di Valerio Evangelisti, a nome di tutta la redazione

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Oggi noi tutti di Carmilla On Line eravamo così emozionati da non riuscire a parlare. Si era appena sciolta una tensione durata un giorno intero, punto estremo di quell’angoscia che si trascinava ormai da un mese: da quando il nostro amico Cesare Battisti era stato arrestato.
La notizia, appena pervenuta dalla Francia, era che il tribunale di Parigi aveva deciso per Cesare la libertà provvisoria, contro tutte le pressioni esercitate dal governo francese e, attraverso questo, da quello italiano. Solo la sera prima il ministro della giustizia Dominique Perben (cognome pochissimo adeguato a chi lo porta) aveva approfittato di un canale televisivo per vomitare su Cesare tutte le ignominie raccolte dal giornale-immondezzaio Le Figaro (autore, per mano del suo redattore Guillaume Perrault, di deliranti invenzioni su un Battisti che minaccia di morte i vicini di casa, che fugge dal carcere pugnalando un secondino, che finisce le proprie vittime con un colpo alla nuca, ecc.). L’intento di Perben era quello di influenzare la magistratura, che pure già a fine 2003 non aveva ritenuto di dare seguito a una precedente proposta di estradizione.


Dal canto suo il portavoce del governo, Jean-François Copé, aveva cercato (come i ministri italiani Pisanu e Castelli) di legare il caso Battisti al quadro fumoso del “terrorismo internazionale”, oggi pretesto a ogni violazione del quadro democratico. Come se Cesare e tutti gli altri italiani rifugiati in Francia o altrove, tornati da quasi un trentennio a una vita nei limiti del possibile ordinaria, avessero qualcosa a che vedere con integralisti islamici o dinamitardi di varia specie.
Pur senza ancora affrontare la questione dell’estradizione, i giudici parigini hanno quanto meno sancito, con la liberazione di Cesare, la sua non pericolosità. Quest’ultima, se esisteva, era semmai legata alla sua capacità di scrivere; però in Francia — pur con il governo che si ritrova – ciò non pare essere avvertito come una minaccia.
La sentenza decisiva è attesa per il 7 aprile. Data che in Italia suona emblematica. Quello stesso giorno, nel 1979, venivano arrestati Toni Negri, Oreste Scalzone e un cospicuo gruppo di intellettuali e docenti universitari italiani, accusati, sulla base del cosiddetto “teorema Calogero”, di essere i capi delle Brigate Rosse. Ci vollero anni perché quell’imputazione, totalmente assurda, venisse lasciata cadere, ma nel frattempo i capi d’accusa erano stati via via modificati, per renderli funzionali a una sentenza di condanna. A quel tempo la Francia accettò di ospitare quanti degli accusati erano riusciti a varcare la frontiera, orripilata da una gestione così disinvolta della giustizia. Ci auguriamo che i suoi magistrati, al momento di decidere sull’estradizione di Cesare Battisti, si ricordino di quello stato d’animo, all’origine della successiva “dottrina Mitterrand”.
E si ricordino delle immagini raccapriccianti viste a Genova, nei giorni del G8, delle violenze nella scuola Diaz, delle sevizie nella caserma di Bolzaneto. Dello spettacolo scandaloso dei poliziotti di Napoli che circondano la Questura, a proteggerla dalle indagini sui loro colleghi colpevoli di avere infierito con selvaggio accanimento su militanti no-global quasi adolescenti, come documentato da immagini che hanno fatto il giro del mondo.
Sotto il profilo della ferocia repressiva, l’Italia non è affatto cambiata, rispetto agli anni ’70. Questo resta il paese dell’impunità totale rispetto alle schegge dello Stato (schegge importanti) che si macchiano di sangue. Stragi spaventose non hanno mai avuto una soluzione giudiziaria, o ne hanno avute di comodo. Le inchieste sulla morte di tanti giovani — Saltarelli, Zibecchi, Varalli, Franceschi, Serantini, Lorusso, Masi ecc. (chi si ricorda più di costoro?), fino a Carlo Giuliani — si sono arenate o sono finite in assoluzioni anche quando dei colpevoli si sapeva nome e cognome, leggibile sulla mostrina della divisa. Adriano Sofri è in prigione, però il volo dalla questura dell’innocente Giuseppe Pinelli fu derubricato in suicidio, malgrado una massa impressionante di prove contrarie.
Cesare Battisti ha scritto più volte che le scelte estreme compiute da lui e da altri giovani della stessa generazione nacquero da questo quadro di radicale ingiustizia. Lo stesso quadro che vide un procuratore della Repubblica milanese, nell’ambito di un processo in cui fu coinvolto lo stesso Cesare (pieno di “pentiti” e di confessioni poi ritrattate), scrivere in tutta tranquillità di coscienza, a proposito delle violenze cui furono sottoposti i fermati: “Nel caso che dalle violenze non derivi malattia, ma solo transitoria sensazione dolorosa senza obiettivabili alterazioni organico-funzionali, si parlerà di un altro reato: quello di percosse (art. 581 CPP). In quest’ultima ipotesi, i fatti diventano di impossibile accertamento sul piano tecnico proprio perché in assenza di malattia manca qualsiasi elemento obiettivo”. Un’asserzione obbrobriosa, che fa il paio con l’assoluzione preventiva accordata, in tempi molto più recenti, dal vicepresidente del consiglio (ex fascista) e dal ministro degli interni (ex piduista) agli autori dei macelli di Genova e di Napoli.
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Se tutto ciò è vero, a una frase apparentemente ragionevole del corrispondente del Corriere della Sera da Parigi, Massimo Nava, che martedì 2 marzo si chiedeva cosa penseranno di una sentenza favorevole a Battisti i congiunti delle vittime dei Proletari Armati per il Comunismo (i delitti attribuiti a Battisti in prima persona sono oggetto della confusione più totale), ci sentiamo di replicare: e cos’avranno pensato i congiunti dei giovani uccisi e delle vittime delle stragi che ho menzionato più sopra, usi a vedere piovere assoluzioni ogni volta che l’autore del crimine apparteneva a un apparato dello Stato? Se si vogliono riaprire quei dossiers, che li si riapra tutti; se li si vogliono chiudere, che li si chiuda tutti assieme. La soluzione più logica sarebbe avviare una discussione serena e informata (dunque, alla larga certi giornalisti, in riferimento all’attributo “informata”!) sugli anni ’70. Non è una soluzione, invece, andare a pesca trent’anni dopo dei presunti “colpevoli” in disarmo ai quattro angoli del mondo, per poi seppellirli, spogliati della loro storia, in una Guantanamo locale sotto forma di penitenziario a vita. Viene il sospetto che, assieme alle prede, si voglia seppellire — in modo particolare nel caso di Battisti — anche la loro memoria, e quella collettiva.
Comunque non vogliamo dilungarci, in questo giorno di festa, memorabile per vari motivi. Anzitutto Cesare è di nuovo fra noi. Poi, abbiamo assistito a una straordinaria mobilitazione di intellettuali capace di scuotere poteri e coscienze di uno dei principali paesi europei (mentre, su La Stampa, il corrispondente dalla Francia Cesare Martinetti, d’ora in poi chiamato “il volpino”, parlava di “intellighenzia in disarmo”: va’, va’, povero untorello, non sarai tu che spianterai Parigi). Abbiamo anche notato la capacità della narrativa di genere, in cui Carmilla è specializzata, di mobilitare via via altri settori della cultura, sino a risvegliare settori importanti del potere politico. Si noti che quasi tutto il movimento è nato da un sito sulla letteratura noir e di fantascienza, denominato “Mauvais Genres”. Quasi la dimostrazione di ciò che Carmilla ha sempre sostenuto, circa la narrativa che è viva e quella che non lo è.
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Infine una piccola soddisfazione personale: le 2.200 firme a sostegno di Cesare Battisti raccolte in Italia sono tutte dovute a questo sito web, nella sua modestia, e ai siti alleati: I Miserabili, Wu Ming Foundation, Indymedia e pochissimi altri. Se la stampa straniera ci ha dedicato grande attenzione, quella italiana ci ha ignorati o — in un paio di casi — sostenuti in modo fiacco. Noi volevamo anzitutto dimostrare che anche in Italia (e non solo in Italia) c’era chi — tra intellettuali e comuni cittadini — non era affatto disposto a lasciare solo Cesare e quanti, Oltralpe, si stavano battendo per lui e per gli altri esiliati.
La soddisfazione maggiore, però, è pensare che potremo rivedere Cesare, ridere con lui, bere con lui, subire i suoi scherzi e restituirli. Sappiamo che la battaglia non è affatto finita (continuate a firmare, gente!), ma adesso Cesare ha di nuovo la parola. Se l’userà nel modo peggiore — quell’uomo è il sarcasmo fatto persona — lo perdoneremo facilmente. Perché si tratta di un amico, di un collega, di un compagno. Per usare un’unica parola, di un fratello.