di Daniele Barbieri

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Yousef Wakks, Terra mobile, Cosmo Iannone editore (iannonec@tin.it oppure 0865 414694), 220 pagine, € 12,00.

“Il cosmo è come un vaso frantumato in una miriade di schegge, nell’ambito di uno spazio privo di sensibilità dinamica. Ogni scheggia equivale a un pianeta, e il sole è l’altoforno che brucia la volontà dell’uomo, il quale misteriosamente sembra aver perso il proprio percorso nei sentieri interminabili del Creatore”. Nel 1995, quando nel carcere di La Spezia Yousef Wakkas scriveva — nel racconto Il treno che viene dal mare – questa strana/bella definizione del cosmo (un po’ alla Giordano Bruno, un poco alla Philip Dick) di certo non poteva immaginare che la frase sarebbe finita in un’antologia pubblicata dall’editore Cosmo Iannone. Ai lettori non è dato sapere se, molto tempo prima, papà e mamma Iannone avessero proprio scelto quel nome insolito o se abbiano invece subìto un classico “refuso” burocratico (al posto del più consueto Cosimo); fatto sta che Cosmo sembra il nome fatto su misura sia per l’editore di Wakkas, il quale pur imprigionato vaga con la sua scrittura in un quasi infinito numero di mondi, sia per questa nuova collana che si chiama “Kumacreola, scritture migranti”.


I 18 racconti di Terra mobile da una parte confermano la piena maturità di scrittura di Wakkas — nato in Siria, dunque ora si esprime in un lingua matrigna – ma dall’altra insinuano che questo autore sia sul punto di esplodere … con un capolavoro. Lui stesso nella prefazione si riferisce all’espansione linguistica come a “un detonatore pronto a innescare la mia fantasia in un diaspora di schegge impazzite”. Esplosivo risulta soprattutto nell’incantato La forma del rispetto e nel racconto che dà il titolo all’ antologia. Il primo ci trascina negli stentati approcci fra un immigrato e un’indigena (nativa italiana, se preferite), desiderosi di raccontarsi le loro storie ma capaci di farlo solo nella forma di “verbali di polizia pieni di omissis”. Ma siccome la vena surreale di Wakkas non si smentisce (quasi) mai ecco arrivare un serial killer che però uccide un personaggio di Dostoevski — “tanto la gente dell’800 non è fatta come noi” – ed ecco persino il sentenzioso investigatore Hercule Poirot. Il secondo inizia facendoci incontrare “Bu Ras, lo zingaro testone”, poi ci fa saltare in aria fra generi, luoghi e tempi senza svelarci il finale, “conservato nella zona proibita del mio cervello”.

Si scappa dalla miseria ma anche da se stessi; solo la commissione dei saggi stabilisce la giusta distanza fra la poltrona del Pm e quella del difensore (siamo in Comparse); si sta seduti ma ci si sente in piedi (in Una giornata da co-leone); i ruoli fra poliziotti e clandestini si rovesciano in un attimo (nel quasi fantasy Ritratto futuro Melting Pot); il millenium bag inghiotte una tunisina e restituisce Lara Croft; nelle pagine di Lupi in fabula sembra di essere scivolati nel cervello del miglior Matheson…. Il giro del giorno in 80 mondi nel quale Wakkas ci fa navigare è costituito da ben riconoscibili tribunali, questure e celle ma anche dal ritorno di ninfe; ci incamminiamo sui percorsi obbligati e banali d’un detenuto in semi-libertà ma ci perdiamo con lui nei “dubbi sulla mia reale esistenza”.

Nella breve premessa, Wakkas ironizza sul processo creativo: come la necessità di “sottomettermi ai vizi dei vari personaggi che nascevano come i funghi dentro di me” o il faticoso trovare le parole “dopo tante acrobazie ad oltranza”. E senza parere piazza la stoccata: “Pensai fosse opportuno alternare i ruoli fra autore e personaggio, in modo che entrambi avessero la possibilità di condividere lo stesso spazio concesso loro dalle autorità competenti, adoperando lo stesso permesso di soggiorno, lo stesso appartamento e la stessa auto comprata a rate”. E anche — ma questo Wakkas lo tace — la stessa cella. Perché questo cinquantenne siriano è senza dubbio un grande scrittore — potenzialmente un grandissimo – ma è ora marchiato dall’essere un immigrato (dunque un senza patria) e un detenuto.

Scritture migranti appunto, come dice il sotto-titolo di questa bella collana Kumacreola, diretta da Armando Gnisci: nella lingua bambara (dell’Africa occidentale) kuma vuol dire parola mentre è solo dalla mescolanza – una società e una cultura sempre più creole, meticce — che può arrivare nuova linfa. La collana dunque si propone come “laboratorio e officina, dove operiamo al futuro” per usare la definizione di Gnisci. Contemporaneamente ai racconti di Wakkas esce anche Via della decolonizzazione europea, un saggio di Gnisci del quale converrà riparlare, mentre si annunciano altri 5 testi: il prossimo sarà Qui e là con i racconti della brasiliana — da tempo immigrata in Italia — Christiana de Caldas Brito. Insomma questa Kumacreola sembra un buon posto per curiosare, annegare, resuscitare, mescolarsi, forse ritrovarsi. Sia lode anche a Cosmo Iannone. E speriamo che se ne accorgano in molti.