di Dario Voltolini

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La poesia di Wallace Stevens è un diamante incomprensibile che sembra sparire quando lo avviciniamo, scomparire nella sua stessa trasparenza. Tuttavia noi passiamo obliqui nei suoi versi, tagliandolo, sfaccettandolo. Gli rubiamo strane rifrazioni, improvvise iridescenze, prima che ritorni ghiaccio inattaccabile. In Sunday Morning (Domenica mattina) compare a tratti il cielo (heaven): lei troverà nel sole confortevole, nei frutti, nella colorazione di un’ala, nel suo svettare, negli umori e nella bellezza della terra altrettante cose da amare (in contrasto con le cose della religione: Cos’è la divinità se giunge solo / nei sogni e in ombre silenziose?). Ed ecco che scatta il paragone, che si apre uno spazio metaforico: cose da amare come il pensiero del cielo. Lei, la protagonista di questa mattinata domenicale, sta seduta al sole, in accappatoio. Che tipo di sacralità ha questa giornata? Cristiana, pagana, mitica, nessuna, tutte? È con una vertigine che si passa agli dèi classici: Giove nacque fra le nuvole in modo inumano, dice Stevens. Poi discese fra noi, che unimmo il nostro sangue al cielo. Questa unione, mossa dal desiderio, rese visibile il dio in una stella. Il poeta inoltre prefigura una futura amichevolezza del cielo stesso, non questo blu indifferente e divisorio.

Proseguendo nel diamante incontriamo il cielo (heaven) del paradiso (paradise): Non c’è mutamento di morte in paradiso? / La frutta matura non vi cade mai? O i rami / sono sempre carichi in quel cielo perfetto, / immutabili… Per Stevens la morte è madre della bellezza, e forse qui si vede che la modalità del parto è il cambiamento. Nel susseguirsi delle stagioni tale mutamento è ciclico. In una successiva immagine uomini in cerchio cantano un canto di paradiso. Il canto esce dal loro sangue e torna al cielo: un’altra versione di movimento ciclico che connette il sangue, il cielo, il paradiso e il canto. Ma nel magnifico finale della composizione Stevens colloca una visione del mutamento che non ha niente della regolare ciclicità delle stagioni, anche se non solo non la nega, ma anzi la corrobora con quella del ciclo notte-giorno: Viviamo in un vecchio caos del sole, / o vecchia dipendenza di giorno e notte, / o solitudine insulare, senza sostegni, libera… La solitudine insulare è forse quella del nostro pianeta, galleggiante nel cielo, qui inteso come spazio. L’ultima immagine ritorna invece al cielo (sky) inteso come fascia atmosferica, il luogo delle nuvole, del volo degli uccelli. Anche questo cielo è isolato: e nell’isolamento del cielo, a sera, / stormi casuali di colombi compiono / ondulazioni ambigue mentre affondano / giù nell’oscurità, con ali estese.
Attraversare Sunday Morning toccando i suoi cieli è incontrare l’inflessibile resistenza all’intelligenza che Stevens ha stabilito, ma è anche far compiere al diamante una rotazione (dal mattino alla sera, per esempio). Ruotando, la gemma manda bagliori.

Da La Stampa – Torino Sette, che si ringrazia.