di Emilio Quadrelli

La nuova configurazione del nemico e il superamento del “politico”

Facciamo un passo indietro. Torniamo alle due diverse tipologie di nemico. Abbiamo detto che, il nemico pubblico, può e deve essere ucciso in quanto tale. Il corollario di ciò è che nessun tipo di stigma è necessario per poterlo combattere e uccidere. Il nemico pubblico, per essere ucciso, non ha bisogno di presentare alcun aspetto negativo. Non deve essere forzatamente brutto, malvagio, perverso, cattivo, ecc. A essere colpita è la sua funzione non la sua persona e nei suoi confronti non necessita alcun tipo di odio personale. Le ricadute di ciò non sono secondarie. Non per caso, nel corso delle guerre interstatuali, l’incubo dei Governi e degli Stati maggiori è sempre stata la fraternizzazione. Paradossalmente proprio con il nemico assolutamente uccidibile diventa possibile fraternizzare. Il suo tratto oggettivo lo rende immediatamente convertibile in qualcosa di completamente diverso ma non solo. Perché la fraternizzazione sia possibile occorre che i contendenti si percepiscano reciprocamente come grandezze di pari grado e dignità. Proprio in virtù di tale eguaglianza diventa possibile la trasformazione della guerra imperialista interstatuale in guerra civile rivoluzionaria. La fraternizzazione tra eguali nelle trincee consente di volgere lo sguardo verso il comune nemico di classe. Dentro questa eguaglianza diventa possibile individuare nel Kaiser e nello Czar il nemico comune. Tutto ciò, andando al sodo, ci racconta una cosa: nessun processo di svalutazione è intervenuta nella messa in forma del conflitto. L’oggettività del nemico ne inibisce ogni forma di svalutazione. Nella definizione del nemico non entra in gioco nessun elemento morale. Uno scenario che muta repentinamente quando passiamo dalla figura del nemico pubblico a quella del nemico privato.

Un ladro, un assassino, uno stupratore e via dicendo si portano appresso un quid di negatività morale che rende abbastanza impensabile una qualche forma di fraternizzazione nei loro confronti. Verso questi si potranno avere approcci diversi rispetto alle origini e alle cause dei loro comportamenti ma, ben difficilmente, si potrà pensare di unirsi a loro a meno che non si scelga scientemente di diventare un fuorilegge. Anche in questo caso, però, la scelta avrà ben poco di pubblico. Fraternizzare con una banda di ladri consentirà, tutto al più, di spartirsi la quota di un qualche bottino certamente non la possibilità di delineare un’altra linea dell’amicizia e della inimicizia. Nessun Governo o Stato maggiore si è mai preoccupato più di tanto del fatto che, qualche gruppo di sbandati, potesse aggregarsi a qualche gruppo criminale. Nel caso, la polizia si sarebbe occupata di loro. Il nemico pubblico, come è effettivamente accaduto, può dar vita a nuovi e diversi raggruppamenti politici mentre, i nemici privati, possono, nella migliore delle ipotesi, prima di finire sul patibolo fornire il materiale grezzo per qualche opera letteraria. Al vertice della sua fama, il nemico privato, può aspirare a diventare un eroe di carta mai un condottiero politico.

Sia come sia a essere centrale nella figura del nemico privato è il suo tratto immorale. Un tratto che non può essere pubblicamente tollerabile. Il nemico privato pertanto non è uccidibile ma è bandibile. La sua condizione obiettiva non lo può che porre fuori dal vivere sociale. La polizia, a differenza degli eserciti, non combatte eguali ma coloro i quali sono oggettivamente posti in una relazione di bando. Questi, a differenza del nemico pubblico, non possono essere semplicemente battuti ma, almeno in tendenza, estirpati o, attraverso una certosina operazione rieducativa, resi nuovamente compatibili con l’ordine sociale. Significativo il fatto che, con il nemico privato, non è possibile giungere ad alcuna trattazione e mediazione politica. Il nemico privato non può richiedere alcun armistizio così come non può neppure firmare un atto di resa né tanto meno sottoscrivere un trattato di pace. La sua figura non contempla la possibilità di sottoscrivere alcun atto giuridico formale e infatti il conflitto tra nemico privato e polizia non può mai essere formalmente sospeso ma si reitera in permanenza. Non per caso, mentre gli eserciti diventano operativi solo in determinate circostanze, la polizia non va mai in vacanza. La polizia è continuamente operativa poiché, a differenza del nemico pubblico che diventa tale solo in virtù di una tensione politica eccezionale, il nemico privato può presentarsi in qualunque momento e sotto qualunque spoglia mentre il suo agire non ha nulla di eccezionale ma rientra in una routine tanto prosaica quanto banale. Sullo sfondo delle sue azioni possono esservi tanto il mostrarsi tumultuoso delle passioni quanto delle necessità materiali altrimenti non risolvibili in ogni caso non vi è mai una decisione politicamente determinata. Il nemico privato, in fondo, non ha nemici ma solo avversari che non necessariamente devono essere eliminati. Nella stragrande maggioranza dei casi il fuorilegge, non per caso, uccide solo se vi è costretto mentre, il soldato, è esattamente nato per uccidere. L’uccisione del nemico pubblico è l’unica opzione tra le mani del soldato mentre, per fuorilegge e polizia, questa è solo l’extrema ratio. In sostanza il soldato agisce al solo al fine di annientare le forze statuali o, nel caso della guerra civile, le forze di classe avversarie mentre la polizia agisce per bonificare un ambito sociale. Allo stesso tempo, il fuorilegge, entra in conflitto con la polizia soltanto nel caso in cui, quest’ultima, le si para di fronte guardandosi bene, però, dall’andare a cercarne il contatto ma non solo. Mentre gli eserciti, una volta entrati in contatto, non possono far altro che spararsi addosso l’un con l’altro il fuorilegge, nel momento in cui entra in contatto con la polizia, valuta con estremo realismo se opporvi resistenza armata. Il bandito, prima di mettere mano alle armi (che non necessariamente porta con sé), si fa i conti in tasca considera, cioè, se il reato che ha commesso vale la pena di essere aggravato da un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Sullo sfondo dell’agire del nemico privato vi è sempre, a conti fatti, una dimensione definita da una cornice economica (dare e avere) mentre, a informare l’agire del militare, è sempre una motivazione la cui essenza è determinata da una dimensione politica. Due mondi che palesemente non hanno nulla in comune e che, classicamente, delimitano il campo del militare e del poliziesco. Ciò è tanto più evidente se osserviamo il grado di operatività effettiva che caratterizzai due ambiti.

Realisticamente infatti, le operazioni di polizia non hanno mai termine anche perché i suoi confini sono difficilmente delineabili. Il militare ha di fronte a sé una cornice sostanzialmente esatta dei suoi compiti. Deve, se possibile, annientare la forza del nemico. Una volta portata a termine l’operazione il suo ruolo finisce e la palla passa per intero in mano alla politica. Parte interna e compresa, pur con un certo grado di autonomia, della politica il militare, a un certo punto, non può far altro che ritirarsi lasciando il campo di battaglia nelle mani della politica. È possibile ipotizzare qualcosa di simile per la polizia? Evidentemente no. La polizia non può che essere permanentemente operativa. Del resto, come le retoriche di senso comune sono lì a ricordarci, la battaglia tra il “bene” e il “male” non cessa un solo istante e la polizia, per definizione, non può che incarnare le forze del “bene”. Se, in guerra, il bene e il male possono essere tranquillamente elargiti a entrambi i contendenti o, ancor meglio, le retoriche oggettive della guerra si pongono al di là del bene e del male, nel conflitto tra legge e fuori–legge la bilancia non può che pendere interamente da una parte. Il fuorilegge, nella migliore delle ipotesi, potrà essere compreso, mai giustificato.

La differenza tra hostis e inimicus trova nei differenti trattamenti di prigionia una sua non secondaria esemplificazione. Il nemico pubblico, una volta catturato, non va incontro ad alcun tipo di condanna individuale e tanto meno è sottoposto a una qualche forma di rieducazione socio – psicologica così come la sua biografia non è oggetto di indagine da parte di alcun sapere. In altre parole non diventerà preda di alcun specialista del dettaglio cosa che, al contrario, è parte costitutiva e costituente del modo in cui la società legittima si relaziona con le varie figure che si sono poste dentro una relazione di bando.

Ciò non ha bisogno di particolari spiegazioni poiché, il nemico pubblico, anche dalla parte nemica non è considerato un deviante, un criminali e/o un asociale. Anche nei casi in cui, in virtù del tratto fortemente ideologico assunto dal conflitto, una delle due parti si ponga l’obiettivo di rieducare i prigionieri questa rieducazione avviene pur sempre nell’ambito della sfera politica, ovvero pubblica. Ridotto all’osso, in questo caso, ciò che viene rimproverato ai prigionieri di guerra non è l’aver combattuto ma averlo fatto dalla parte sbagliata. Ciò che diventa deprecabile è l’aver compiuto determinate azioni per un fine sbagliato mentre, crimini di guerra a parte, l’azione in sé non è oggetto di una qualche riprovazione. Il carattere oggettivo della guerra fa sì che l’agire del nemico pubblico rientri immediatamente nella sfera di una legittimità la quale, per entrambi i contendenti, non può essere oggetto di discussione. Per definizione, un soldato, non può essere portatore di tare o problematiche individuali tali da non renderlo compatibile con le leggi di guerra.

Nessun educatore politico, pertanto, si sognerebbe di andare alla ricerca nella storia del soldato prigioniero di un qualche suo trauma infantile, di una qualche difficoltà a inserirsi socialmente o delle ricadute che, l’essere cresciuto in un ambito sociale particolarmente degradato e problematico, possono avergli procurato. Di tutto ciò all’ipotetico educatore politico importa poco meno di nulla. Oggetto del suo lavoro diventa far comprendere al prigioniero il perché combatteva per una parte sbagliata. Nel caso in cui, il prigioniero, si fosse macchiato di qualche atto riconducibile alla casistica dei crimini di guerra la sua sorte sarebbe segnata ma, anche in questo caso, del tutto priva di interesse rimaneva la sua dimensione individuale. L’essersi posto fuori dalle regole della guerra lo rendeva, senza possibilità di appello, il criminale assoluto poiché, contravvenendo alle regole del combattimento, aveva disonorato tanto la forma guerra quanto uno dei contendenti di questa. Infrangendo quelle regole si era posto al di fuori di quella relazione di uguaglianza che di quella forma guerra ne era il presupposto. Il crimine di guerra fa perdere la dimensione propria dell’hostis la quale, in linea di principio, tanto lo rende assolutamente uccidibile quando è forza combattente tanto lo rende intoccabile e non giudicabile una volta catturato.

Le condizioni della prigionia di guerra potranno essere più o meno dure ma, in ogni caso, avranno sempre un tratto collettivo. Significativamente nel momento in cui tra i contendenti si perviene a una cessazione del conflitto armato, attraverso una serie di accordi diplomatici e politici si pongono le basi per un rimpatrio dei prigionieri. Del resto, il prigioniero di guerra, non è soggetto ad alcuna pena e la sua prigionia non ha alcun legame con le azioni da questo compiute. Una recluta catturata il primo giorno di guerra senza aver magari sparato neppure un colpo rimane in stato di prigionia per l’intera durata del conflitto, quindi anche per anni, mentre l’aviatore di un bombardiere che ha causato la morte di migliaia di persone se catturato pochi giorni prima del “cessare il fuoco” rimarrà in stato di prigionia per un lasso di tempo estremamente breve. Nella prigionia di guerra non vi è quindi alcuna relazione individuale poiché non vi sono colpe e responsabilità individuali da scontare.

Ciò che è vero per la guerra interstatuale, nonostante qualche immancabile strascico in più, è applicato anche alla guerra civile. L’Italia, sotto tale profilo, ne rappresenta una delle migliori esemplificazioni. Nel momento in cui, dopo la disfatta del nazifascismo, si operò per la pacificazione del Paese tutti coloro che avevano militato e combattuto tra le file naziste e fasciste vennero amnistiati. A questi non fu chiesto di reintegrarsi socialmente e nessuna scienza umana si preoccupò di investigare le biografie dei singoli. I fascisti, in quanto nemici pubblici, furono trattati né più e né meno che come prigionieri di guerra mai come anormali. L’unica cosa che gli venne imposto fu il riconoscere la sconfitta patita e la proibizione di ricostituire una formazione politica legata alle vicende del passato. Il tutto veniva trattato e risolto sul piano politico. Abbandonate armi, divise e gagliardetti il nemico pubblico cessava di esistere, e quindi di essere combattuto, mentre a nessuno interessavano le dimensioni individuali, quindi private, di coloro i quali si erano schierati con la barbarie nazista. Nonostante la sua mostruosità il nazifascismo veniva pur sempre ascritto al mondo legittimo del politico e, in virtù di ciò, i suoi militanti non subirono alcun processo di svalutazione o di stigmatizzazione sociale sotto il profilo individuale. Nei loro confronti rimase, almeno da parte di una consistente quota di popolazione, una non secondaria stigmatizzazione e avversione politica il che, ancora una volta, rimandava a una dimensione pubblica senza alcuna declinazione alla dimensione privata.

I fascisti o neofascisti che dir si voglia andavano combattuti, in quanto raggruppamento collettivo, per ciò che incarnavano politicamente non per i loro tratti individuali. Assolto o condannato, il nemico pubblico, non può che essere racchiuso in un contenitore collettivo. Nessun nemico pubblico può essere oggetto di individualizzazione. Perché il nemico pubblico possa essere individualizzato e quindi ascritto all’interno della cornice del nemico privato occorre che quel principio di eguaglianza che fa da sfondo a ogni conflitto esistenziale conosca una sostanziale modifica. Occorre cioè che, nella messa in forma della guerra, il presupposto dell’eguaglianza tra forze di pari grado e dignità venga a cadere ossia che, dentro la forma guerra, intervenga un processo di svalutazione. In questo modo tutte le retoriche intorno alla figura dello hostis vengono a decadere. Qua è opportuno fermarsi.

(fine seconda parte – continua)