di Silvana Morasso
[Silvana Morasso, pubblicista, si è laureata all’Università di Genova con una tesi di linguistica e stilistica. Ha collaborato con ‘Il Secolo XIX’, ‘La Stampa’ e ‘I Quaderni del Circolo Filologico’]

canoniamericanicopertina.jpgalessandroportelli.jpgNella introduzione alla sua bella raccolta di saggi Canoni americani (Donzelli, pgg. 376, 23,50 euro), Alessandro Portelli scrive: “Una letteratura che nasce senza una lingua nazionale separata, che anzi usa una lingua con una gloriosa e imponente tradizione letteraria come l’inglese, può uscire dalla subalternità solo se ricostruisce i propri linguaggi sul terreno e sull’esperienza di chi ci abita. L’inglese letterario d’America nasce dal basso; il plurilinguismo che trionfa in Huckleberry Finn comincia già in Moby Dick, e prima ancora in American Chivalry di Hugh Henry Backenridge o The Contrast di Tyler”. Per comprendere a fondo l’affermazione del professor Portelli, che è docente di letteratura americana all’Università “La Sapienza” di Roma, è necessario ricordare che Huckleberry Finn adotta il dialetto quale piano linguistico di base. In pari tempo, Twain inserisce nella narrazione la materia bruta della vita: corpi, macchine, esperienze sensoriali elementari. Un atteggiamento che ricorda la fondazione della tradizione letteraria italiana, con l’impiego del volgare da parte di Dante, e anche la sua rifondazione, con Manzoni. L’osservazione non è casuale, dal momento che il professor Portelli tenta l’arduo compito di definire una panoramica molto estesa della fondazione di una tradizione particolare, che anche oggi si sta fondando, e cioè quella della cultura americana, più che della letteratura.

Il professor Portelli affronta la fondazione culturale della nazione americana almeno su tre piani:
1) Il piano linguistico e formale
2) Il piano contenutistico
3) Il piano politico.
Bisogna tuttavia sottolineare che l’Autore esplora questi tre piani, e l’intera materia della sua raccolta saggistica, in base a un principio che viene progressivamente chiarito, ma che è evidente fin dall’esordio, e cioè il mélange tra “alto” e “basso” con cui si caratterizza da subito la letteratura americana. Il professor Portelli riporta alcuni gustosi aneddoti (una forma narrativa “bassa”) per introdurre il lettore alla pervasività che l’atteggiamento di fusione alto/basso ha ormai assunto in tutto il pianeta, citando l’allenatore calcistico Giovanni Trapattoni (che dà a Steinbeck ed Hemingway degli “scrittori ottocenteschi”), il critico Pier Maria Pasinetti (per il quale i medesimi autori sono l’avanguardia) e Beniamino Placido. La categoria di mélange alto/basso è la modalità di lettura principale con cui il professor Portelli si occupa della policentrica cultura americana, tanto che i suoi saggi sconfinano dall’ambito della letteratura e affrontano diverse tipologie di produzione culturale, i cartoni animati e la musica, il cinema e la televisione. A conferma della centralità del momento linguistico, non sarebbe possibile seguire il fil rouge di questi saggi, se non considerando che proprio quel mélange che contamina “alto” e “basso” è anzitutto una commistione di lingua, una forma che genera creazioni apparentemente distanti. E’, anzi, la causa principale del problema estetico americano secondo la tesi del professor Portelli, problema che si potrebbe definire “creazione e compresenza dei generi”, essendo chiaro che la letteratura americana è una macchina di produzione di generi di consumo (estetici e perciò politici, e soprattutto letterari), che variano sul livello dell'”entertainment”. Non è dunque plausibile leggere il saggio che il professor Portelli dedica ad Underworld di Don De Lillo come se il romanzo dell’insigne autore americano avesse il medesimo valore estetico di una canzone di Bruce Sproingsteen, di cui Portelli si occupa in un ulteriore saggio. I prodotti estetici sono diversi, sembra dire l’illustre americanista, ma il problema politico che ne proviene è il medesimo, ed è un problema linguistico, di difficile democrazia che concilii “alto” e “basso” oppure “sogno” e “realtà”. Tanto che, in un’appendice, l’Autore arriva a esaminare il documento in cui si enuncia il principio della “guerra preventiva” (il testo intitolato National Security Strategy of the United States) come testo letterario e prodotto culturale, in continuità ideologica con il “sogno americano”. La politicità dell’evento linguistico è il “criterio preventivo” da cui muove Portelli.
A partire da questo problema centrale, che ha il merito di sottolineare il ruolo guida che la questione linguistica esercita anche nella fondazione culturale americana, Alessandro Portelli guida il lettore attraverso la formazione del patrimonio letterario statunitense, principiando dall’età dei classici americani, che egli chiude con Henry James e che fa risalire a Phillis Wheatley, l’autore settecentesco dei Poems On Various Subjects, Religious and Moral (1773). Superata l’età classica americana, si pone immediatamente il problema del genere, con una lettura che congiunge Edgar Allan Poe a Philip Dick, a partire da un’iniziale escursione del genere minore costituito dalle “finzioni geografiche”, tra le quali viene scelta l’Appalachia quale mito perenne, a simboleggiare ogni eversione spaziotemporale nella letteratura di genere. Addirittura, si sottolinea, nei Marginalia, Poe suggerisce che il banale nome degli Stati Uniti avrebbe potuto essere sostituito da un nome più indigeno ed evocativo: Appalachia. Quindi, attraverso Poe, Dick di The Cosmic Puppets (1957) e Atwood della distopia femminista di The Handmaid’s Tale, l'”Appalachia quale simbolo della fantascienza” fornisce un correlativo di immagine al criterio del mélange alto/basso. Se gli Appalachi sono infatti veri e propri “monti analoghi”, il principio opposto è il sottomondo, l’underworld. Questo sottomondo viene esaminato dal professor Portelli nel capitolo dedicato a Don DeLillo: “I rifiuti, la storia e il peccato in Underworld di Don DeLillo”. Alessandro Portelli opera una vera e propria genealogia della morale che è una genealogia della letteratura: “I rifiuti – waste – sono una metafora ricorrente nella cultura contemporanea, dal bidone di Mookie in Do the Right Thing di Spike Lee al misterioso WASTE di The Crying of Lot 49 (l’acronimo sta per We Await Silent Tristero’s Empire – la cospirazione di cui la protagonista sente la pervasiva presenza)”. Nel sottomondo a cui allude l’intera cultura contemporanea americana viene dunque identificato uno dei canoni che Portelli evidenzia nel suo lavoro. Per ogni canone, l’acribia è esercitata in profondità, come bene evidenzia l’esercizio interpretativo sul romanzo di DeLillo. Qui, infatti, si mettono in luce anzitutto le scorie teologiche, come quando Portelli cita l’aforisma “I rifiuti sono una cosa religiosa” e, dopo l’esame del portato telogico, si connette la forma stessa dell’aforisma a quella della formula: “La formula è l’equivalente di un contenitore verbale, linguaggio , che rinchiude un’idea in parole stabili, in modo da poterla controllare. […] Nell’epica orale e nella composizione in performance, la formula permette di tenere in piedi il discorso anche nei momenti di difficoltà dell’invenzione. In scrittura, questo è meno necessario. […] Pertanto, la presenza di formule ripetute in un testo scritto va ascritta meno a necessità compositiva che a intenzione testuale”. Riportare DeLillo all’intenzione testuale è un’opera meritoria, vista l’attuale incapacità di leggere la letteratura contemporanea soprattutto come testo e configurazione stilistica, anziché come messaggio o come sintomo. Cogliere la significazione linguistica di DeLillo equivale, quindi, a “leggere” l’intero apparato della cultura “alta” e “bassa” come evenienza di una lingua che ancora non si è fatta, perché si sta ancora facendo.
In somma, i canoni americani indicati dalla deittica di Alessandro Portelli hanno al proprio centro un modello di linguificazione totale, secondo le usuali modalità di fondazione di una cultura che, per quanto appaia dominante, nondimeno è tuttora in una sua fase giovanile.