di Francisco Soriano

Nel giro di 48 ore si sono suicidati in carcere quattro persone: erano giovani dai 24 ai 30 anni. L’ultima vittima era una donna di 29 anni, si è tolta la vita nel penitenziario di Messina. Dall’inizio di quest’anno sono già 12 i suicidi nelle prigioni italiane. La retorica dei giustizieri nostrani, diffusa e volgare, sostiene invece che nelle carceri italiane “si sta veramente bene, con tanto di televisore e permessi premio”. Anche questo viene smentito dai decessi in numero sempre crescente: incontestabili nella loro fredda statistica che enumera persone che si sono suicidate o sono morte per cause da accertare. A parlare di strage vergognosa, considerando che fra i suicidi ci sono anche due guardie giudiziarie, è il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo, che sottolinea la promessa del ministro di Grazia e Giustizia: ha assicurato il suo massimo impegno per consentire un miglioramento delle patrie galere. Secondo l’autorevole sindacato “le carceri sono diventate zone franche dove tutto accade, come la morte per suicidio di 4 detenuti giovanissimi come se nulla fosse, ma peggio ancora senza scuotere minimamente la coscienza dei nostri governarti”. Come dargli torto.

La condizione delle carceri italiane, fra maltrattamenti, disagio e diffuso disordine nella gestione delle strutture, rimane un caso ai limiti della sopportabilità in un paese che si ispira a regole democratiche e valori di civile convivenza umana. È di poche ore fa la notizia che un agente in servizio presso l’istituto carcerario della città di Ferrara è stato condannato per il grave reato di tortura aggravata, perché commessa da un pubblico ufficiale. La notizia in qualche modo solleva le coscienze perché, finalmente, il reato di tortura viene riconosciuto come tale senza essere derubricato, come in tanti anni addietro, alla stregua di un reato comune punito con pene esigue e ininfluenti. È la prima volta che accade in Italia, ma altri procedimenti in corso sono rivolti a diversi protagonisti di vicende che riguardano bastonature, maltrattamenti e offese alla persona di gravità inaudita. I numeri sono sorprendenti e, ancora una volta, scoraggianti: nelle carceri italiane muoiono oltre 150 di detenuti l’anno dei quali un terzo per suicidio, un terzo per cause riconosciute come “naturali” e il restante terzo per “cause da accertare”, che implicano i casi nei quali viene aperta un’inchiesta giudiziaria. Questa situazione trova conforto in una diffusa cultura radicata nella società: le persone rinchiuse in carcere sono esseri ripugnanti ai quali la galera è anche “poco”.

Un lungo periodo di “gestazione” ha comunque dato impulso alla emanazione della legge 110 che, all’articolo primo, ha introdotto nel codice penale fra i delitti che ledono la libertà morale dell’individuo, l’articolo 613-bis che punisce il reato di “tortura”. L’articolo 2 della convenzione ONU contro la tortura, i maltrattamenti e le pene crudeli era già stato recepito in Italia nel lontano 1989, sancendo che “nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura”. Sulla stessa linea l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU): si stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Anche la Corte di Strasburgo ha riconosciuto il divieto di tortura, un punto fermo “che sublima uno dei valori fondamentali delle società democratiche, non consente eccezioni, né limitazioni, né bilanciamenti di alcun genere, né soffre alcuna possibilità di deroga”. Si ricorda inoltre che l’art. 13, comma 4, della nostra Costituzione afferma: “É punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà”. Pertanto “la violenza commessa su soggetti privati della libertà personale non soltanto lede gravemente la dignità, l’integrità psico-fisica e la libertà morale della persona, ma viola la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, comma 3, della stessa Costituzione”. In questo modo chi ha legiferato ha inteso introdurre nel nuovo tipo di reato, sia il fenomeno della “tortura comune” commessa da chiunque, sia quello della “tortura di Stato”: in questo caso però con l’aggravante che il soggetto che compie l’atto delittuoso è un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio. La pena punisce con la reclusione da 4 a 10 anni coloro i quali “con violenze, minacce gravi ovvero agendo con gravità, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza o, che comunque, si trovi in condizioni di minorata difesa, ma soltanto se il fatto è commesso con più condotte o se lo stesso può definirsi trattamento inumano e degradante”. Per quanto riguarda l’elemento oggettivo bisogna distinguere il comportamento che provoca due eventi alternativi: acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico. Questi due eventi rendono punibili solo quelle azioni particolarmente violente e odiose verso la vittima. In definitiva la tortura è un reato plurioffensivo, che lede anche l’incolumità individuale, intesa come integrità fisica e psichica della persona.

In Italia c’è stata molta resistenza e contrarietà quando si parla del reato di tortura. Nel tempo nel nostro Paese sono accaduti fatti di una gravità inaudita nella violazione dei diritti umani tanto da doversene occupare anche Amnesty International. Ad esempio, nel 2012, l’Italia è stata annoverata fra i Paesi dove i casi di tortura sono stati più volte accertati e mai sanzionati. Si è tentato di negare l’evidenza, anche dopo l’orrore perpetrato a Genova nel 2001 con atti di dolosa premeditazione, tortura e malversazioni di ogni genere che hanno trovato riscontro, in termini di violenza, solo in periodi riferibili ai regimi militari e fascisti del sud America. Le condanne nei confronti dell’Italia non sono state episodiche da parte della Comunità internazionale, ricordando in particolare quelle della Corte di Strasburgo per violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Una vergogna difficile da dimenticare. Per quanto riguarda i fatti gravissimi che si sono verificati nel tempo negli istituti di detenzione sono state segnalate e dimostrate relazioni tra i suicidi in carcere e il sovraffollamento, senza considerare l’aggravamento delle condizioni delle persone in spazi fatiscenti e disumani in cui molti carcerati sono mantenuti nelle celle. Il quadro è abbastanza grave non solo per la tragedia che ha visto Stefano Cucchi ucciso di botte in carcere,  un “caso emblematico” risolto solo grazie alla strenua e perseverante lotta della sua famiglia nella ricerca della verità.

Di qualche settimana fa, la documentazione filmata, nel suo orrore incredibile, dei ripetuti pestaggi vendicativi e punitivi messi in atto da vere e proprie squadracce organizzate nelle carceri, come quelli perpetrati a Santa Maria Capua Vetere a danno di detenuti costretti a passare sotto le forche caudine degli agenti fra schiaffi, calci, pugni e umiliazioni varie. La previsione del reato di tortura in Italia, dunque, ha solo effetti positivi vista la casistica drammatica di violazioni dei diritti umani. Su quest’ultima considerazione, infatti, si delinea la pronuncia della Corte di Cassazione che, “sollecitata” su uno dei casi di “tortura ordinaria”, ha ben neutralizzato alcuni punti controversi richiamandosi alla “giurisprudenza di Strasburgo”. Con questa prima condanna per tortura di un pubblico ufficiale si entra in una nuova era: possiamo fidarci di una norma scritta a chiare lettere che, finalmente, ci consente di chiamare questo reato col suo vero nome.

La questione delle carceri rimane una criticità scottante per la politica ma, soprattutto, per la visione di società che si ha. Voci sempre più autorevoli e società civile si appellano e chiedono una soluzione che dia un’impronta civile e degna di un Paese finalmente democratico. Non dimentichiamo che il fine ultimo delle carcerazioni dovrebbe essere il reinserimento delle persone nella società e che, questi ultimi, hanno il diritto e il dovere di ritagliarsi una nuova vita e una nuova opportunità di esistenza dopo la privazione della loro libertà. Se uno Stato non riesce a garantire reinserimenti all’interno della società, nel mondo del lavoro, soprattutto, queste persone fragili non hanno nessuna possibilità di vivere nella legalità e nel quotidiano in condizioni di “normalità”. Molteplici storie e avvenimenti devono ricondurci a una riflessione sui valori della Costituzione che, nell’articolo 27, così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Ultima riprovevole violazione dei diritti delle persone, nel caso specifico del diritto di manifestare ed esprimere la propria opinione, si è verificata durante le cariche indiscriminate e ingiustificate, per inaudita violenza, nei confronti degli studenti che manifestavano per le morti di due allievi di scuole superiori nel quadro dell’alternanza scuola lavoro e gli stage in azienda. I cortei disseminati in quasi tutta la penisola sono stati interrotti e i manifestati manganellati sistematicamente. La sensazione è che si è voluto interrompere sul nascere una protesta che avrebbe potuto assumere una dimensione diversa, visto che agli studenti si erano presto aggregati riders e lavoratori di altri settori, sempre più sminuiti e sfruttati sulle nuove catene di montaggio “sublimate” con modalità differenti di quanto avveniva in passato. Quello che è avvenuto nelle piazze di Torino, Milano e Roma, soprattutto, hanno addirittura destato preoccupazione nel segretario del PD, Enrico Letta, che ha dichiarato dopo l’elezione di Mattarella che “sulla questione di ordine pubblico chiediamo che siano date risposte – è una vicenda abbastanza grave”. La destinataria della “protesta” è la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Ha fatto eco alla condanna della violenza degli agenti che, in tenuta anti-sommossa, hanno caricato gli studenti, Nicola Fratojanni, segretario di Sinistra italiana: “Lo Stato la smetta di manganellare gli studenti. Domani depositeremo un’interrogazione parlamentare al governo, così magari la titolare del Viminale si ricorderà di dover dare spiegazioni e scuse a tanti studenti, alle loro famiglie e più in generale ai cittadini”. Nel silenzio assordante due sole voci in un Paese in grave affanno, in un quadro di soporifera pubblicità filo-governativa da ogni punto di vista. Nebbie inquietanti che, all’orizzonte, sembrano rimanere alte e ferme in un paesaggio abitato da personaggi sempre pronti a invocare stati di emergenza e svolte autoritarie.