di Walter Catalano

LaSignoraDiShangaiL’universo paranoide del Noir è essenzialmente maschile, in esso la donna è l’altro, l’estraneo, il perturbante. La critica femminista ha evidenziato i motivi sociali di queste paure: nel dopoguerra i reduci vedevano nelle donne che avevano preso i loro posti nella società americana mentre essi erano al fronte, delle pericolose rivali e delle minacciose virago che si erano assunte ruoli solitamente maschili causando loro disoccupazione cioè impotenza. La politica americana del dopoguerra mirò a ristabilire i vecchi equilibri, propagandando attraverso i mass-media la figura della ragazza della porta accanto (la vergine professionista alla Doris Day), della brava moglie e madre di famiglia, della fanciulla-angelo (e come tutti gli angeli asessuata), proprio come durante la guerra aveva sfornato pin-ups e icone sexy per i soldati al fronte.

Questa divaricazione si stabilirà nel Noir in due tipologie femminili ben distinte: la dark-lady e la fanciulla-redentrice. Quest’ultima è l’alternativa all’universo d’incubo del Noir: rimane estranea fondamentalmente agli intrighi anche quando ne è vittima innocente; è visivamente statica e passiva; di solito è legata ad un paesaggio pastorale e bucolico, antitetico a quello urbano in cui si muovono i fantasmi noir: più spesso è solo il sogno idealizzato o il ricordo dell’infanzia felice e perduta di qualche eroe decaduto; la sua connessione primaria è essenzialmente con la natura o con il passato. Ad esempio in They Live by Night (1949) e On Dangerous Ground (1950) entrambi di Nicholas Ray, la purezza dei giovani amanti, che li redime dal loro status di fuorilegge o di emarginati, non basta a salvarli dal mondo corrotto che li circonda: quella normalità alla quale aspirano rimane una fumosa utopia, un sogno: la loro riscossa morale coincide romanticamente con la soppressione fisica. Lo stesso accade in High Sierra (1941) di Raoul Walsh in cui si ha un ribaltamento rispetto alla norma conformista: la donna perduta Marie/Ida Lupino è l’angelo redentore mentre la ragazzina ingenua Velma, seppur molto lontana dalla dark-lady, ne condivide la maligna indifferenza e l’opportunismo senza scrupoli.

Il confronto, più o meno diretto, fra le due donne del Noir si risolve generalmente a tutto vantaggio della dark-lady che, anche se destinata ad una fine tragica riesce sempre a coinvolgere in essa anche l’uomo di scena, strappandolo, o con le sue arti di seduttrice o con la violenza, alla rivale: ad esempio, perché Lola, la figliastra della perfida Phyllis Dietrickson/Barbara Stanwick, passi indenne attraverso l’intrigo di Double Indemnity (1944) di Billy Wilder, è indispensabile il sacrificio/espiazione di Neff/MacMurray; in Out of the Past (1947) di Jacques Tourneur, Ann, la fragile fidanzata di Mitchum, potrà ben poco contro la pericolosa ed eccitante Kathie; allo stesso modo Betty, la segretaria/girlfriend di Joe/Holden non riuscirà in Sunset Boulevard (1950) di Billy Wilder a salvare l’innamorato dalla trappola che Norma Desmond/Gloria Swanson, la più inquietante e barocca “donna ragno” del Film Noir, sta tessendo intorno a lui. “La forza di queste donne è espressa nello stile visuale dal loro dominio nella composizione, nell’angolo, nei movimenti di macchina e nell’illuminazione. Esse sono irresistibilmente il punto focale della composizione, di solito al centro dell’inquadratura e/o in primo piano, o a fuoco sullo sfondo. Controllano i movimenti di macchina, sembrano dirigere la camera (e lo sguardo dell’eroe con il nostro)…per contro le ‘brave’ ragazze e molti degli uomini sedotti e passivi sono predominantemente statici, sia all’interno dell’inquadratura che nella loro capacità di motivare i movimenti di macchina e la composizione”(da “Women in Film Noir”, classico della critica cinematografica femminista degli anni ’80, edito dal British Film Institute). Per questa sua posizione centrale in esso sembra paradossalmente che il genere hollywoodiano in teoria più misogino sia in realtà quello dove la donna ha più spazio e più libertà di azione. Là dove essa era stata solo un abbellimento o una figura codificata e inconsistente, acquista ora uno spessore ed una dimensione inusitata: è il movimento, la personificazione del vitalismo, l’antitesi della passività, funzioni fino ad allora prepotentemente maschili almeno al cinema.

La dark-lady è l’unica donna del cinema di quegli anni che rifiuta un ruolo impostogli dalla società, per scegliersi una strada personale, indipendente, libera: così libera da condurla al crimine. A differenza della vamp degli anni ’20 e ’30, la femme fatale del Noir non trova alcun riscatto o catarsi finale; ‘amore’ è solo una parola da lei usata per ingannare e servirsi degli uomini come burattini e attraverso di esso non può generarsi alcuna purificazione: ci troviamo di fronte a una guerra e uno dei due contendenti sarà eliminato. Colei che ha turbato l’ordine originario verrà punita con la sconfitta finale e con la morte, ma cadrà sempre in piedi trascinando con sé amanti, complici, vittime e antagonisti. Difficilmente il complice-amante-vittima che per vendetta/espiazione compie il rito dell’esecuzione finale, le sopravvive: Neff in Double Indemnity avrà appena il tempo di riscattarsi moralmente agli occhi del collega dell’agenzia con la catartica confessione che innesca il flashback, che è poi il film stesso, prima che le mortali ferite infertegli da Phyllis abbiano ragione di lui; O’Hara/Welles in The Lady from Shangai è ormai un rottame umano quando esce dal luna park in cui ha lasciato morire Elsa Bannister/Rita Hayworth e c’è ben poco di vivo in lui anche se è fisicamente incolume; anche il Bogart del più rilassato Dead Reckoning (1947) di John Cromwell ci lascia alquanto dubbiosi sul suo destino una volta alzatosi dal letto di morte di Lisabeth Scott, dark-lady che perdona con l’epitaffio “solo chi cade può risorgere”; perfino l’apparentemente imperturbabile Sam Spade di The Maltese Falcon dopo aver consegnato alla polizia (e presumibilmente al boia) Brigid O’Shaughnessy ammette “soffrirò in maniera infernale…passerò qualche nottata spaventosa…ma poi tutto passerà”. La dark-lady non viene eliminata tanto perché è più cattiva quanto perché è più forte, troppo pericolosa: è una questione di orgoglio maschile più che una questione di etica. La donna noir in sostanza non è tanto un’assassina o una traditrice quanto una donna che non è una donna.

In questa sua dimensione aliena la dark-lady, quasi come un mutante della fantascienza, acquista un trasformismo ed un’imprevedibilità ai limiti del soprannaturale: la doppiezza e l’oscurità ne sono i caratteri principali, in continuo equilibrio fra realtà e menzogna così che, giunto il redde rationem, non sappiamo se le parole d’amore rivolte al giustiziere/giustiziato sono finalmente la verità, l’ennesimo espediente o forse entrambe le cose: i continui pirotecnici scambi di identità, di abiti, di facce, di parrucche, di amanti dell’inafferrabile Velma di Farewell My Lovely di Raymond Chandler – da cui i film più o meno fedeli al testo letterario Murder My Sweet (1945) di Edward Dmytryk e il più tardo Farewell My Lovely (1975) di Dick Richards – e della diabolica Mildred di The Lady in the Lake sempre di Chandler, da cui l’omonimo film di Robert Montgomery (1947), ne accentuano il carattere sfuggente, la componente aliena e mostruosa: la belle dame sans merci di tradizione decadente diventa un mostro senza volto; fino alla fine non siamo sicuri non solo delle sue responsabilità morali nel delitto, ma addirittura della sua identità: in The Lady in the Lake per esempio, la donna creduta l’assassina si rivela alla fine essere la vittima ripescata irriconoscibile nel lago all’inizio del film e perciò è proprio la presunta vittima ad essere la vera colpevole; così come in Farewell My Lovely, la fantomatica Velma, cercata per tutto il corso dell’indagine, è proprio – in un analogo ribaltamento tematico – la signora che ha assoldato Marlowe.

Ma le eroine di Hammett, Cain, Chandler, non sono le sole ispiratrici della dark-lady noir: il dualistico sdoppiamento della donna ha antecedenti ben precisi nella tradizione letteraria americana, come è denunciato da Leslie Fiedler: “Durante tutta la storia del nostro romanzo, a fianco della bionda fanciulla era apparsa la dama bruna, sinistra personificazione della sessualità negata alla fanciulla di neve. Benchè nella narrativa borghese la donna abbia sempre simboleggiato il ‘cuore’, in contrapposizione alla ‘testa’, il sentimento contrapposto all’intelletto, quel sentimento era stato accuratamente distinto dalla pura bramosia o dalla piena passione sessuale. Nella psicologia simbolica, entrata in circolazione nel diciottesimo secolo, il cuore corrisponde solo agli aspetti più benigni di ciò che noi definiremmo l’Es…L’indiano come si è visto, si divide in Mingo e Mohawk, Pawnee e Sioux: l’indiano buono e il cattivo; la donna si biforca analogamente in bionda vergine e dama bruna, luminoso fantasma all’imbocco della caverna e moro odioso appiattato all’interno. In entrambi i casi il doppione moro rappresenta la minaccia sia del sesso e sia della morte…In un mondo così simbolico, sesso e morte diventano una cosa sola”(da “Amore e morte nel romanzo americano”). Questa ambiguità profonda emerge in particolare in un film come Gilda (1946) di Charles Vidor in cui l’eroina femminile, Rita Hayworth, appare nella prima metà del film quasi sempre vestita di bianco, contrapponendosi ad un universo scuro; nella seconda veste solo di nero: prima donna di sogno, poi femme fatale. La dualità femminile noir può dunque non solo essere scissa in personaggi distinti e complementari (Phyllis e la figliastra Lola in Double Indemnity, Norma Desmond e la segretaria Betty in Sunset Boulevard, ecc.) ma anche racchiusa in momenti diversi nello stesso personaggio, ed è proprio questa ambivalenza visuale che genera maggior disorientamento nei confronti del personaggio stesso.

Gilda è una sorta di Noir mancato che slitta progressivamente verso il melodramma: la protagonista è una donna che si rende conto di essere usata ed abusata dagli uomini della sua vita. Quando entrambi loro – l’amante Johnny/Glenn Ford e il marito cattivo Mudson – le dimostrano il suo status di oggetto, Gilda si rivolge all’unica difesa che ha: la vendetta e l’umiliazione sessuale di entrambi. Le parole della canzone Put the Blame on Mame, che Gilda canta sfilandosi maliziosamente il guanto, sono forse più rivelatrici dei dialoghi del film: parlano di una donna che sa esattamente quale minaccia rappresenti per gli uomini. Il Noir non è dunque affatto misogino, piuttosto ginofobo o meglio, in senso più esteso, sessuofobo: la dark-lady è un pericolo per il suo continuo richiamo al sesso e per la sua astuta strumentalizzazione di esso; unico antidoto contro le sue insidiose arti sono le sane amicizie virili (in cui si indovina non tanto omosessualità latente, ma fuga e rinuncia al sesso; la necessità dell’indagine e dell’azione intesa come sublimazione degli impulsi sessuali). In questa angoscia di castrazione ossessiva, in questa freudiana “sindrome della vagina dentata”, il Film Noir modella le sue eroine: le loro fisionomie, iconografie personali, stigmate caratterizzanti, non sono che i sintomi di una nevrosi.

Protagonista e antagonista, sleuth e outlaw, cacciatore e preda, sono invece nel Noir semplici termini polari di azione e reazione, linee di movimento e di collisione, traiettorie contrapposte e difficilmente acquistano una netta connotazione morale o di valore: l’eroe non è necessariamente buono; l’avversario non è necessariamente cattivo. Il rapporto fra i due personaggi è speculare, uno è l’ombra dell’altro, il suo rovescio materializzato: si odiano e si cacciano con irrefrenabile attrazione magnetica (ma in questa stessa caccia è contenuta l’essenza della loro ambiguità narcisistica: ognuno cerca l’altro per possederlo, per reintegrare in sé uccidendola la parte rimossa della sua personalità; ognuno è il limite dell’altro, il rinfacciarsi reciproco di possibilità proibite). Tema di chiara derivazione gotica ed espressionista, questa ossessione del doppelgaenger ha infestato particolarmente la fantasia di registi, spesso di origine mitteleuropea, che hanno saputo sfruttarlo fino alle estreme possibilità narrative e visuali. Ad esempio Robert Siodmak in The Cry of the City (1948) con i personaggi di Martin Rome/Richard Conte e del tenente Candella/Victor Mature, due italo-americani cresciuti negli slums: partiti dallo stesso punto hanno preso strade opposte “Tu l’hai giocata a tuo modo, io al mio!” – dice il gangster al poliziotto in uno dei dialoghi chiave del film. Ancora più estremista è il precedente film di Siodmak, il goticheggiante Dark Mirror (1946), forse quello che più apertamente rimanda all’espressionismo tedesco. Due gemella identiche, interpretate da Olivia De Havilland, sono indiziate di omicidio: si sa con certezza che una delle due è colpevole, ma quale ? Stavolta la malefica dark-lady e la fanciulla redentrice sono assolutamente indistinguibili: ma mentre la seconda, ignara, crede all’innocenza della sorella e cerca di salvarla, la prima, colpevole, cerca di far ricadere la colpa sull’altra e, facendole credere di essere pazza, di indurla a confessare il delitto; poi, messa alle strette, di farsi passare per l’innocente per sfuggire alla polizia. Anche alla fine si mantiene viva l’incertezza inquietante che domina il film: è veramente quella giusta la ragazza che sposerà lo psicologo criminale (Thomas Mitchell) che ha risolto il caso ?

Varie sono le categorie tematiche e i subgeneri attraverso i quali i critici hanno cercato di definire un’ardua tassonomia del Noir. La prima è la cosiddetta – con termine inglese – crook-story, la storia di banditi. In equilibrio fra l’epica violenta del Gangster-movie e la disillusione ambigua del Film Noir si occupa di gang criminali, desperados, rapinatori. Il punto di vista, in genere è quello dei criminali stessi: entro i poli opposti dell’avvicinamento e della fuga si articolano le mosse di questi personaggi in moto perpetuo: banche da svaligiare, organizzazione di colpi, rapine, fughe, inseguimenti, scontri con la polizia. E’ la forma più dinamica del Noir che apre la strada al road-movie. Al polo opposto il detective-thriller, ripreso in genere da novelle Hard-Boiled: la figura dominante qui è il private-eye, l’investigatore privato. Quando l’indagine è affidata alle forze dell’ordine regolari e la storia invece che su novelle poliziesche si basa, almeno in teoria, su casi realmente accaduti, si parla di procedurale: subgenere largamente incoraggiato dall’FBI, dal Dipartimento del Tesoro e da altre squadre speciali che prestarono i loro archivi ed i loro uffici per sceneggiature e scenografie di questi film propagandistici che, specie in epoca Maccarthysta, rappresentarono il versante reazionario di un genere altrimenti sovversivo. In questo filone predomina il realismo delle rappresentazioni arrivando fino al documentarismo e al cinema veritè, definendo oltre che politicamente anche espressivamente un altro stile opposto al noir onirico e simbolico di derivazione espressionista.

C’è poi il sottogenere penitenziario: l’ambiente carcerario si presta bene a simbolizzare la vita appiattita in un sistema ciecamente oppressivo e disumanizzante. Gli autori in linea di massima simpatizzano con i galeotti, anche se forse più per le loro valenze simboliche e metaforiche che oggettive: ci sono in ogni caso, anche opere realistiche e aspramente documentarie. Queste due tendenze contrapposte possono essere esemplificate da due fra i film più riusciti e politicamente più coerenti con l’engagement progressista del filone: Brute Force (1947) di Jules Dassin, nell’ambito simbolico (uno dei film più radicali prodotti in quel periodo) e Riot in Cell Block II (1954) di Don Siegel, in quello realistico. Altro filone importante è quello che potremo definire di psicologia criminale, la storia si sviluppa intorno alla preparazione e all’attuazione, con le sue conseguenze, di un delitto (generalmente per scopi venali e passionali) da parte di coppie diaboliche e adulterine. E’ soprattutto in questo ambito, insieme a quello del detective thriller, che si è andata definendo ed ha acquistato centralità la figura della dark-lady. Infine il vasto sottogenere del dramma sociale che prendendo le mosse dai primi film americani di Fritz Lang Fury (1936) e You Only Live Once (1937), arriva ad esempio a The Big Carnival (1951) e Sunset Boulevard (1950) di Billy Wilder, On the Waterfront (1954) di Elia Kazan, The Big Knife (1955) di Robert Aldrich.E’ questo il meno definibile ed il più sfuggente fra i filoni che abbiamo cercato di inventariare, mancando assolutamente di omologie ed analogie almeno a livello narrativo: i punti di contatto fra film così diversi consistono soprattutto nel modo in cui le crisi e gli stilemi classici del Noir (senso di oppressione e di claustrofobia, cinismo,mancanza di certezze, paranoia, perdita del senso d’identità, ecc.) vengono introdotti nella storia, qualunque essa sia, e ne orientano il racconto verso un’unitarietà di rappresentazione che definisca il loro rapporto drammatico con l’ambiente e il milieu sociale. Anche alcune soluzioni tecniche antitetiche – all’interno di tutti questi subgeneri – determinano modi opposti di intendere il Noir: quello realistico, che rispetta l’integrità dei luoghi, usa esterni naturalistici e gira “sul posto” (il suo regista eponimo è Henry Hathaway che dopo il 1947 con Kiss of Death, rompe con la tradizione fino ad allora canonizzata girando il primo Noir con scenari naturali); e quello allegorico, dove tutto è rigorosamente ricostruito in studio, con pochi e falsi esterni, dove ogni cosa perde la sua oggettualità per dileguarsi in una dimensione simbolico-visionaria (Siodmak è l’esempio limite di questa tendenza).

Se gran parte dei critici ha definito il Film Noir classico come quel gruppo di film compreso cronologicamente fra il 1941 (The Maltese Falcon di John Houston) e il 1958 (Touch of Evil di Orson Welles), il Noir, anche non più inteso come movimento ma solo come stile e genere, si estende ampiamente oltre queste date: le caratteristiche del Noir “tardo” però, lo rendono più un tradimento che una continuazione del movimento stesso. Per le mutate condizioni produttive il Film Noir, propriamente detto, è ormai morto con un certo tipo di cinema. Le figure dei grandi produttori e cineasti sono ormai scomparse; il prodotto cinematografico è diventato così un’operazione di marketing più che un’avventura con maggiore o minore proporzione di rischio. Si sono quindi imposte nuove regole nel neo-Film Noir: immettere metodi televisivi (Fuzz di Richard Colla del 1974 o Shaft di Gordon Parks del 1970); costruire una riflessione sul vecchio genere o sul suo concetto (Chinatown di Roman Polansky del 1974) o farne addirittura la caricatura (The Long Goodbye di Robert Altman del 1973); illustrare una novella determinata adattandola al mondo personale dell’autore (The Getaway di Sam Peckinpah del 1973, dal romanzo di Jim Thompson); fare una lettura colta della novella che tenda a distaccare ed evidenziare gli elementi più diffusi tra i cinefili in modo che siano palesemente riconosciuti con una sorta di ammiccamento compiacente (The Postman Always Rings Twice di Bob Rafelson del 1981); fare remake, quasi sempre sfortunati, di alcuni classici del genere (versioni retrò: Farewell My Lovely di Dick Richards del 1975; o adattamenti dell’originale ad un altro contesto: The Big Sleep di Michael Winner del 1977). Forse la morte del Film Noir non è solo la morte di un genere ma la morte del concetto stesso di genere, in quanto risultato di un sistema di produzione ormai scomparso, di una forma, ugualmente estinta, di vedere e intendere il cinema.