei profughi albanesi, con le loro illogiche pretese all’ospitalità. E quando — dopo le contorsioni rituali delle sdegnose ripulse e dei responsabili consensi (dimettersi? mai!) — il piccolo Partito sottoscrisse la critica dall’alto dei ribellistici tentativi di sopravvivenza dei civili serbi e kosovari. E lo si è visto anche all’ultimo G8, dove i ribelli erano tanti e d’ogni sorta, e dunque assai bisognosi di correzione. Poteva mancare il piccolo Partito? No, non poteva. Infatti, come ha opportunamente ricordato in parlamento l’attuale ministro della Giustizia, il leghista Castelli, l’istituzione dei GOM — gli speciali reparti della polizia penitenziaria che a Genova si sono coperti della gloria richiesta dalla festosa circostanza — è stata previdentemente firmata dal suo predecessore, l’onorevole Oliviero Diliberto, appunto esponente del piccolo, ma presente Partito dei comunisti italiani. Modestamente Diliberto ha ammesso che lui aveva solo dato il logico placet conclusivo ad un provvedimento in realtà preparato dal governo Prodi, e questo — oltre a dire molto sul professor Prodi — conferma l’indole servizievole e terminale del piccolo Partito. Comunque, chissà come deve aver sofferto l’ex ministro «comunista» nel vedere altri godere delle sue fatiche logiche, chissà come l’esclusione dalla festa gli avrà fatto prudere logicamente le mani!

Ma torniamo al professore; il quale, confortato dal suo congeniale consigliere, affronta ora il tema che veramente gli sta a cuore: manco a dirlo il dilemma tra democrazia e violenza, che tanto appassiona il dopoborsa milanese. Ci volesse veramente sorprendere, il professore confesserebbe che la violenza gli piace tanto. Ma no, non ci sperate: l’originalità non abita qui. Il professore invece, lo sappiamo, crede più banalmente nella ragione, è tutto per la logica ultimativa del dilemma. Aut aut. E poiché non vuole lasciare scampo alle obiezioni le dipana lui, preventivamente. Non ha difficoltà ad ammettere che «non esiste solo la violenza di piazza, ma pure quella tacitamente compiuta dai regimi, dai governi, da chi detiene il potere sociale e sa compiere infamie tenendole ben nascoste e rendendole perfino accettabili con le buone maniere». Bravo professore, la sua perspicacia scalda il cuore. Che fare allora contro «l’occulta violenza e ingiustizia praticate da molte istituzioni; da chi è ai vertici della società e talora degli Stati»? Dipende, i casi sono due, argomenta didattico il professore. «Si può ritenere di vivere in un regime democratico solo di facciata e di fatto totalitario e violento, che non può essere riformato e migliorato democraticamente». Oppure «si ritiene (…) di vivere in un sistema che, nonostante le sue pecche, perrmette una sostanziale democrazia»: «come ovviamente credo si debba ritenere». Ovviamente, professore? Si deve, professore? Se cominciamo con gli assiomi e gli imperativi categorici, addio logica. E se, per amor di logica, oltre al suo dilemma più o meno autorizzato, si prendesse in considerazione una terza possibilità, magari in omaggio a Buñuel che le piace tanto? Se si ipotizzasse che viviamo davvero in regime democratico, ma che il fascino discreto della democrazia, esaurito quello indiscreto del totalitarismo, sia appunto la forma istituzionale globalmente adeguata agli orrori globali, che il professore, turandosi il naso come il vecchio Indro, chiama pudicamente «pecche», in arcana sintonia con Berlusconi che li chiama «gravi inconvenienti»? Quella vecchia malalingua di Anatole France diceva, il professore lo sa, che la legge proibisce con uguale rigore al povero e al ricco di dormire sotto i ponti. Oggi forse si può dire meglio, si può dire che la norma democratica impone con pari rigore alla multinazionale farmaceutica e al malato di Aids di regolare pariteticamente le loro vertenze sul mercato di Soweto, con la semplice, pacifica, provvidenziale mediazione interclassista dell’equivalente universale. E guai ai violenti! Correggere? Riformare? Si accomodi, professore. Ma non può vietare un’altra ipotesi, lontanissima dalla realtà, si capisce, paradosso buñueliano per non cedere subito, senza resistenza, alla trivialità dei luoghi comuni, ma comunque ipotesi non logicamente impossibile: che la democrazia, come ogni altra istituzione umana, possa deperire e morire, come il Terzo Reich e l’impero di Tamerlano, edificati per i millenni. Certo negli ultimi tempi, sul mercato di Soweto e in molti altri luoghi, la si è vista deperita assai. Comunque sull’ipotesi non insisteremo più di tanto, anche perchè nella sua ingenuità un bambino iracheno assistito dall’embargo democratico ci potrebbe credere, o ci potrebbero credere gli ottocento milioni di persone democraticamente al di sotto del livello di sopravvivenza o, nel piccolo della democrazia di casa nostra, ci potrebbero credere i fiduciosi manifestanti a mani nude della rete di Lilliput, democraticamente redarguiti a Genova da una polizia democraticamente super partes, polivalente, buona senza soluzione di continuità per la barbarie repressiva dell’intero arco costituzionale.
Però, sempre per amore di discussione e senza alcuna pretesa di concludere, se il dilemma diagnostico diventa logicamente un trilemma, sempre logicamente che ne è della chiara alternativa terapeutica che, bontà sua, ci espone il professore? Nonostante le controindicazioni suggerite da scienza ed esperienza, preferiremo la «scelta terrorista», la scelta della violenza, «così come si fa in una guerra»; «fuori dalla legge e contro la legge, considerata anzi la violenza del potere»? Oppure, come bubbola serafico il professore, «si devono combattere strenuamente le storture della nostra società, ma nel rispetto della legge», pur sapendo l’inanità della lotta, se i «potenti della Terra», coloro che «decidono le sorti del mondo e dei più deboli», sono comunque fuori portata, inattingibili, se la stessa riunione dei G8 non è che un falso obiettivo, un ectoplasma, una vacua e pittoresca copertura, «una grande messinscena retorica»? Tutta qui la scelta, professore? Aut aut? Tertium non datur? Non concederemo nessun credito alla creatività di miliardi di uomini in lotta contro i «potenti della Terra», in difesa della propria dignità e sopravvivenza? Delegheranno al professore la scelta delle armi? Lo lasceranno decidere in quale regime debbano vivere, se riescono a sopravvivere? Suvvia, professore, un po’ di discrezione mitteleuropea! O dovremo rimpiangere Montanelli.