williamdollace.jpgdi William Dollace

[Quando il talento è profondo, smuove corde intime, spiazza, mette in discussione le certezze che manutengono una vita alienata com’è la mia, allora entro in contatto con un principio di salute. La scrittura per me porta salute, quando si tratta di scrittura autentica. E cos’è una scrittura autentica? Per rispondere non basterebbe stendere un trattato, però è possibile fornire esempi. Come la scrittura di William Dollace, incontrata sul Web, che mi ha incantato, sbalestrato, fatto pensare profondamente ai limiti dello stile a cui guardo. Archi sinaptici allo stato puro. Assoni linguistici elettrificati. Mi sono trovato davanti a una testa vorticosamente pensante e a un orecchio metrico istintivo ma sapientissimo. Si incrociano autori che ritengo fondamentali, da Kafka a Miller a Burroughs a Ginsberg, da Pynchon a Foster Wallace a Hoellebecq, mentre le riflessioni si muovono tra cinema (una meditazione continua), letteratura, filosofia ed estetica, piano apparentemente sociologico, richiamo teologico. Ogni riflessione è, a ben vedere, una narrazione. Mi limito a segnalare questo autore. Se fossi un editore, non mi lascerei scappare un talento del genere. Però non sono un editore: sono un lettore. William Dollace mi legittima a pieno in questa condizione, e non ho che da ringraziarlo. Potete leggere i suoi blog ufficiali (questo e questo). Qui mi limito a riportare alcuni testi, scusandomi per la superficialità con cui lo faccio. Bisognerebbe aprire una discussione, sulla proposta letteraria di William. Coincide con proposte che stanno facendosi pressanti. giuseppe genna]

nel parco

Alvin se ne sta seduto sulla panchina. Solo. Succhia una caramella. Il suo maglione rosso ciliegia esibisce una prominenza, laggiù, in basso. Ogni tanto Alvin batte la mano destra sulla gamba. Pac. Pac. Chissà che i minuti passino più alla svelta. Pac. Pac. Pac. Chissà che le ore passino più velocemente. Chissà che la caramella tardi a sciogliersi. Alvin osserva il mare. Chissà le barche. I puntini bianchi che in lontananza mostrano fieri i propri stendardi di latte.

Alvin ogni tanto distoglie lo sguardo dall’orizzonte e si guarda attorno. Nel Parco. Cerca qualcosa di insolito. Cerca qualcosa di nuovo. Passa il tempo.
L’infanzia di Alvin non è stata quel che si dice “rose e fiori”. Il padre fornaio, la madre sarta, i risvegli di buon mattino a dare una mano, a scendere dal furgoncino scassato per consegnare il fagotto di carta calda alle porte ancora addormentate. Lavoro, scuola, lavoro. Poi Laura. Poi il matrimonio. Anni duri, anni felici, nessun figlio. Poi, un giorno, che non è mai un giorno solo, Laura se n’è andata. Al cimitero. Il cuore debole, dicono i Dottori. Si faccia forza, dicono i Dottori. Tieni Duro, dicono i pochi amici del Bar. E’ Dura Lo Sappiamo, fra un asse di Coppe e un quattro di bastoni, fra un bianco frizzante, un articolo di Repubblica e via andare.. E’ Dura per tutti la solitudine.
Al parco puntini bianchi in lontananza. Profumo di Gelsomino. Motorini scorribandare da dietro fra le viuzze increspate del Centro Storico. Rumore sordo, quasi impercettibile di onde. Scogli che si difendono da decenni. Come Alvin. L’occhio stanco ma attento.
I piccioni, come tutti i pomeriggi si fanno avanti guardinghi. Ma Alvin non porta niente da mangiare ai piccioni. Alvin pensa, perso, distratto, si attacca a ricordi che stanno inesorabilmente per andersene. A volte fa confusione. A volte rammenta. Raramente sorride. Batte il palmo della mano. Pac. Pac. Prende un fazzoletto dal suo marsupio e si da una pulita agli occhiali. Li pulisce ben bene. A volte si asciuga anche gli occhi.
Anche gli scogli a volte scricchiolano, abbandonati, ingobbiti sotto il peso d’altri scogli, sotto il peso della salsedine e delle mareggiate di fine autunno. Tieni duro, dicono. Hai ancora qualche amico. Ancora qualche partita a briscola. Qualche anno da scontare. Qui. Sulle panchine.
Alvin si alza, beve un sorso d’acqua dalla vicina fontana, fa qualche passo e si risiede. Quanto è solo e quanto è grande e quanto è blu il mare. Piaceva tantissimo anche a Laura il mare. Si alzava presto e camminava sulla spiaggia. Raccoglieva conchiglie e ne faceva collane per i turisti, durante i fine settimana. Era una donna silenziosa. Una donna forte. Eppure. Ci dispiace molto signore. Ci dispiace. Non abbiamo parole. Abbiamo fatto tutto il possibile.
Ogni tanto, sotto il parco, giù nella strada accanto al Porto si vedono arrivare gli autobus. Sono spesso pieni di turisti gli autobus. Ci sono voci e urla e risate negli autobus. Allora quando si aprono le porte meccaniche Alvin cerca di capire, allunga l’orecchio, cerca di afferrare cosa si dicono quelle voci lontane, perché ridono. Ma non ci riesce. Troppo distanti. Allora Alvin fissa il mare. Fissa gli Scogli. Immobili. E fra uno ieri ininfluente e qualche domani solamente Alvin chiude gli occhi. E quasi si addormenta.

* * *

tac.jpgespiazione

Riuscire a scorrere i volti delle persone come una tomografia assiale ribattezzata e vedere al di là dei loro occhi e delle loro bocche dentate e fiutarne percorsi interiori inesplorati e carie inesplose, cavità, con echi pensierosi di sereni colon, ascoltare pianti e sentirne in bocca le risate, baciarne il silenzio, toccarne i pensieri, tastarne i dolori ed espiarne le colpe, sacrificarsi per tutti, vedere tutto quello che non è possibile vedere, tutto ciò che è celato, rimaneggiato, angariato, rimosso, semplificato. Raccoglierne i pezzi, ricomporli e farne sorrisi e occhi che guardano altrove, avanti, resuscitare cari e ricollocarne i fiori nella terra, cancellare telefonate d’ospedali, sanare lente agonie di radioterapie per giocare con i destini al vincitutto èpersempre.

* * *

Collasso d.ES.crittivo

Ora che il postmodernismo è moribondo e agonizzante, aggrappato alla violenta accelerazione della psicologia gasata da salotto, che ansima affannosamente intubato sull’ultima spiaggia avant-pop dell’esaurimento multimediale lottizzato nella cava culturale, che si rapporta e relaziona con l’avatar loggato nel supermercato autostradale dell’opinione e del detto e dell’urlato e del mostrato e del raffazzonato additato e dell’esibito, che forma sculture ostentate e scintillanti di mediaticità videoimpollinate dalla multiraccolta linkata differenziale delle realtà culturali, massacrate dalla cronografia dell’ovvio, assordate dagli squilli di tromba dei template orripilanti, sigillate dalle scorie radioattive della multisocietà di rete adombrata, non resta che scovare con gli occhi, perpetrare e penetrare l’insondabile, scartavetrare le gengive oculari e contemplare il Magnifico Collasso della Cultura della Descrizione, La Rappresentazione Raffigurante dell’Esposizione, non resta che frugare senza unghie fra gli scarti macellati, farsi investire da inviadidecomposizionemillenaria relitti di plastica digitali e affogarci, dentro, intravedendo l’esterno, appiccicati e vogliosi e ambiziosi come sfavillanti organismi acquatici in una boccia d’acqua alla deriva di un Collasso globale galleggiante, Case-Sequenza, Lotti-Edificabili, Onde-Network-Magnetiche, Prati-di-Social-Perfezionati, Soggettività-Grattuggiate, Arcobaleni rappresi in cieli di pece, Lune sorridenti spiaccicate sull’asfalto roboante di gradi, Declamazioni corali di sregolatezza, Personalità multiple mutanti e funerarie infilzate nello sfacelo amniotico dell’insania, Corpi-Manichini rinchiusi in stoffe bollate e mascherate, Esercitazioni di stoltezza esibita fra gli applausi preregistrati, Circuiti elettrici dislocati in branchi allineati dalle termodinamiche infatuate e farneticanti, giù, fino alla sublime e collettiva devianza. Quando gli abbandoni a cavallo di un Addio tradito annegano sotto gli ombrelli della solitudine che non può più salvarci dall’interconnessione, Ancora, tutto è già stato detto. Non rimane che ascoltare l’insicurezza accecante che monta rabbiosa dall’angolo del suo silenzio, Ancora, tutto è fastosamente debole e soggiogato da artificiali grigi investiti dall’Immaterico iridescente, dai simulacri bloccati sui marciapiedi cangianti della temporaneità che si rinchiude nell’inespressività della desolante fantasmagoria, come chilogrammi di certezze promozionali vendute a peso sulle panchine petrolifere del PIL-pentimento, mitigati da un adagiato tramonto digitale in prima fila, torturati dalla consapevolezza di un passato, di un presente e di un futuro, di un Non Domani rincoglionito che è Ora.

* * *

contro ogni giorno

«Di colpo non mi fa più ne caldo né freddo non essere moderno»
Roland Barthes

againsttheday.jpgScrive Tommaso Pincio dal Manifesto del 16 settembre 2006 su Against the Day, il nuovo capo.lavoro di Thomas Pynchon, «[…] Chi lo ha definito un libro senza capo né coda; chi un Moby Dick senza capitano Achab né balena; chi ha ipotizzato che nemmeno Pynchon capisce quel che scrive. […]»
Evidentemente questi critici non hanno ben chiara l’esortazione magniloquente “Giù le mani dal postmodernismo!” Risulta chiaro, mi pare, che appena pubblicato finalmente in Italia, Against the Day sarà da divorare avidamente e farci aummaumma tutti insieme.
ATD sarà la sciabola con cui difenderemo il postmodernismo da tramistiche concettuali scorie, visioni romantiche, storie da raccontare [storie?? ancora?]. Pynchon ancora una volta farà strabuzzare gli occhi alla Critica pronta ad immolarlo sull’altare della Dimostrazione della Fine Ingloriosa del Postmodernismo.
ATD ci sbatterà sul muso una narrazione sgretolata, circolare, impossibile da circoscrivere in formulette da compendio, un poderoso vaffa all’idea di una qualsivoglia logistica raziocinante e sentimentale, all’inganno della suspence, all’inganno escatologico del celato, fino alla fine. A segreti da svelare. A pedine intellettive da far coincidere e ricongiungere A tutti i costi. NO! Non vogliamo la pappa pronta del circo emozionale da equazione letteraria risolvibile. Thomas Sbattici in faccia i tuoi Sessanta trasposti e visionari! Esponici i frammenti dell’esplosione ciclopica della metafora storica! “Voglio scriver questo, sperando che qualche critico-scrittore capisca quest’altro, volevo dire questo, per dimostrarmi al passo coi tempi…io volevo, vooolleevo, volevo! Volevo!” Metafora! Similitudine! Attualità! Sposta trasla e incolla! NO! Non stireremo mai la Storia a Nostro piacimento, uso e consumo!
Sì, perché l’ancora che rende inamovibile la crescita di un determinato o meglio indeterminato numero di caratteristiche e rimandi dalle sembianze di un’immensa etichetta è deflagrata. Arrugginita e decomposta nella sua placenta d’acqua salata. L’ancora è sgretolata. Guardate. La vedete? Divelta. La vedete? Sporgetevi o andatevene! In fondo all’abisso Essa Giace.
Le velleità di analitici criticismi alati di terminismo a tutto tondo, pronti a disconoscere le definizioni definendo non mi esaltano. Non mi solleticano. Non mi rintraccio in nuove vite con i placidi elementi delle ossa di quelle vecchie. Mi interessa la febbre del parapiglia. La febbre, mentre disconosciamo soluzioni matematico-critiche. La febbre farneticante annoia, ma annuncia. Fa male alla digestione, fa contraddire, ma almeno Non è coerente! La coerenza mi fa ridere. Il concetto stesso di Storia, Minuscolo e MAIUSCOLO. Sghignazzare. Volteggiare. Sboccare ad alta quota.
La moltiplicazione sincopata dell’immaginario collettivo, oggi, è la NON-STORIA. La non definizione. L’implosione della caratterizzazione. E’ per questo che non dirò con soddisfatta indole vendicativa: “Giù le mani dal postmodernismo!”
Adoriamo i cibi precotti, le colorate scatolette d’alluminio, le scritte piccole e grandi, luminose, fastidiose, i numeri, gli spazi angusti e polverosi immaginati in bunker asettici di paranoia militante mentre propaggini decronologizzate si proiettano in ogni direzione che è anche nessuna, rotta. “Aria fritta” direte. “Porcherie” penserete. “Elettroshock!!!” indicherete. Tutti si preoccupano di raggiungere “l’ombelico del mondo” della scoperta Moderna ed inconfutabile, ma qualcuno si preoccupa mai di entrare ed esplorare questa fottuta concavità carnale? “NOOOO!” urlo strabuzzando gli occhi e difendendo lo scoppiettante immaginario pop con il coperchio di una scatoletta di tonno. Scardiniamo l’incessante e moribonda controcultura modernista invocando anatomiche tavolozze isteriche da sburrare di tempera molle e da imbrattare d’icone. «La narrativa è morta. La narrativa è viva. La narrativa è vecchia. La narrativa è Una mutazione precotta. La narrativa è pasta fredda.»
Abbuffiamoci di pagine come pandori in offerta, scrolliamoci di dosso lo zucchero a velo della quantificata e irriverente satira. Imbrattiamo di ansia possessiva le nostre librerie sfatte fra le Convulsioni e le Allucinazioni. Fra le Mistificazioni profetiche della storiaminuscolo. In Ammollo in Interventismi critici sacrificali. In Determinismi scientifici da toeletta. Massimalismi. Indagando fra una carota e quattro bietole Scopologie dell’indagine di ricreazione dell’atto creativo.
Ohhhh, Diciamocelo chiaro e tondo: Mastichiamo boriosa fantasticazione.
Meglio sarebbe ci appostassimo vicino alla porta d’ingresso del panificio di una ridente e sconosciuta cittadina americana aspettando sgamanti il momento in cui un vecchio giovanile, settantenne, scrittore, nostalgico, bello come il Sole, appoggi la mano sulla maniglia in cerca di un qualsivoglia mondano sostentamento di grano duro e lì saltassimo fuori, mentre ci cachiamo quasi nei pantaloni, urlando “Hola Thomas!” e il Vecchio e La Maniglia ridendo semi sdentato direbbe nei nostri sogni migliori: “Giù le vostre stramaledette manacce dal postmodernismo!!” ed allora, nel cielo a forma di chiave, in quel preciso momento chiavato di stupefacente follia diseredata 49, comparirebbero angeli d’arcobaleno ed intramontabili majorettiani cori di pon pon e pop corn, verrebbe meno la gravità e tutti cominceremmo a fluttuare mentre altri angeli con le t-shirt di Mason & Dixon batterebbero le mani sbellicandosi dalle risate e poi tutti insieme, Thomas, noi, e gli angeli ci prenderemmo per mano formando un cerchio ovale e sformato e nel cielo comparirebbe una grande scritta, un neon pulsante a caratteri cubitali A-G-A-I-N-S-T T-H-E D-A-Y. Effetti speciali eh! Mica sbobba!
Allora comparirebbero anche facce e nasi e hula hoop e bocche sorridenti nelle nuvole, le nuvole si scrollerebbero di dosso se stesse e le loro schifose appendici umane e cadrebbero fiocchi di ritagli di guancia e di palpebre e di sopracciglia bianche di nuvola. Un assolo elettronico di bricolage con il sintetizzatore di stelle cadenti e bocconi smangiucchiati di relitti celesti. Sì, il grande sacrificio del seminato della ragione al carroarmato del disordine. Mai zittirsi. Mai abbandonare la nave nonostante l’ancora disintegrata. Continuare a navigare. A peregrinare nello spazio-tempo che prudente fa il dito medio ai buchi neri. A vele spiegate. In direzione di boe di parodia accomodante e semplificatoria da investire ridacchiando. Ma non disperate cari lettori, a forza di lanciar minuscoli sassi post nel laghetto web, il laghetto si riempirà. E l’acqua fuoriuscirà. E finalmente anche il pomodoro nascerà. Là, pronto, maturo, in trepida aspettazione. Per chi lo raccoglierà.

* * *

beat(o) e scucito

superbowl.jpgL’aerostato di cuoio cucito staffilò l’aria turbinando su se stesso il pubblico pagante la bocca spaziosa contenente aspettazione sgolato strillo in stand-by imbacuccato dallo screensaver della quiete pronto a sciogliere watt e microrganismi sparati nell’aria illuminata a giorno dai fari in formazione gli occhi trincerati dalla fede sciarpata lo stomaco sbarrato dall’incertezza dello spostamento in realtà pilotato dall’urto del sinistro violentissimo investigava l’oggetto volante armonico in coordinato abbinato con la probabilistica festosità e l’avverabile illusione di una neo contiguità con la rete di bianco vestita adornata di urla e punteggio e numeri e risultati e cori e stuoli di chiacchericci al bar sotto casa e la palla globosfera traguardata da ottantamila umanità inquadrate e animata da moti interiori e punteggi esteriori indimentica di pedate e testate prima di scaraventarsi ove era stata indirizzata dal superbo mancino alzò un attimo lo sguardo ironico verso il centuplicarsi dei pigli agognando il momento qualche ora dopo in cui avrebbe finalmente assaporato il tocco tenero dell’erba la riverenza umida della rugiada e l’immobilità del firmamento in un luogo irreale di magica disarmonia, sotto lo sguardo d’orde di schienali plastificati ormai raffreddati e travestiti di seriale numerazione. Immobile. Dalla sua culla ovale di cemento.