di Lorenza Ghinelli

(Introduzione a Jennipher Toth, Uomini Talpa, Castelvecchi, 2000, pp. 205, € 10,20).

41rJnj5m32L._SS500_Sotto Manhattan esiste un suo doppio, speculare e oscuro: una città simile a un formicaio, rintanata in cavità e gallerie che si estendono nel ventre della terra in modo direttamente proporzionale all’altezza degli edifici che la ricoprono. Basti pensare al grattacielo della Chrysler, che sotto di sé cova ben ottanta piani di tubature di cemento a prova di bomba.
Sotto la città visibile, in cui si vive una vita di “superficie”, si diramano canali in cui scorrono le radici tentacolari della nostra civiltà: cavi di ogni tipo, per telefoni ed elettricità.
Più sotto ancora si estendono le tubature del gas e sotto di queste l’acquedotto, che si dirama ovunque per centinaia di chilometri.
E si scende ancora: tubature del vapore, fogne e dotti fognari declinanti. Reti sotterranee immense e caotiche, capaci di sfuggire a qualsiasi planimetria.
Le linee della metropolitana poi, si estendono per milleduecento chilometri nei cinque distretti di New York, lungo tunnel che, all’altezza della 191esima Strada e della Broadway, scavano fino a diciotto piani sotto il suolo.
Sotto Front Street, in una parte della colmata per l’ampliamento dell’estremità meridionale di Manhattan, è stato trovato un mercantile del Diciottesimo secolo lungo ventotto metri.
La stessa Wall Street prende il nome da un muro scoperto durante uno scavo, per la precisione si tratta di una lunga staccionata di tavole di legno perpendicolari destinata a tener lontani gli indiani trecento anni fa. Persino le latrine sotterranee risalenti al periodo della Rivoluzione non sono rare. Ci sono anche stazioni metropolitane morte e tunnel abbandonati.
In questo universo speculare, sprofondato, in questo negativo fotografico, vivono gli homeless, i senza dimora. I reietti tra i reietti. Quello che la società disprezza, e che al contempo produce. In questi cunicoli sotterranei si nascondono le imperfezioni che la società si rifiuta di considerare come proprie. Sotto Manhattan vivono uomini e donne nati in superficie e precipitati all’inferno.
Ma quali sono le ragioni che spingerebbero così tante persone a rifugiarsi nel sottosuolo?
Vanno sottoterra per molte ragioni obiettive. La penuria di alloggi e l’inadeguatezza dei sussidi sono solo due di esse. Alcuni scendono per sicurezza, per sfuggire ai ladri, ai violentatori e alla crudeltà diffusa. Scendono per sfuggire alla legge, per trovare e usare droghe e alcool senza essere disturbati dalla famiglia, dagli amici e dalla società. Alcune famiglie vanno nei tunnel per evitare di dare in adozione i loro figli. Altri, vergognandosi della povertà, dell’evidenza del loro fallimento nella società e dell’aspetto miserabile, ci vanno per evitare di vedere la propria immagine riflessa nelle vetrine dei negozi cui passano davanti. Certi sprofondano nei tunnel per degenerare lentamente, al riparo dalla gente di superficie, in un posto che considerano casa propria”.
Un luogo che per molti diviene quindi casa, contenimento e rifugio.
Come Jennipher Toth illustra nel suo libro, la vita nei tunnel non è certo immune a uno dei bisogni fondamentali dell’uomo: quello di aggregarsi dando vita a società organizzate.
La giornalista ha voluto capire, mischiarsi, rischiare. E nel suo reportage affiorano testimonianze come corpi dalle acque, gonfi di storie e di malattie, ritratti dolenti, umanità seppellite prima ancora di essere morte. Una sorta di Antologia di Spoon River in cui le funzioni vitali di ogni voce narrante, seppur compromesse, funzionano ancora.
Essere accettati nei tunnel, proprio come in qualsiasi gruppo che abita il pianeta, non è affatto facile. Ci sono vere e proprie comunità, con le loro leggi e i loro valori. Comunità che proibiscono l’uso di droghe, altre che pregano, gruppi uniti soltanto dall’eroina e dagli espedienti necessari per procurarsela. Esistono gruppi in cui si cerca di ricreare una famiglia e in cui il denaro viene disprezzato; in questi ultimi, chi nella vita di superficie era abilitato a insegnare, si occupa di istruire i bambini del sottosuolo.
Ma esistono anche gang di ragazzini che scivolano negli intestini della città solo di notte, per ammazzare di botte gli “Uomini talpa”, certi che nessuno ne rinverrà mai i corpi.
Esiste, in sostanza, la medesima società di superficie senza trucco e senza orpelli. E come in ogni società, oltre alla violenza e ai soprusi, esistono codici di lealtà e valori.
Negli anni ’90, le forze dell’ordine (quei pochi agenti in croce che venivano spediti nel sottosuolo), avevano il compito di effettuare vere e proprie retate deportando gli homeless nei ricoveri. Le forze dell’ordine in quei casi erano di manganello facile. Certo, definivano gli homeless violenti, pazzi e drogati. Ma è naturale non mostrarsi docili davanti a individui armati, che costringono a risalire in una società che ha già saputo ferire oltre ogni immaginazione.
Jennipher spiega davvero bene la realtà dei ricoveri. Ed empatizzare con gli homeless diviene più semplice di quello che si potrebbe pensare.
Nel libro ne viene citato uno: quello di Fort Washington, chiamato anche “Casa Omicidi”. Accoltellamenti, soprusi, stupri, sono all’ordine del giorno. Senza contare il fatto che alcol e droghe sono vietate. Il fatto che gli homeless non vogliano abbandonare i tunnel è tragicamente comprensibile. Quello che a noi, “persone di superficie”, appare come un inferno, per loro è tana. Tana infernale, certo, ma comunque preferibile alle violenze e alla ghettizzazione che li attendono in superficie, assieme a un passato che i più desiderano scordare.
Nei tunnel si muore. Di malattie tra cui la tubercolosi, di overdose, di morte naturale aiutata da uno stile di vita che definire insalubre è poco.
C’è anche da dire che i programmi di assistenza sembrano unicamente rivolti al tornaconto della società di superficie. Si limitano a ripulire i tunnel, che rappresentano le cantine oscure delle nostre paure più profonde. Detto in soldoni, i programmi di assistenza non si rivolgono agli assistiti.
Nel 1982 venne attuato il primo di questi “programmi” che vedevano nell’organico la presenza di soli cinque agenti, un sergente, due assistenti sociali, un autista e un pullman. Questo team entrava in azione solo quando un addetto ai binari o un macchinista subiva un grave assalto. In quel caso il team scendeva nei tunnel e, cercando di individuare le persone “pericolose”, le portava in superficie infilandole nel pullman diretto al ricovero.
Nel 1990 più di quattromila homeless vennero espulsi dai tunnel e rinchiusi.
Jennipher Toth non vede in questo nessuna assistenza (e come darle torto?), registra soltanto una violenta applicazione della legge, da parte di una società che si trova a trattare il problema degli homeless come si tratterebbe un tumore nella medicina allopatica. Con la differenza che in questo caso si parla di persone.
Quando questo libro uscì in America, nel 1993, ancora non era stato fatto nessun censimento della popolazione che abitava il sottosuolo. Oggi le cifre sono approssimative e mancanti.
Per molti gli “Uomini talpa” non esistono, convinti di un semplice fatto: ciò che non si vede non esiste.
Persino il fatto di chiamarli “Uomini talpa” li rende irreali. È un termine dispregiativo, inappropriato, certamente offensivo. Stando alle testimonianze raccolte nel libro, gli abitanti dei tunnel, in genere, detestano essere chiamati così.
Jennipher Toth ha scelto comunque di intitolare in questo modo il libro, in accordo con le persone che ha incontrato nei tunnel. Un titolo forte, che ci trascina dentro a testimonianze dure, scomode.
Giunti alla fine non c’è scampo: dietro agli “Uomini talpa” esitono soltanto uomini e donne che abitano nei tunnel. Persone dal passato così tanto simile al nostro da inquietarci.

Il libro di Jennipher Toth fa riflettere e infuriare, fa persino venire voglia di sbatterlo contro un muro.
Proprio per questo lo considero estremamente interessante e sempre attuale.