di Roberto Sassi

[Gli interventi in ricordo di Riccardo Bonavita, come questo dell’amico Roberto Sassi, non saranno corredati da foto o illustrazioni, in segno di lutto per la scomparsa di uno dei più affezionati collaboratori di Carmilla.] (V.E.)

La morte di Riccardo mi ha addolorato, ma non sorpreso. L’avevo inaspettatamente incontrato pochi mesi fa, in un reparto psichiatrico, un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), una bolgia
infernale, dove cadono in massa i più deboli e reietti, ma non solo.
Aveva subito tenuto a specificarmi che lui era un TSV (cioè un ricoverato volontario), perché si era fatto travolgere dal lavoro che stava svolgendo, conoscendo prima momenti di grande esaltazione intellettuale, che poi erano rifluiti in una profonda depressione. Ebbe parole di grande fiducia nei medici che lo stavano curando, e di affetto per gli altri ricoverati.

La lucidità introspettiva, la scioltezza dell’eloquio, l’affabilità dei modi, contraddicevano aspramente la fissità dello sguardo, la rigidità della postura, e soprattutto il fatto di essere finito in quel posto, che di diagnosi e cura ha solo il nome, inerme fino al punto da accettarne il gergo, lo stigma.
Uscii con un profondo senso d’angoscia e di impotenza, chiedendomi come quell’intelligenza con cui mi ero più volte confrontato, su Marx, Bachtin, Brecht e tanti altri, nel retrobottega di una libreria o in un’aula universitaria occupata, potesse essersi volontariamente reclusa nel più solido residuo della più totale delle istituzioni. Quale mostro lo aveva spinto a riversare le sue speranze nelle mani di quei macellai, buoni solo a somministrare fiumi di psicofarmaci?
Non credo sia possibile che il solo stress intellettuale porti al suicidio. Per la depressione reattiva che normalmente segue l’estro creativo, possono bastare un po’ di vino o di hashish,
una birra o una tisana di iperico, più difficile sopportare la depressione che si cronicizza per
l’accumularsi di frustrazioni che la burocrazia universitaria (perfettamente funzionale ai tagli alla
spesa pubblica nel settore) impone alle intelligenze più brillanti di questo paese.
Quello di cui parlo è ben noto, si chiama baronia, precariato a vita, lavoro gratuito super-qualificato, censura, gerarchia, servilismo: l’ambiente universitario.
Chi lo conosce meglio di me, prenda la parola…
Mao dice che chi si uccide non vuole morire, vuole vivere, ma qualcuno gli ha tolto ogni speranza. Io so chi ha tolto la speranza a Riccardo, chi la sta togliendo a migliaia di giovani intellettuali. E’ una questione di dignità, prima ancora che di reddito.
Ribellarsi è giusto!