snowcrash.jpgCome segnalato da MarsilioBlack, sta avendo notevole successo la versione webbizzata del Metaverso. Si scarica un eseguibile, lo si affianca a una cartellina, si attende una specie di prompt al DOS, e via!, ci si può muovere in un mondo parallelo e insidioso. Il Metaverso è in realtà una creazione letteraria, uno degli ambienti in cui si svolge la geniale narrazione Snow Crash di Neal Stephenson (in Italia, edito per ShaKe). Nulla ha a che vedere, il Metaverse stephensoniano, con questa specie di chat per blogger desiderosi di qualche colore truetype in più e tutti tesi alla scopata sperata. Il Metaverso letterario è una delle più potenti allegorie di fine XX secolo, uno straordinario contenitore proiettivo che automaticamente manda a monte la proiezione del desiderio e la sua consolidata strategia del godimento. Tra l’altro, è anche la torsione di genere che mise fine alla letteratura cyberpunk. Come del resto ampiamente motivava il bellissimo intervento di Francesco Scalone, pubblicato proprio su Carmilla (versione 1.0), parecchio tempo fa, e che qui riproponiamo.

snoriginal.jpgSNOW CRASH
(Il Metaverso è un posto pericoloso. Attenzione, potreste bruciarvi il cervello!)
di Francesco Scalone

REQUIEM FOR THE CYBERPUNKS
Niente paura. Si è trattato solo di un grande amore necrofilo

Se si è trattato di amore allora si può perdonare. Anche se c’era di mezzo una sporca faccenda di necrofilia. Lo so, certo, non sta bene andare a cercarsi la ragazza proprio al cimitero. Ma se si tratta di amore, di quello vero… Può passare.
Cyberpunk è morto quasi subito. E’ spirato verso la metà degli anni Ottanta, forse poco dopo . Poteva crescere, diventare un bambino forte e robusto. Invece no. Dopo un paio di gemiti (di quelli tosti naturalmente, di quelli che fanno rizzare i capelli in testa all’ostetrica) è stato fatto fuori. Game over, così va il mondo. L’assassino? Non lo so, forse un delitto senza movente, magari un suicidio. A volte capita, sofisticate strategie di marketing culturale possono ammazzare in pochi istanti, senza che la vittima si accorga di niente. Si muore e poi si vaga zombizzati per il pianeta ripetendo le ultime frasi che si è detto negli istanti finali di vita. Intanto i libri vendono, vendono. Vendono. E così arrivano gli imitatori degli imitatori, e i capiscuola (quelli che per primi avevano visto tutto) iniziano a imitare i se stessi di qualche tempo prima. Fatto sta che è difficile dire come siano andate veramente le cose.
Scrivo questo graffito su carta a cinque anni dalla fine del terzo millennio, in un lunghissimo tramonto di fine Giugno. A Ponticella di San Lazzaro, Bologna. I fatti di cui parlo sono accaduti, invece, nella preistoria degli anni Ottanta, a migliaia di chilometri di distanza, in un altro continente. Sebbene il pianeta sia lo stesso, il mio come punto di osservazione non è certo privilegiato. Anzi. A disposizione ho soltanto qualche frammento: non è facile procurarsi riviste e testi in lingua originale. La terra, nonostante tutto, è ancora un posto molto grande, e scrutare nel buio è piuttosto difficile, anche con un bel paio di occhiali da miope come i miei.
Be’, non so come siano andate a finire veramente le cose, ma da qui, dalla periferia dell’impero, dopo il passaggio di un vero e proprio uragano di cazzate, ho la netta impressione che alla fine Cyberpunk se la sia cavata. E’ un discorso di vitalità letteraria, di biologia dell’immaginario. E poi c’è sempre la questione dell’innamoramento necrofilo. Si può benissimo continuare a credere nelle visioni elaborate da un movimento letterario anche quando questo si è definitivamente estinto. Dalla metà degli anni Ottanta il mondo è cambiato. Il crollo del muro di Berlino e la disgregazione dei due blocchi economico-militari, e poi l’accelerarsi dei fenomeni di ibridazione tecnologica, sociale e biologica, le sporche guerre dei totem e i nuovi tribalismi, gli scemi del villaggio globale alla conquista del pianeta. Miliardi di schiavi e di corpi (biomassa) pronti per essere divorati, una losca storia di cannibalismo che coinvolge l’emisfero sud e nord del mondo. La mutazione irreversibile dei corpi e delle menti immerse – alla deriva – nel magma informativo incandescente. Quanto appena scritto credo abbia a che fare con i movimenti tellurici che avvengono nel Reale. Qualcosa di planetario. Eppure sono anche alcuni dei temi che hanno attraversato i testi ormai canonici dell’ortodossia cyberpunk. Ma non solo.
Snow Crash tratta di tutto questo . Sono convinto che questo libro sia vivo, che abbia un cuore pulsante e perciò valga la pena parlarne. E se fosse iniziato il post-cyberpunk ?

BIP BIP
Niente paura. Sta per cadere una grossa incudine sulla vostra testa

Neuromante incontra Tom & Jerry. Snow Crash attraversa a iper-velocità l’immaginario cartonistico americano: in un cartone animato straniero “un lupo mostruoso, tipo Will Coyote con la rabbia, viene ripetutamente giustiziato con i metodi più violenti che neanche la Warner Bros. riuscirebbe a immaginare. E’ un cartone animato snuff “. Ma non si tratta solo di citazioni, lo stesso Metaverso, l’equivalente del cyberspace gibsoniano, fonda le sue regole su una sorta di fisica cartonistica: nel Sole Nero, il locale più esclusivo della Strada, “prima di gettarli fuori, si possono colpire gli indesiderati sulla testa con mazze giganti o schiacciarli sotto casseforti che cadono d’alto”. Gli stessi personaggi sembrano più i protagonisti di un fumetto o di un videogame: Y.T. con il suo skate hardcore; Hiro Protagonist, l’hacker freelance nonché più grande guerriero di spada del mondo; Raven, il mutante supercattivo che va in moto trasportando nel sidecar una bomba atomica collegata al cervello.
Soltanto alcuni dei protagonisti di una vicenda caleidoscopica fatta di inseguimenti, scontri a fuoco, duelli di spade, e bombardamenti con armi da guerra. Elementi testuali, mutuati anche da territori extraletterari (fumetto supereroistico, cartoon, B-movies americani e asiatici, sf e spystories spazzatura, sonorità musicali hip hop e hardcore) che arrivano a definire la cartografia di un grande romanzo d’azione ipertrofico. Una strategia tipica del postmoderno americano da Pynchon in poi: accanto alla costruzione dell’opera scorre parallelo un tentativo di esplorazione sistematica dei territori più disparati dell’immaginario. E il collante utilizzato per fondere questi elementi, in Snow Crash, è rappresentato dalle armi micidiali dell’ironia, del tentativo parodico e del grottesco. Una precisa scelta tattica. Il Terminator del film omonimo riprende la visione siderurgica di un cyborg dal corpo di acciaio e dotato di armi spettacolari: la sua missione è salvare il futuro dell’umanità. Il Recapitator di Snow Crash ha il corpo blindato in una corazza di aracnofibra e rinfor-gel che protegge come una pila di guide del telefono, usa una micidiale pistola sparafreccette, e ha un compito di vitale importanza: consegnare la pizza. La prospettiva non è comunque inedita, è sempre esistito un filone di fantascienza delirante: penso a Douglas Adams e alla sua Guida galattica per gli autostoppisti. La vicenda di Y.T. che finisce “al fresco” mi ha ricordato il pianeta prigione descritto in Venere sulla conchiglia di Kilgore Trout (pseudonimo di Farmer e non di Vonnegut) . Anche se qui la deriva dei personaggi non avviene in un tipico contesto spaziale, ma attraversa a grande velocità il paesaggio urbano di una Los Angeles del futuro (o del presente?). In certi passaggi, nel testo affiorano alcuni riferimenti letterari più o meno espliciti: Moby Dick, Jack London – l’Alaska e il nord, fredda frontiera senza legge – e un naufragio più vicino, per le scene esilaranti, a Tre uomini in una barca che a Robinson Crusoe.

L’ECONOMIA POLITICA DELLO SNOW CRASH
Ancora una sporca storia di droga

Skate e moto dotate di ruote intelligenti con i quali surfare nei vortici del traffico e lanciarsi lungo le rampe di asfalto della città. In realtà l’intento di Stephenson è quello di perlustrare il vasto paesaggio etnico-geografico di Los Angeles. Ogni gruppo etnico ha costituito i quartieri dei propri residencenclave in vere nazioni franchise: Nova Sicilia, Narcolombia, Super Hong Kong, Porte del Paradiso del Reverendo Wayne e così via. Le nazioni franchise, che godono della stessa personalità giuridica di uno Stato con una propria moneta e una propria polizia-esercito, sono la metafora di quanto accade nella città degli angeli. Commentando la crescente diversificazione polietnica di L.A., ha scritto Federico Beliz: “Il terzo mondo non è più separato dal mondo superindustrializzato; i quartieri di cristallo e di aria condizionata sono gomito a gomito con i quartieri della disperazione e del crack. Ovviamente questo gomito a gomito deve essere tenuto sotto controllo da una selva sempre più fitta di poliziotti, pubblici e privati. Ogni forza sociale ha il suo esercito” . E nel romanzo di Stephenson, la balcanizzazione dello spazio urbano diventa un paradigma che si proietta sul resto della società: guerre militari e finanziarie tra comunità tribali high tech sempre più agguerrite e atomizzate. In Snow Crash (pag.199) Ng, l’inventore dei Rattoni/cani da guardia corazzati a propulsione nucleare, spiega che la struttura sociale di qualsiasi Stato-nazione è in ultima istanza determinata dal suo sistema di sicurezza. Nella difesa di un territorio la scelta tra un cane cyborg o un esercito di vigilantes non è neutrale. E tutto questo incarna quanto Mike Davis osserva riguardo all’ossessione dei sistemi di sicurezza e all’architettura di controllo poliziesco dei confini sociali, una proliferazione repressiva causata in primo luogo dalla difesa delle classi più ricche, tipica dell’America reaganiana, dei propri lussuosi stili di vita: “L’apocalisse pop hollywoodiana e la fantascienza sono state più ricettive politicamente, e più realistiche, rappresentando l’indurimento programmato della superficie urbana legato alla polarizzazione sociale dell’epoca di Reagan” . In uno scenario simile ha fatto la sua comparsa il crack, una tra le sostanze più tossiche conosciute dalla scienza e sicuramente la più devastante di tutte le droghe, capace di ridurre in schiavitù quanti la consumano e in grado diffondersi come un contagio. Neil Stephenson ha immaginato lo Snow Crash: un virus costruito per diffondersi a livello ematico, sotto forma di droga, ma anche elettronicamente attraverso il Metaverso. Gli hacker sono in pericolo, perché una bipmap, simile alla nebbia di un video guasto, passando dal nervo ottico riesce a sconvolgere le strutture profonde del cervello. Milioni di uomini sono stati già infettati e ridotti in schiavitù, sono quasi tutti sul Raft, l’immensa zattera fatta di navi e imbarcazioni di ogni tipo che dopo un giro del mondo ha raccolto i disperati di tutto il pianeta. Grazie allo Snow Crash, la super droga virale, sono tutti schiavi di L. Bob Rife, il miliardario monopolista padrone del parco media planetario. Presto invaderanno l’America. I riferimenti alle pagine più inquietanti delle peggiori utopie negative possono sembrare di maniera. C’è però un elemento di originalità che va oltre l’immagine delle antenne innestate nel cervello degli schiavi telecomandati: dietro l’emigrazione/invasione di cui sono protagonisti si nasconde l’ennesimo dispositivo antropofago dell’economia-mondo. L’America aspetta i profughi del Raft a fauci aperte per divorarli. Spiega L. Bob Rife: “Be’, la funzione del Raft è portare nuova biomassa. Per rinnovare l’America. Per la maggior parte i paesi sono statici, tutto quello che devono fare è continuare a fare bambini. Ma l’America è come questa grossa e vecchia macchina sferragliante e fumogena, che procede raccogliendo e inghiottendo qualsiasi cosa penetri nel suo campo visivo. Si lascia dietro una scia di immondizia lunga un chilometro. Ha sempre bisogno di nuovo carburante”.

CYBORG E AVATAR
Un’altra vecchia storia di corpi

La fantascienza degli Ottanta è stata un formidabile laboratorio della visione in grado di esasperare molte idee già precedentemente elaborate. L’uomo artificiale appartiene alla storia del genere, il cyberpunk ha innalzato il cyborg a paradigma di una condizione post-umana: il corpo immerso nei flussi del reticolo planetario dell’informazione ha acquistato un nuovo statuto. Ma lo scenario descritto non si è fermato agli effetti delle tecnologie pervasive, guadagnando sul terreno dell’immaginario consapevolezze ancora più radicali: la presenza disincarnata dell’hacker nello spazio della simulazione elettronica ha rappresentato la tappa finale del processo di mutazione del corpo. L’abbandono dell’involucro organico e la conquista di un nuovo supporto immateriale, forse più maneggevole. Gli avatar, i corpi immateriali del Metaverso descritti da Stephenson, rispecchiano questo procedimento. Trasparenti fantasmi di byte fuori dal Sole Nero, possono essere scelti tra tanti modelli disponibili. Nell’ambiente allucinatorio indotto elettronicamente nel Metaverso si può decidere di diventare un Clint o una Brenda, i cloni avatar prodotti serialmente, oppure si può rifiutare l’omologazione e scegliere di diventare un grande pene parlante, di avere una supernova di luce al posto dei capelli oppure di rimanere semplicemente se stessi.