di Giuseppe Genna

pascalecoverminimum.jpgNon avevo mai letto un libro di Antonio Pascale. E avevo fatto male, malissimo. Di Pascale avevo esperito soltanto una curatela: quella del primo Best Off, l’annuario edito da minimum fax. Ora, a lettura terminata di questo romanzo breve che è S’è fatta ora (minimum fax, € 9.50), suppongo che andrò a prendermi tutti i precedenti titoli di Pascale e me li leggerò, compatibilmente con gli allucinanti tempi che mi impongono fatiche e fibrillazioni di un certo peso. Perché è vero che Pascale è uno dei migliori prosatori italiani e perché il suo procedere apparentemente calmo, digressivo per aneddoti che vengono minuziosamente spalancati, la sua scrittura così calda e così feroce al tempo stesso, questo elemento fabulistico insomma, chiudono un buco che nella narrativa italiana contemporanea rimaneva aperto: quello della funzione Lodoli, per stare al secolo scorso: funzione che andava aggiornata.

Il parallelo con Lodoli non è motivato dal punto di vista tematico e nemmeno fantastico. A prescindere dal fabulismo dell’ultimo Lodoli, c’è la scrittura piana eppure a scarti del primo Lodoli, quello privato-civile di Diario di un millennio che fugge – e già a questa latitudine, qualche arco voltaico scatta tra quanto ho letto di Antonio Pascale e Lodoli medesimo. Tuttavia ho parlato, rispetto alla contemporaneità (intesa proprio come tale: questi ultimi due o tre anni) di una funzione-Lodoli rimasta scoperta. Giulio Mozzi, credo, ai suoi esordi tentò, non so quanto consapevolmente (credo molto consapevolmente) di farsi carico di questa funzione, che è sospensiva rispetto all’ideologico, una sorta di epoché stupefatta del continuo evento che è il mondo, e che parte da un “io” che si autoconosce come finzione narrativa eppure condivide ben più di una peculiarità con l'”io” effettivo scrivente – conosciutosi come finzione, non si autoannulla, ma richiama l’altro come appoggio di verità (e, a volte, l’Altro). La natura di Giulio Mozzi, però, a detta mia ed esclusivamente mia, non è quella: la scrittura di Giulio Mozzi tende all’universalità attraverso operazioni non microscopiche bensì macroscopiche sull’immaginario, sul possibile e sul fantastico, ed è il motivo per cui Giulio Mozzi è in potenza un grande romanziere, ma di un romanzo che più antimozziano non si può. Restava dunque vacante il luogo di una scrittura che, facendo perno sul privato, cercasse di colpire un universale umano da definirsi “orizzontale”: pascale.jpgcioè senza pregiudiziali sulla quaestio trascendenza-immanenza. Tale scrittore è a mio avviso Antonio Pascale.
S’è fatta ora non è altro che una serie di iniziazioni, la memoria rimeditata, ma senza il trauma del trauma: cioè non si avverte, soprattutto sul piano stilistico, la volontà di potenza – che quasi sempre finisce per condurre al barocco o quantomeno all’espressionismo – di risolvere il nodo psichico, il legaccio emotivo. Non per questo accade che in Pascale l’impotenza di sé sia esibita con continuità prodigiosa perché armonica: è proprio il soggetto che, per stare a una metafora del libro, gioca al Tangram, un vecchio rompicapo lanciato dall’Espresso in età di formazione della mia generazione, un Cubo di Rubik con minore potenza memoriale – e il soggetto del libro di Pascale riesce a completare il Tangram non sapendo, per ispirazione distratta, senza calcolo. Una metafora che vale per tutta la scrittura di questo straordinario prosatore (e lo definisco straordinario perché, sul piano linguistico, una realizzazione così piana, così pacata, così partecipe senza metastasi nel cuore altrui è cosa rarissima): Pascale approccia le storie opponendo tesi e antitesi della vita vissuta, per condurre il confronto tra questi due elementi fino a esiti paradossali (e spesso il paradosso fa inarcare il sorriso), ricadendo quindi in un insoluto che è tale solo per la logica, mentre il flusso della vita è avvenuto e la chance del racconto, l’unica rimasta in mano allo scrittore, è l’enunciazione di una vita in cui, inesplicabilmente e misteriosamente, si è fatta ora.
Questo processo è visibile nitidamente nel pezzo titolato La miglioria della morte, che sarebbe un ossimoro allargato, ma non lo è per come passa attraverso il serchio della scrittura di Pascale: la miglioria della morte (cioè, quel breve periodo in cui il morituro sembra addirittura guarito dalla peggiore delle patologie, è allegro, poi all’improvviso crolla e muore) viene dilatato a tema che investe non soltanto l’iniziazione al tema universale della morte, ma spostato all’iniziazione amorosa, altrettanto universale. Per smontare definitivamente la retorica di Pascale, va detto che uno dei termini dell’antitesi – in questo caso la morte – finge di essere un universale iniziatico: il piccolo protagonista non attraversa alcuna iniziazione rispetto alla morte, nei confronti della quale appare già formato, e quindi il gioco tra opposti può venire dislocato altrove o, nel caso del racconto in questione, ovunque.
L’impatto emotivo di una simile retorica, accompagnata da uno stile all’altezza e che mai rischia di mangiarsi la cosa detta, è una sensazione di calma e tranquillità che certi meridionali spartiscono con i buddhisti. L’autore che, insieme a Lodoli, per versi assai distanti, mi pare da richiamare in questo senso, non a caso, è campano come Pascale, ed è Antonio Franchini. Laddove in Franchini, forse per motivi socioambientali, la calma è comunque culmine di una disillusione ubiquitaria, il crisma della scrittura di Pascale è paraddossalmente trascinante come la suspence di certi spettacoli per bambini: semplici (ma quanto lavoro dietro quella semplicità…) e irresistibili nel mantenere altissima l’aspettativa e l’attenzione del pubblico.
In definitiva, S’è fatta ora è un libro che dovrebbe correre per lo Strega e contenderlo a Troppi paradisi di Walter Siti (qui la recensione su Carmilla): sono i due libri migliori dell’anno, fatto salvo Gomorra, caso a parte per motivi completamente diversi, di poetica e di allucinante stimolazione e ricaduta sulla realtà.