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in appendice, Quello è papà che era il più forte in Europa: Saverio Fattori intervista Stefano Mei

Saverio Fattori, Acido lattico, Gaffi, Roma, 2008, 158 pp., € 11,00

«Centoventi uova sbattute al muro, solo quelle che non si rompono diventano pulcini di campione. Il resto è frittata, iscritti alla maratona di New York nelle mani di astuti Tour Operator». È questa l’impietosa istantanea dello sfondo su cui galleggia la punta mediatica dell’atletica agonistica secondo Saverio Fattori, giunto con Acido lattico alla sua terza prova, dopo l’esordio di Alienazioni padane e il feroce ritratto “a gamba tesa” degli anni Ottanta di Chi ha ucciso i Talk Talk?

Scrittore “informato dei fatti”, corridore amatoriale («non va né piano né forte. Va»), Fattori adotta alcuni stilemi tipici del nuovo neo-realismo dell’ultima generazione letteraria (la situazione dispersiva, le relazioni precarie, la forma-passeggiata) per raccontare la vita risucchiata dall’«inferno della perfezione inutile» di Claudio Seregni, l’io narrante che cerca l’evasione dalla medietà insignificante della propria esistenza nella realizzazione di un corpo da olimpiadi. La scelta di questo io narrante che non può permettersi codici etici, che accetta senza remore la spirale prestazione-doping può sembrare spiazzante, soprattutto quando siamo costretti, tirati dentro il romanzo, a confrontarci con la sua mentalità fascistoide negli scampoli di vita quotidiana, ma soprattutto nella dimensione agonistica: «È profondamente ingiusto che un atleta si ammali. Il suo organismo ha retto e riprodotto prestazioni fuori dalla norma e non può cedere minato dagli stessi agenti patogeni che debilitano l’umanità media».mei_cova.jpg Una mentalità adeguata all’ambiente sportivo irritato dalla supremazia degli atleti di colore che abbattono i record, ma non sono amati dagli sponsor: «Vanno come treni, ma non s’impigliano nell’immaginario collettivo. La gente fatica a distinguerli uno dall’altro. Per forza vincono, sono africani. Sono negri. O quasi». Ma proprio qui sta il punto di forza del romanzo: come nelle precedenti opere (ma anche in Cattedrale, una “Bowling a Columbine” in una fabbrica padana), Fattori ha la capacità di portare il lettore in un mondo gelido, pervaso da relazioni deboli e fittizie, e lasciarlo senza il supporto di una morale consolatoria o di un finale edificante. La costruzione di un corpo perfetto ha come prezzo la recisione delle relazioni affettive, il disinteresse per l’altro, la rinuncia al piacere, la progressiva crescita della paranoia (uno dei topos narrativi di Fattori): un mondo alienato, popolato da alienati, prodotto da relazioni e pratiche alienanti. Un mondo postfordista, dove il paradigma della fabbrica, della precarietà, della guerra di tutti contro tutti si estende all’intera società, senza lasciare angoli immuni. Un mondo che non vediamo in televisione dietro i servizi sulle Olimpiadi, pervaso da una microfisica del controllo, della misurazione e quantificazione di ogni gesto, dell’occupazione della mente da parte di un’ossessione totalizzante: «L’atletica ha un potere narcotico. E si prende tutta la mia vita, il resto è corollario al punto centrale: il giorno della gara». Il mondo delle corse di provincia dietro l’illusione di una convocazione alle Olimpiadi, dei medici che utilizzano gli atleti come cavie – «Pechino 2008 è lastricata di pezzi di merda» – è il correlativo oggettivo di una realtà puntualmente descritta, ma anche allegoria potente della società del controllo, della pervasività di un micropotere che giunge sino alla vita stessa, e il cui artefice è il soggetto stesso, che passo dopo passo costruisce se steso con feroce determinazione: «L’espressione che più detesto è vado contro natura: L’adattamento all’usura organica aumenta la parte liquida del sangue e ammazza i globuli rossi. L’Epo ristabilisce il numero dei globuli rossi, visto che la natura lasciata sola fa cazzate, avara com’è». L’Epo è il terzo farmaco più diffuso dopo l’aspirina e il valium: una realtà che non si spiega con i soli atleti professionisti, che coinvolge praticanti semi-amatoriali, corridori della domenica, palestrati d’ogni tipo. «Qualunque persona con un’intelligenza media sa che un atleta professionista di uno sport serio è praticamente un tossicodipendente», afferma il narratore, lasciando intendere che per gli ultimi corridori “puliti” bisogna risalire ai tempi di Donato Sabia e Stefano Mei: ma dietro i grandi atleti, risultato finale di una pratica medica accettata ancor più che tollerata, c’è la massa delle cavie che sgomitano all’interno di un mondo che concepisce la pratica sportiva solo come selezione senza appello per quelli che «ai primi ostacoli si sono disgregati, non hanno retto alle piccole delusioni dei cambi di categoria, agli infortuni dovuti all’aumento dei carichi di lavoro, ai raduni collegiali. Non hanno voluto recidere legami di amicizia, amorosi o familiari. Sul piatto hanno lasciato pochi resti e hanno mollato». A qualcuno è andato anche peggio: ad esempio a Fulvio Costa, giovane mezzofondista di talento «che nell’82 crepò in un letto d’ospedale dopo il morso d’un cane, qualche giorno dopo l’antitetanica. Contemporaneamente qualcuno iniziava cavalcate mondiali e olimpiche. Svuotati di sangue proprio per reintrodurselo arricchito, o comunque privo delle tossine di mesi di allenamenti. Pulito. Troppo pulito. Ripulito anche di anticorpi. Qualcuno crepava e qualcuno volava, braccia segaligne al cielo, occhi nerissimi, spiritati, il solito delirio di onnipotenza». Chi ha orecchie per intendere può farlo: per gli altri c’è la favola del campione cresciuto a pastasciutta e dei medici che giungono ai vertici dello sport e dell’Università: «La valigetta conteneva ampolle sacre, sangue benedetto. A pochi giorni dalla gara il miracolo si compiva nel rito della trasfusione. L’emoglobina accendeva di nuovo le cellule che impazzivano ordinate. Quattro, cinque giorni dopo, i media avrebbero onorato un nuovo campione. Il nuovo campione con le medaglie al collo avrebbe ringraziato i carboidrati, le lasagne della mamma».

[Scarica dal sito de iQuindici i romanzi di Saverio Fattori]

Appendice: Quello è papà che era il più forte in Europa
Saverio Fattori intervista Stefano Mei

Hai vissuto da protagonista l’Atletica di fine anni Ottanta. Il tuo titolo Europeo dei 10.000 metri risale a Stoccarda 1986. Cosa è cambiato in questo sport a vent’anni di distanza?

La cosa strana è che è cambiato meno di quanto si possa immaginare. Rimane lo sport più universale e semplice, fatto di gesti naturali che ci riportano alla nostra parte animale. Correre, saltare… il fatto che siano gesti così riproducibili e che non hanno bisogno di sovrastrutture rende tutto maledettamente difficile… difficile vincere medaglie a livello mondiale o olimpico, come abbiamo visto a Pechino. Una atleta del sud del mondo non avrebbe possibilità di salire su una Formula 1. Bolt è vicino dall’essere DAVVERO l’uomo più veloce del mondo. Più di quanto Schumacher possa essere potenzialmente il pilota più abile.

Si può ancora “inventare” qualcosa nelle metodologie di allenamento o tutto è affidato all’evoluzione genetica e alla farmacologia?

Io penso di si, anche se ho capito che tu vuoi sottintendere il contrario. Si può “limare”, fare prove, test, confrontare analisi dei dati, riconoscere gli errori, rischiare nuovi programmi di allenamento. E ‘questo il bello di questo sport, di ogni sport. Ci potrebbe essere confronto e competizione tra diverse scuole di pensiero. Come succedeva ai tempi di Cova, Antibo e del sottoscritto. Oggi c’è troppo fatalismo, non si sperimenta nulla, ci si affida troppo alla farmacologia e si è persa la fantasia delle cose normali. E pensiamo che i fondisti africani siano inattaccabili.

Quando penso a un atleta professionista, penso a parole come “disciplina” e “controllo”. A una vita piuttosto triste, anche se oggi vediamo nuotatori e schermidori alimentare il gossip nazionale, sfilare in passerella. Comunque credo che un atleta professionista in generale possa concedersi poche variabili. Cerca di smontare la mia tesi… hai rimpianti? Soffrivi di privazioni? Scappavi spesso dalla pista di La Spezia e dal cronometro del tuo allenatore Leporati?

Io avevo fama di scansafatiche e scapestrato.Ero un bel ragazzo e qualche serata in discoteca non era un problema. Non mi sono fatto mancare nulla Ma in pista ero un professionista, mi affidavo completamente al mio tecnico Federico Leporati, in atletica non si inventa nulla, certo prediligevo i lavori agili, di velocità a quelli di resistenza, non mi piaceva fare troppi chilometri a ritmi mediocri, volevo la brillantezza e la qualità. La madre di Sebastiano, il mio primo figlio, era una maratoneta. I maratoneti per me sono “pazzi”, non li capisco, arrivano distrutti vanno aldilà della mia idea di fatica. Forse in termini scolastici di me si poteva dire “il ragazzo potrebbe fare di più”. Non ero un secchione. Però mi divertivo…

I ragazzi africani dominano tutte la gare, dagli 800 alla maratona. Per non parlare del cross ( le corse campestri). Ho visto qualche iberico punteggiare di bianco la pattuglia nera. Andavano dal famigerato medico spagnolo… e se oggi fosse impossibile arrivare all’eccellenza mondiale senza usare il doping… prendila come una provocazione. Lo chiedo a te che sei stato forse l’atleta più dotato geneticamente che il mezzofondo europeo ha conosciuto (8.06 nei 3000 metri a 16 anni…)

Non è solo questione di doping, i ragazzi dell’occidente ricco hanno mollato l’atletica e tutto ciò che è fatica. Non voglio parlare solo di me, penso ad esempio a uno come Gennaro di Napoli, un talento enorme. Oggi uno come lui se la potrebbe giocare alla pari con i ragazzi di colore, magari nelle gare da medaglia, senza curarsi del record del mondo. Un di Napoli nella finale dei 1500 della finale di Pechino sarebbe salito sul podio.

Come erano i rapporti umani tra atleti? Nell’ambiente giravano voci, che si “curava” e chi no…

Beh, con Alberto Cova il dualismo era forte, oggi siamo amici, allora ci salutavamo appena. E’ naturale. L’egocentrismo di noi atleti è smisurato. Deve essere così. Al di là delle voci, c’è stato un periodo in cui pensavo che Alberto fosse davvero superiore a me. D’altronde era un atleta con una gran cervello e una grande personalità ed io, fino all’84, non sapevo leggere le gare con buona lucidità… Non è solo questione di organismo, come tu lasci intendere nel tuo libro. Poi di gara in gara gli arrivavo sempre più vicino, l’atteggiamento mentale rimane determinante, ho trovato fiducia e l’ho battuto.

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un paio di casi di doping nel mondo della corsa su strada, due casi che mi sembrano rappresentativi. Niente doping di Stato, due “cani sciolti” arrivati al giro della nazionale (Barbi) e uno alla soglia (Petrei) affidandosi a medici personali. Non è che i “cani sciolti” sono sacrificabili? Esiste ancora in Italia un sistema doping di Stato? Ha ancora senso rischiare? Mi sembra che il materiale umano in Italia sia talmente mediocre nelle ultime generazioni che forse il rischio non vale la candela… nemmeno con l’Epo arriverebbero a battagliare nei grandi meeting mondiali con keniani e etiopi…

Sono stato membro per quattro anni del Consiglio Nazionale Coni e del Consiglio della Federazione di Atletica Leggera, in realtà, ufficialmente, non esistono “pianificazioni demoniache” a livello delle federazioni e del resto il Coni Spende molte risorse nell’Antidoping. Ma riconosco che tutto è su un filo, tutto è molto complesso, del resto il tuo libro è perfetto per descrivere certe dinamiche. Mi sembra piuttosto documentato e in generale è vicino alla realtà. L’uso di farmaci dopanti per un’atleta è davvero una forte tentazione. Molti atleti sono fragili, insicuri, bambinoni che si mettono in mano a stregoni dalla forte personalità che decidono per loro. Ma non credo che ci si possa difendere nel 2008 dopo che si è risultati positivi asserendo che non si era al corrente degli ingredienti di un certo integratore… fragili si, ma non deficienti. Se un atleta arriva a fare risultati da nazionale in tarda età, se va più forte a trent’anni che a venti… beh, forse qualche domanda la Federazione prima di convocarlo dovrebbe farsele. E fargliele… Molto poi dipende dall’allenatore, a livelli alti ne hai praticamente uno personale, che diventa un maestro di vita quasi in senso orientale. A me è toccato Federico “Chicco” Leporati che aveva un sua idea di atletica pulita, una specie di crociata. Forse abbiamo vinto poco, oggi lavoro non campo di rendita. Ma non ho rimpianti.

Non è un segreto che molto dello sport italiano ricorresse alle preziose “cure” di Conconi a Ferrara. E’ storia vecchia, ma tu come atleta che ha fatto scelte diverse è rimasta un po’ di rabbia?Quello è papà che era il più forte in Europa nel 1986. Con la vitamina C. E basta.