di Alessandra Daniele

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Uno dei più radicati luoghi comuni sulla fantascienza è che parli soprattutto di alieni, anzi ”marziani”, cioè omini verdi o calamari giganti, e perciò non di esseri umani, non di noi. Ma chi sono davvero gli alieni della sf? Chi c’è dietro le maschere scagliose, le chele, i tentacoli, gli artigli, proiezione visibile dei tratti ancestrali della nostra psiche? La risposta è ovvia.
L’eccezionale talento per il quale Jack Vance (John Vance Holbrook, 1916) è considerato un maestro della sf è in particolare la capacità di creare civiltà aliene straordinarie, immaginose e complesse quanto accuratamente cesellate con la precisione d’uno studioso in grado di compendiare biologia, sociologia e storia, associandole a un umorismo elegante e tagliente, al gusto per l’intreccio avventuroso, e a uno stile sapientemente evocativo.

Un’ attenzione per il linguaggio intessuta anche nella costruzione di ogni sua singola cultura aliena. Da creatore di mondi, come dio (e il diavolo) Vance è nei dettagli che, minuziosamente rifiniti – dalla variante d’un intricato rituale alla particolare sequenza di colori d’una livrea – contribuiscono a dare un’eccezionale consistenza di realtà anche alle sue creazioni più visionarie. Abbastanza da edificare una magnificente e solida architettura di saghe quadridimensionali e romanzi singoli ma interconnessi in modo ipertestuale (come ben rappresenta il personaggio”trasversale”del poeta folle Navarth).
Cicli multiformi come l’onirica e crepuscolare science-fantasy de La terra morente (“The dying earth”, 1950-1984) nel quale un pianeta terra giunto alla fine dei tempi vede, alla fioca luce rossastra del nostro sole che si spegne, le vicende degli ultimi sopravvissuti mescolare avventura e leggenda, scienza e magia, tra le inquietanti rovine di mille civiltà. Quadrilogie come quella di Tschai (1968-1970), pianeta gigante e multispecie brulicante di meraviglie ma soprattutto di insidie, che il protagonista terrestre dovrà esplorare interamente, dalla vette alle viscere, come in una sorta di Divina Commedia rovesciata, prima di poter rivedere le stelle. Suggestiva e ricchissima galleria di culture e civiltà, che nasconde il proprio segreto più grande al proprio livello più profondo, come la mente umana.
Cosa sono infatti le società aliene di Vance, se non maschere per i mille volti della società umana? Maschere che svelano però, invece di nascondere. Come L’ultimo castello (“The Last Castle”1966) sarcastico ritratto d’una aristocrazia decadente e conformista, imbozzolata in una ragnatela di assurdi rituali sociali, intellettualmente sterile, e capace ormai solo del colonialismo più ottusamente arrogante. E che perciò si ritroverà assediata da una moltitudine di alieni in rivolta decisi a non lasciarsi più dominare, e capaci di usare come arma anche il loro stesso corpo. In Crociata Spaziale (“Emphyrio”, 1969) è invece una feudale oligarchia di signorotti alieni a sfruttare gli umani come classe subalterna produttrice di beni di lusso per il mercato galattico, privandoli della maggior parte del frutto del loro lavoro, e mantenendoli rigidamente sottomessi e inquadrati in un contorto sistema di obblighi e divieti sociali e religiosi. Un capolavoro che associa all’affascinante sciarada fantascientifica un’allegoria politico-economica profondamente incisiva e attuale. Come dimostra anche la più ferrea delle proibizioni imposte dai padroni alieni agli umani: quello di libera duplicazione e diffusione dei manufatti, e dei manoscritti, reato per il quale si rischia anche la morte. Una sinistra e strumentale sacralizzazione del copyright. E sarà proprio una leggenda epica riprodotta ”illegalmente” a ispirare il protagonista di Crociata Spaziale alla ribellione.
Benché noto soprattutto per le sue narrazioni più lunghe, comprese le saghe fantasy come la rutilante Lyonesse (1983-1990) Vance riesce a dispiegare tutto il proprio talento anche nello spazio di un racconto. Perfetto esempio Il Faleno lunare (“The Moon Moth”, 1961) emblematica avventura di un maldestro inviato terrestre su un mondo nel quale è la maschera – stavolta in senso letterale – che si porta sul viso a esprimere e conferire lo status sociale, aristocratico per le più eleganti e sfarzose, misero per le più semplici e povere, e dove quindi girare a volto scoperto desta più scandalo di qualsiasi nudità. L’uomo, intrappolato in un intrigo science-mistery, scoprirà sulla propria pelle quanto il potere di queste maschere, cioè del ruolo sociale che rappresentano, sia sottilmente in grado di plasmare l’identità di colui che le porta, e persino i disegni del suo fato. Un’allegoria che ha poco da invidiare a Pirandello.
Dopo essersi dimostrato anche ottimo autore sia di mistery classici (con lo ”pseudo” pseudonimo di John Holbrook) sia della corposa miscela di thriller, mistery e space-opera del ciclo dei Principi Demoni (1964-1981), oggi Vance vive in un ritiro immerso nella quiete e nel verde sognati dal protagonista del suo beffardo, malinconico, geniale racconto Il mondo di Ullward (“Ullward retreat”, 1958). Ma se a Ullward non bastava la proprietà di quasi un intero pianeta per sentirsi abbastanza ricco agli occhi di parenti e amici (ancora risonanze pirandelliane) gli infiniti mondi di Vance, le sue infinite maschere rivelatrici dei nostri infiniti volti, dimostrano quanto la letteratura fantastica sia abbastanza ricca di potenzialità da vincere ogni luogo comune.