di Riccardo Valla
[Qui e qui le precedenti puntate]

Terzo dossier: Il Mare è rosso

Rotolo di papiro in caratteri geroglifici
XVI-XIX dinastia

jahve.jpglo Kharabil, scriba della casa e della famiglia del Faraone, dopo avere per qualche tempo abbandonato la nuova veste e le nuove costumanze ed essermi riaccostato agli strumenti della mia arte, ora ho ripreso la mia maschera di pastore e ho lasciato questo scritto nel luogo convenuto con il mio allievo Tut perché lo porti al tempio di Amun. Ho gettato la sabbia attorno a esso per proteggerlo dalle magie avverse: né le creature della notte né quelle dell’aria o dell’acqua osino toccare questo rotolo protetto dall’arte che il dio Thoth ha insegnato al primo scriba e che da lui è stata trasmessa fino a me attraverso una linea ininterrotta di scribi sacri. Chi avesse a leggerlo contro la parola del destinatario vaghi per sempre nel mondo al di là del tramonto dei sole, i demoni lo facciano a brani e il suo spirito non viva.

Innanzitutto, la faccenda della consegna e del ritiro dei rotoli. Penso che si potrà utilizzare l’attuale nascondiglio anche per le prossime comunicazioni, e per molto tempo. Il principe Moses è tornato quest’oggi dai misteriosi conciliaboli con il suo dio sul cocuzzolo della montagna e nel sorprenderci a festeggiare la fertilità del dio Api se n’è uscito con una scarica di insulti per tutti, promettendo di farci “marcire quaggiù per almeno otto mani di anni”. Per qualche tempo, dunque, temo che il mio indirizzo resterà questo. Ma andiamo con ordine.
Nelle mie precedenti corrispondenze ho già riferito di come, per mantenere sul principe una sorveglianza discreta, mi sia recato nella regione di Ramesse e sia riuscito a infiltrarmi tra i locali gruppi di muratori — da lui conosciuti a causa della sua attività di palazzinaro durante la lottizzazione di Pitom e attualmente in cassa integrazione straordinaria dopo avere terminato di costruire quella città — e di come il principe sia tuttora in combutta con un pericoloso mago e agitatore, quel tale Harun che molti davano per collegato all’eccezionale ondata di maltempo che ha recentemente colpito l’Egitto.
Magia nubiana della peggior specie, se date retta a me. I due sono sempre insieme e il principe ha addirittura preso la volgare abitudine di questi operai, che quando sono liberi dal lavoro si danno del “fratello” in quanto, come dicono loro, “i liberi muratori sono una fratellanza”. Un principe che dà del fratello a un ciarlatano! Se dalla Valle dei Re udrete levarsi strani rumori, la spiegazione è semplice: sono le mummie dei suoi antenati che si rivoltano nel sarcofago.
Lasciata dunque la città di Ramesse, io e i muratori abbiamo seguito Harun e il principe nella direzione del sole nascente, e per tutta la strada il ciarlatano ci ha annoiato con le sue magie da quattro soldi: nuvole di giorno, e di notte colonne di fuoco, come se già non facesse abbastanza caldo. Io ho provato a dargli la baia: “O sapiente — gli ho detto — se vuoi davvero compiere un prodigio degno del più grande scriba, fa’ comparire una vasca piena d’acqua fresca”, ma lui mi ha guardato di traverso e ha fatto finta di non capire.
Giunti in vista del mare, tutti hanno protestato perché temevano di morire affogati, ma il principe ci ha fatto segno di tacere e ci ha detto che il suo dio personale, il dio che non si può nominare, avrebbe aiutato il proprio popolo, facendoci raggiungere senza alcun rischio l’altra sponda. E poiché qualcuno insisteva per saperne di più. ha preso la parola Harun, che ha spiegato più diffusamente: “Il dio di Israele è padrone del cielo e della terra e del mare. È in ogni luogo e sente ogni pur minimo pensiero di ciascuno di noi. Ha già annunciato al vostro liberatore, il principe Moses, che vi farà camminare sulle acque. Riconoscete questo bastone?” Lo ha sollevato perché lo potessimo vedere e ha proseguito: “L’ha dato Dio stesso al principe, e nelle sue mani si è animato ed è diventato un serpente. Poi, quando lo ha levato verso il cielo, Dio ha mandato sull’Egitto la pioggia di rane e le altre piaghe. Ora fermerà le onde e le trasformerà in un’enorme distesa di cristallo di rocca del Punt, dura e resistente come la pietra. O forse temete di non riuscire a camminare su un pavimento di pietra?”
Naturalmente, tutti hanno scosso la testa. E tutti, in verità, eravamo ansiosi di vedere il prodigio, me compreso, perché se a far magie con i bastoni e con le rane sono capaci anche i bambini, davanti a un dio che dispone di simili quantità di pietre preziose c’è da levarsi tanto di cappello (anche se avevo il sospetto che, con tutti quei segreti e quell’anonimato, il dio del deserto avesse parecchie cose da nascondere; secondo me, era un semplice demone nubiano in trasferta).
Poco dopo, arriviamo al mare e i primi della fila si fermano sulla battigia, nella speranzosa attesa che il mare diventi di pietre preziose, o magari di farina impastata con il miele, chi può mai dire. Il principe si fa largo in mezzo a loro, sale allegramente su uno scoglio, alza le braccia al cielo e invoca il suo dio. Ossia lo invoca in silenzio perché non bisogna nominarlo, come già detto. Poi fa un cenno d’assenso ad Harun, il quale tende il bastone, lo appoggia sulle onde, sorride e annuncia con degnazione che possiamo passare.
“Vado io!” grida immediatamente uno dei suoi tirapiedi, un certo Giosuè. Un tizio che adesso passa per un gran sapientone, ma che prima di darsi alla politica faceva lo scalpellino, so ben io. Fa un passo avanti e sprofonda fino al ginocchio.
“Fermi”, dice allora il principe, e ripete l’invocazione, perché forse non ha scandito bene le parole. Harun tende di nuovo il bastone, tocca l’acqua e fa cenno all’ex scalpellino di procedere. Rassicurato, Giosuè fa un altro passo e sprofonda fino ai fianchi.
Il principe comincia a essere un po’ stizzito, ma ostenta ancora sicurezza. Ripete per la terza volta l’invocazione (“Che non mi abbia sentito?”) e per la terza volta ordina ad Harun di abbassare il bastone; Giosuè fa un altro passo nel mare. E sprofonda fino al petto.
Io mi stavo già chiedendo se Giosuè non sperasse, sotto sotto, di poter imparare dai pesci l’arte di respirare l’acqua, ma a quel punto il principe Moses ha incominciato a gridare. Non si capisce molto, quando grida, perché da bambino s’è bruciato la lingua giocando a leccare le braci accese, e quando parla in fretta farfuglia. È appunto per questo motivo, dice lui, che il suo divin protettore gli ha dato come portavoce il “fratello” Harun. Comunque, tra un’imprecazione e l’altra deve avere pronunciato il nome segreto del suo dio (nome che non trascrivo: a nominare i demoni c’è sempre il rischio che compaiano) perché all’improvviso è spuntata una legione di angeli alati, a forma di sfingi e di serpenti, che si sono messi a battere le ali come pazzi, in modo da fare un gran vento che spingesse via le acque.
Io mi sono limitato a inarcare le sopracciglia di fronte a una soluzione così barocca per un problema tanto semplice, e, pur aspettandomi il peggio, ho seguito gli altri.
In effetti, come sospettavo, è stata proprio uno schifo di traversata. Invece di camminare tranquillamente sulle onde come promesso, ci è toccato passare sul puzzolentissimo fondo del mare, tra i sassi, la melma, i pesci morti, le alghe marce, le infiltrazioni d’acqua e gli schizzi che ci bagnavano da capo a piedi, mentre gli angeli ansimavano, sudavano per la fatica e diventavano sempre più trucidi, ci trattavano con maleducazione e ci insultavano perché non facevamo abbastanza in fretta (“Sbrigatevi, tartarughe del Nilo! Mica possiamo stare qui tutto il giorno”.) E non sto a descrivere il chiasso assordante di quelle ali.
Ma io sono troppo snob. Diversamente da me e in quanto gente facile da accontentare, i miei compagni muratori non facevano che gridare al miracolo, a quant’è grande il dio di Israele e via sperticando. Poi, mentre, guadagnata l’altra riva del mare, ci asciugavamo e riprendevamo il fiato, Moses e Harun hanno approfittato dell’occasione per farci un pistolotto, con una faccia tosta incredibile.
“Avete visto la potenza del dio di Israele, che ha mandato i suoi cherubini e i suoi serafini “ ossia rispettivamente le sfingi e i serpenti, ma i gusti son gusti “per salvarvi dal mare”, hanno detto, e poi le solite promesse condite di minacce, pavoneggiamenti e altre cialtronerie. Due veri guitti, ma si capiva chiaramente come entrambi, che stupidi non sono, si siano resi conto della débâcle del loro dio, il quale mantiene le promesse in modo approssimativo e se non ti sgoli non ti dà ascolto. Insomma, uno schifo di attraversamento e uno schifo di miracolo: secondo me, il dio da non nominarsi deve ancora fiutare molto incenso, prima di riuscire a far camminare qualcuno sulle acque!
Finito il pistolotto, abbiamo ripreso il cammino nel deserto e l’indomani siamo arrivati a un pozzo, dove ci aspettavano alcune tribù di nomadi della terra di Madian, di quelli che non ridono mai e che per fare l’amore si nascondono in fondo alla tenda. Ospitali, certo, ma, anche lì, tutti sembravano in grande confidenza con il principe: “caro cognato” qui, “caro genero” là, manate sulle spalle e, come fine occasione mondana, la gara di rutti dopo ogni portata. Si sa che, a dargli un dito, gli zotici si prendono tutta la mano, ma non mi aspettavo che un principe di sangue reale, anche se un po’ chiacchierato, potesse fare racca con gente così ignorante: sento agitarsi non solo le mummie della sua dinastia, ma anche quelle delle dodici che l’hanno preceduta! Contento lui.
I1 “caro suocero” ci ha anche trovato un lavoro di tipo, per così dire, agrituristico: custodire le sue pecore, e da quel giorno siamo rimasti nei pressi del pozzo, a tener compagnia agli scorpioni e ai toporagni e a menare a spasso le greggi. Qui siamo e qui rimarremo finché, dice Harun, non avremo perso le brutte abitudini egiziane. E quando le avremo perse, soggiungo io, sarà anche peggio, perché il principe non ha fatto mistero delle sue intenzioni: vuole andare nella terra di Canaan, dove le donne si tingono le zizze con l’inchiostro e gli elegantoni portano la barba lunga fino al petto e piena di vermi.
Pare che quel territorio appartenga al nuovo dio del principe, o che quel dio lo abbia preso in affitto dalle divinità locali, non ho capito bene. L’uno e le altre, comunque, più il tempo passa, più si rivelano dèi di seconda categoria, parvenu della divinità, appartenenti a una classe assai inferiore a quella delle nostre divinità del Nilo. Come poteri, certo, ma soprattutto come stile ed eleganza. Via!, mentre i nostri si occupano del sole, del fiume, del cielo, della vita delle anime e portano nell’aria, sul loro carro abbagliante, il disco stesso del Sole, i nuovi dèi che il principe Moses ha conosciuto nei suoi viaggi non sanno neppure costruire un salvagente magico e mostrano una predilezione per cose poco presentabili come le rane, le locuste, le mosche, il sangue, le pustole e quant’altro c’è di abominevole.
Ma il calamo si è consumato, l’olio della lucerna sta per finire ed è bene che concluda questa missiva, perché devo ancora affidarla al suo nascondiglio prima che i demoni della notte s’accorgano che ho usurpato la luce al buio.
Firmato, lo scriba (e pecoraio pro tempore) Kharabil

P. S. Qui pare proprio che non sia destinato a succedere niente di interessante, almeno per qualche decennio, e, con il prolungarsi dell’ozio, noto con preoccupazione che alcune pecore mi stanno già guardando con occhio lascivo. Attendo solo una parola per tornare a Menfi, dove potrò rispondere a voce alle vostre eventuali domande e sussurrare all’orecchio del Gran Sacerdote il nome segreto del dio del principe. Non si sa mai, scritto su un amuleto potrebbe essere e4ffiace contro le mosche, le rane e le locuste. E col passare del tempo c’è il rischio che me lo dimentichi… Anzi, per evitare tempi morti, porterò tutti i giorni il gregge dalle parti del nascondiglio, dove ci sono i rovi: non preoccupatevi per il mio disturbo, le pecore ne vanno pazze.