Pensierini di Dziga Cacace

???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????553 – La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Italia/Francia 2013
Mi violento e accetto la proposta di Barbara, ché in fondo ha ragione pure lei: sabato al cinema. Propone il San Carlo dove ho visto diversi film negli anni Novanta, tutti rigorosamente proiettati trapezoidalmente in maniera grottesca. Rifiuto. Allora c’è il Centrale, che ha solo 100 posti. Accetto.
Ci avventuriamo in centro sulla vecchia Ka, fradicia di pioggia, ma la fortuna aiuta gli audaci: troviamo posto vicino alla sala e poi, arrivati a dieci minuti dalla proiezione, anche dentro. Seconda fila. Quando vedi i puntini dello schermo significa che sei un po’ troppo appiccicato, ma me ne faccio una ragione perché ci rendiamo conto subito che questo non è un film che si possa vedere in tivù o sul computer. È visivamente straordinario, montato benissimo e fotografato in modo scintillante da Luca Bigazzi, stabilendo un’imbarazzante distanza figurativa con tanto anonimo cinema italiano. Tutto l’apparato di supporto è al massimo livello: la scelta della musica, mai banale (anche quando estremamente easy e kitsch, vedi Sinclair vs. Carrà o l’atroce remix house di Tu vuo’ fa’ l’americano); i volti e le interpretazioni del cast (tutte facce che raccontano storie solo a vederle, specialmente le donne: Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Serena Grandi, Isabella Ferrari), i dialoghi, essenziali e (furbescamente) aforistici e citabili. La vicenda, narrata per brevi flash e sequenze più corpose, è sostanzialmente il bilancio di una vita: Jep Gambardella, giornalista dominus delle notti romane e un tempo romanziere con un ormai introvabile esordio, riflette guardando la povertà del presente, la vacuità del mondo che lo circonda, risolvendosi infine a riprendere a scrivere: solo la bellezza ci salverà. Forse.
All’inizio sembra un film sull’Italia devastata di oggi, osservandone il profilo più effimero (le terrazze romane di pseudo intellettuali, gli insulsi spettacoli d’arte concettuale, la vita notturna della capitale), poi man mano che il film cresce intorno alla figura di Toni Servillo (gigione, sì, ma se lo può permettere, sinceramente) la morale diventa universale e il nostro paese è solo lo sfondo perfetto per la riflessione di Sorrentino e del suo personaggio che proustianamente rievoca quando ha perso l’innocenza e la bellezza, il ricordo della quale lo porterà di nuovo a scrivere. I critici si sono scannati tra detrattori ed esaltatori, tirando fuori a più riprese La dolce vita, che fotografava con amarezza l’Italia del boom, mentre questa Grande bellezza ne sancisce la fine, dove “tutto è solo un trucco”, come la grande illusione del cinema dimostra. Certo, c’è Roma, c’è un giornalista e c’è un finale di speranza su un volto femminile innocente, quasi a ricordarci che non si possa fuggire da Fellini, ma il paragone mi sembra pigro per tanti motivi e la poetica del regista napoletano è autonoma e ha del miracoloso oggi, in una cinematografia nazionale che fa quasi sempre della povertà una scusante a priori. Là, in Fellini, c’era un giornalista che assisteva alla crisi di fede di una nazione che diventava ricca (e la crisi passava dall’intellettuale suicida al popolino in attesa di miracolo, tutto mentre il Cristo volava via alto nel cielo di Roma), qui in Sorrentino è tutto rovesciato: l’Italia che diventa povera (non solo materialmente) è lo sfondo della crisi personale di un uomo che la fede la ritrova. Se formalmente alcune cose rimandano a Fellini (più Roma che La dolce vita, e sicuramente non la struttura, nel riminese sempre per lunghe sequenze, qui più frammentata), è proprio diversa la sostanza e mi stupisce che bastino un nano, qualche suora e un prelato goloso per cascare nell’equivoco semplificatorio (e nessuno che invece colga nel prefinale l’omaggio alla serenità bertolucciana in quel dolly che ascende mentre diverse coppie ballano in un prato). E poi – se vogliamo dirla tutta – ci sono anche tantissimo Pasolini, molto Flaiano, Scola e tutta quella modalità visiva di rappresentazione metafisica da De Chirico in giù, e se la citazione o il rimando sono funzionali al racconto e non fini a se stessi, non vedo il problema.
Poi, oh, io non sono all’altezza di un commento serio (e tanti che ho letto sui quotidiani meriterebbe di finire dentro il film, polverizzati dall’ironia di Gambardella e inchiodati alla loro inutilità), ma lo ammetto: sono stato ubriacato da questa Roma vista attraverso il filtro barocco dell’artificio (come quando la Ferilli cammina nella galleria prospettica del Borromini, a Palazzo Spada). Una vertigine iconografica da far girare la testa, travolti da muri rossi e mattoni sbreccati, marmo, fontane, acqua e antiche dimore di nobili decaduti, statue, turisti che muoiono per troppa bellezza, suore e preti e cardinali, pini mediterranei e giardini e rovine e monumenti, il Tempietto del Bramante e il Colosseo, teatro, yoga e danza e vibrazioni inesistenti ma spacciate per tali, tatuaggi, abbronzature, droghe e iniezioni di collagene e plastiche facciali e corporee perché questa è l’Italia: un corpo in disfacimento martoriato dalla chirurgia estetica per mascherare cosa siamo diventati.
“Roma ti fa perdere un sacco di tempo” e ti emoziona, ti sconvolge, ti mette di fronte a una bellezza ineguagliabile e tanto più schiacciante se paragonata alla bruttezza attuale, intellettuale e antropologica. E ti tradisce, come ricorda Verdone che torna al paese, deluso: “Che cosa avete contro la nostalgia?”. Io niente, figurati che ho nostalgia anche degli anni Ottanta… ci pensavo ieri: chi era Spadaccia? Si può avere nostalgia di Gianfranco Spadaccia? Mah!
La consapevolezza che Gambardella acquisisce dopo due lutti, un ennesimo compleanno e un’inaspettata prova d’amore (in ordine sparso “Alla mia età una bella donna non è abbastanza”, “È stato bello non fare l’amore con te” e ancora “Che belle persone che siete!”) mi ha conquistato e commosso, come son stato emozionato alle lacrime dal breve incontro con madame Ardant (questo è il cinema!) o sorpreso dal trovare l’impunito Venditti al ristorante.
E poi, ne La grande bellezza, non c’è il consueto piagnisteo contro gli altri, sentendosi gli unici puliti e giusti: il protagonista sente la sua appartenenza al marciume che deride e, certo, questa ambiguità può dar fastidio. È un’ironia reazionaria che diventa anche autoassolutoria, perché Gambardella e Sorrentino fan parte del mondo che criticano e non se ne chiamano fuori radicalmente, ulteriore (involontario?) segno di quell’identità nazionale che il film fotografa in modo impietoso.
La grande bellezza Cacace 2Ma queste son letture dovute anche a come critica e politica hanno accolto il film, e mi pare che affrontino solo uno dei versanti. È il lato esistenziale che viene sottovalutato (perché si presta poco anche a considerazioni, se non che questa è una storia che abbiamo già sentito: non avvertite profumo di fragole?) ed è lì che trovo – a differenza della freddezza troppo spesso rimproverata al regista – un calore nella narrazione, avvolta dalla luce soffusa e rosata che incendia Roma al tramonto e all’alba. Il regista partecipa la disillusione, la consapevolezza e infine la ritrovata felicità di Gambardella (“Il futuro è meraviglioso, Stefa’”), ci fa vedere l’amarezza di Verdone (erano ANNI che lo volevo in un ruolo drammatico, non a fare la macchietta: non è vero che è sempre se stesso, qui c’è dolore!) o la profondità ignorante della Ferillona (perfetta, tutto sommato) che sta affrontando il dramma della malattia con la sola voglia di vivere.
Mi lascia perplesso la meccanicità del finale (il miracolo coi fenicotteri e la “santa” simil Madre Teresa che ricorda l’importanza delle radici con grottesco didascalismo), ma m’è talmente piaciuto il film che avrei già voglia di rivederlo, per goderne ancora. E son pochi i film che mi hanno provocato questa reazione in tempi recenti. Ah: l’Oscar, giusto. Siccome la visione di Roma è folgorante si presagisce una vittoria. Gli americani amano le cartoline dall’Italia, si sa, ma qui di cartoline – se la cartolina è la banalizzazione del bello – io ne vedo poche, mentre il testo, come grammatica e significati, mi sembra lontanissimo dalla comprensione di Hollywood. O forse no. Boh, vedremo. (Cinema Centrale, Milano; 1/2/14)
P.s.: mi ero sbagliato, tanto per cambiare: il film vince l’Oscar e subito parte la consueta divisione dell’Italia tra pro, contro e superiori annoiati. Mediaset lo manda in onda due giorni dopo la vittoria (con audience stratosferica) e a quel punto tutti possono dire la loro, con epica punteggiatura di commenti su Facebook e Twitter minuto per minuto, come se si trattasse di una partita di calcio. La politica si appropria del film, proponendo cittadinanze onorarie e quant’altro, equivocando il titolo con un’esaltazione della capitale. Di suo Sorrentino ci mette un’atroce pubblicità per la 500 di Lapo (“La piccola grande bellezza”) che mi fa ripensare criticamente tutto l’entusiasmo sincero che ho messo nello scrivere questo pezzo un’ora dopo che ero uscito dal cinema: dovrei aspettare sempre almeno un anno prima di scrivere, innanzitutto per capire, poi per elaborare.
E se ho dimenticato qualcosa significa che non ne valeva la pena.