di Paolo Lago

“Il vento si ingorga e spazza l’erba, la rigonfia, fa danzare in un abbraccio miriadi di pollini profumati ed è una danza sinuosa e gentile, in riquadri di sole e di luce. Turbinii sereni e poi il vento diviene magica brezza che dona carezze, regali di aria ai corpi distesi sull’erba, tra i fiori e il profumo, all’ombra di alberi delicati, e gli antichi paesi lontani, sul dorso della collina, erano soltanto carezze di sguardi ai nostri volti affranti e contenti in un giorno di maggio”. La vecchia video-cartolina aveva emesso queste parole in uno stanco singulto, e poi si era spenta del tutto. Era una testimonianza di come era il mondo almeno venticinque anni fa, prima della catastrofe che aveva cambiato tutto. La posai sul tavolo, e con essa posai anche i miei flebili ricordi, perduti nella nebbia di ere.

Mi ricordavo veramente poco del mondo di prima, dei prati e dei boschi, degli antichi paesi ritratti in quella cartolina. C’era stata una grande epidemia vegetale che aveva distrutto completamente la vegetazione, inquinato i fiumi e le sorgenti. L’inquinamento, sempre più persistente, aveva avvolto il mondo di prima fino a distruggerlo e a devastarlo. Dopo le epidemie, che si erano susseguite a un ritmo vertiginoso nel giro di pochi anni, erano arrivate le povertà e le carestie e poi le guerre civili, sparse in tutto il mondo. Una delle poche volte che sono uscito, prima del “Grande Internamento” imposto dal Governo, ero un ragazzino e mi ricordo scontri terribili a ogni incrocio della mia città: manifestanti e polizia si fronteggiavano nelle strade con ogni tipo di armi e dappertutto c’era l’odore acro dei fumogeni e delle bombe. Anche io, come quelli della mia generazione, avevo passato gran parte della mia adolescenza e giovinezza chiuso negli spazi di aggregazione predisposti dalle autorità: enormi silos di metallo dotati di tutti i comfort dove era stata dislocata la popolazione superstite. Eravamo tutti in attesa della costruzione del nuovo mondo: quello che c’è adesso qui fuori. Gli scienziati avevano previsto proprio tutto, tranne una cosa sola: l’arrivo dei vampiri.

Quella dei vampiri era una nuova specie, creata dai più svariati esperimenti chimici che erano stati messi in atto per cercare di arginare l’epidemia vegetale. Gli scienziati avevano mescolato diversi DNA per creare un antidoto efficace alla continua mutazione genetica del virus che aggrediva le più svariate specie vegetali e animali per contaminare, in alcuni casi, anche l’uomo. Di loro si sapeva poco o nulla, nessuno li aveva mai visti. Si sapeva soltanto che si aggiravano dopo il calar del sole perché erano fatti in gran parte di una sostanza fotosensibile. I governi di tutti i paesi avevano creato delle leggi particolari che imponevano ai cittadini di non uscire non appena sopraggiungevano le tenebre. I vampiri erano pericolosissimi perché potevano uccidere – così si diceva – solo con il loro sguardo. E così l’umanità si era riadattata alla nuova vita dopo il disastro ed era felice, o almeno così sembrava. La scienza era riuscita a ricreare degli habitat a misura d’uomo dove un tempo c’erano le città: le grandi unità abitative, formate da migliaia di palazzi, erano protette da capsule di vetroresina che servivano a proteggere dai raggi diretti del sole, divenuti ormai pericolosissimi a causa delle manipolazioni genetiche attuate sui corpi degli individui. Gli antidoti avevano permesso la sopravvivenza delle piante e dei corsi d’acqua all’interno delle grandi capsule ma avevano mutato irrimediabilmente il DNA umano, creando delle persone più fragili e più esposte alle malattie. Si poteva girare per le strade soltanto muniti di maschere di ossigeno e si poteva rimanere all’esterno solo per un tempo limitato. I più ricchi avevano degli appartamenti spaziosi, nei quali avevano ricostruito diversi ambienti artificiali che ricreavano prati e giardini. I più poveri vivevano in baracche di ferro poste ai limiti della grande capsula, in enormi quartieri fatiscenti dove vigevano la violenza e la prevaricazione.

Io non mi potevo lamentare. Vivevo in un grande e vecchio appartamento, a un piano alto, dal quale vedevo spuntare, come un arcaico fantasma, un vecchio campanile ancora rimasto intatto, in mezzo alle nuove costruzioni in vetroresina. Percorrevo i lunghi corridoi con circospezione, con la paura di incontrare i vampiri che, a quanto dicevano i maxischermi che il governo aveva installato in tutte le abitazioni, potevano penetrare furtivamente nelle case durante la notte. I corridoi del mio appartamento erano attraversati da scale e soppalchi, pieni di mobili provenienti da tempi remoti, poltrone di pelle, lunghi tavoli di legno scuro sui quali posavano candelabri intagliati nel tempo, lampadari penduli da soffitti altissimi, oscuri, nereggianti di intarsi barocchi, vecchi quadri alle pareti, scalinate lignee che portavano a vuoti saloni, pesanti porte che celavano stanze piene di armadi, di mobili oscuri e fatiscenti, di oggetti posati negli angoli, dimenticati da un tempo in cui l’essere umano era davvero un essere umano. A volte mi recavo a scrivere in una stanza lontana, al capo opposto dell’appartamento e raggiungerla era un vero e proprio viaggio attraverso i filamenti polverosi di una coscienza. Era così come l’avevo trovata nel momento in cui ero entrato per la prima volta in quell’appartamento: sembrava la stanza di un bambino o, comunque, di un adolescente. C’era un lettino sormontato da un armadio, un tavolino attaccato alla parete, con una piccola e semplice lampada da lettura. Sui vetri della finestra erano appiccicati degli adesivi che rappresentavano, forse, i personaggi di alcuni fumetti e cartoni animati di ere lontane. Fuori dalla finestra vedevo un fiume che scorreva, in un’ansa verdeggiante, ma sembrava il tetro fiume artificiale di una periferia industriale, emblema della buia realtà che, come un simulacro, riempiva le nostre vite.

Scrivevo, non facevo altro che scrivere lettere a una remota fanciulla della mia adolescenza che forse intravidi in un giorno di sole, nel cortile della scuola, prima che scattasse il “Grande Internamento”. Frequentavamo le scuole medie e, nel corso del primo anno, cominciò il grande divieto: la razza umana non poteva più esporsi all’aria aperta a causa degli esperimenti che gli scienziati stavano compiendo “per il nostro bene”. Seduto al tavolino della stanza in fondo alla casa scrivevo lettere mai spedite che iniziavano sempre con queste parole: “Sono Alf, del quartiere Zeta 9, nell’isolato G 24, nell’oscuro silenzio di una notte al fosforo, ricordo i tuoi occhi di tanto tempo fa, ricordo solo un azzurro intenso e un cielo sereno che forse era sopra di noi e il vento e un odore di fiori nell’aria. Possiedo una video-cartolina di quel tempo, vorrei che anche tu la vedessi, forse abbiamo dei ricordi in comune, vorrei soltanto sapere il tuo nome…”. Erano poche le persone che avevano dei ricordi in comune, dei ricordi degli altri. Per le strade nessuno si riconosceva e nemmeno si conosceva, ognuno era anonimamente perduto dietro la maschera di ossigeno che portava, avvolto nel proprio mantello antiossidante che non lasciava intravedere neanche un lembo del corpo. Lo stesso concetto di “amicizia” non esisteva più. C’erano, sì, le famiglie, simili a quelle di un tempo ma esistevano soltanto a un livello formale: quelle ricche trascorrevano tutto il tempo nei loro spaziosi edifici; quelle povere, spesso, stavano ammassate in una sola stanza nei quartieri fatiscenti.

Io, come tanti altri, ero rimasto fuori dall’inglobamento delle famiglie, avvenuto in un tempo in cui ero ancora “internato”, per cui trascorrevo la mia esistenza da solo, ma andava bene così. Non guardavo quasi mai il maxi-schermo governativo sul quale diversi annunciatori riferivano i dati scientifici sulle potenzialità delle capsule che inglobavano le città. Era infatti necessario che fossero sottoposte a un continuo processo di manutenzione da parte di tecnici e scienziati, perché non si consumassero con il passare del tempo. Ne andava veramente della vita di tutti. Ogni giorno era uno snocciolare di numeri e di dati che indicavano il funzionamento del grande sistema che garantiva la nostra sopravvivenza. Fuori dalle capsule c’era il vuoto, il nulla o, meglio, lande desolate percorse da venti pestilenziali, portatori di malattie che potevano provocare la mutazione in vampiro, la cosa più temuta al mondo, insieme alla morte. Gli annunciatori dei maxischermi affermavano in continuazione che, molto probabilmente, orde di vampiri si erano infiltrate nelle città, forse nei quartieri più malsani e meno controllati, e la notte potevano girare indisturbate per le strade. Di notte, in circolazione, c’erano solo le pattuglie speciali della polizia, i “Vampire Killers”, con le loro vetture blindate dotate di armi di ultimissima generazione. Gli squadroni dei “Vampire Killers”, come diceva la propaganda governativa, erano i custodi delle nostre vite e a loro dovevamo tutto. Ripeto: non guardavo quasi mai il maxischermo. Nei momenti liberi dal lavoro, che svolgevo nell’isolato G 23 (facevo l’addetto di un call center per la manutenzione dei maxischermi), non facevo altro che scrivere le mie lettere.

E poi c’erano i ricordi degli altri. Come ho detto, nessuno possedeva il ricordo degli altri, non esisteva l’altro nella propria coscienza. Non esistevano luoghi di aggregazione, bar, cinema o palestre come nel mondo di prima (e di cui io stesso avevo solo un flebile ricordo): le persone si potevano sfiorare solo nelle grandi strade, camminando senza mai parlarsi, oppure si potevano incontrare nei luoghi di lavoro. Ma i governi mondiali avevano predisposto qualsiasi posto di lavoro in modo che nessuno potesse avere dei contatti con gli altri perché, in definitiva, chiunque potrebbe sviluppare, in qualsiasi momento, il processo di mutazione in vampiro. Questo lo dicevano gli scienziati, lo diceva il maxi-schermo ma nessuno aveva mai visto un vampiro. E, comunque, come dicevano saggiamente gli scienziati che affiancavano i governanti mondiali, ciò non vuol dire che non esistano. Anzi, esistono, e sono pericolosi. Nel mio lavoro al call center c’era George, nella postazione accanto alla mia. Lo vedevo soltanto attraverso il vetro che ci divideva, sapevo che si chiamava George grazie alla targhetta col nome che portava sulla camicia. Allo stesso modo, grazie alla mia targhetta, lui sapeva che mi chiamavo Alf. Ho sempre pensato, chissà perché, che George fosse simpatico, che fosse una brava persona, anche se con lui non ho mai scambiato neanche una parola.

Una sera stavo percorrendo il lungo corridoio del mio appartamento per recarmi a scrivere nella stanza più lontana. Le luci erano fioche, giallastre e riflettevano sulle pareti strane e tetre figure spettrali. Camminavo e, contemporaneamente, stavo all’erta. Come ho detto, ho sempre avuto un certo timore a muovermi, nel buio, nella mia grande casa. L’illuminazione non riusciva a rischiarare ogni cosa, a rendere riconoscibile il lungo corridoio e i saloni che si trovavano al piano superiore. Sentii un rumore. Mi fermai. Proveniva, per l’appunto, dal piano di sopra. Non potevo rischiare: dovevo accertarmi che non ci fosse nessuno. Salii lentamente le scale e mi ritrovai nel salone buio. Accesi la luce. In un angolo, le luci blu di due occhi mi fissavano intensamente. Rimasi pietrificato dalla paura, come di fronte allo sguardo di Medusa. La luce che si andava accendendo, lentamente, rivelò una figura vestita di scuro. Era una ragazza con un lungo vestito nero, con i capelli neri a caschetto e con due occhi di un azzurro intenso. Mi fissava, e restava in silenzio.

(continua)

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