di Franco Pezzini

Fabio Massimo Franceschelli, Introduzione alla mia morte, pp. 240, € 19, Del Vecchio, Bracciano Roma 2025.

Evidentemente una parte di me lavorava in silenzio dietro le tende della coscienza mentre scrivevo questa lettera e ora mi accorgo di aver messo a fuoco quel che vi dicevo prima: qual è il sapore della vita, in questa isolata e selvaggia sommità collinare? È il sapore dell’infanzia.

C’è stato un tempo in cui l’avvicinamento al Divino avveniva con l’ascesa a una montagna – o a un colle, suo corrispondente simbolico – dal Nebo dove scompare Mosè allo stesso Golgota. In una società laica moderna, il fenomeno si ripropone per l’avvicinamento al nocciolo ultimo di noi stessi, magari in attesa di consegnarci all’unica certezza storica che ci accomuna, appunto la morte: dove però il termine ultimo aggrega un’intera nebulosa di altre morti, di altri sigilli alla nostra esistenza – alcuni persino farlocchi, grotteschi.

Ciò a dire che il ruolo della montagna, in questo bellissimo, colto e profondo, a tratti struggente o invece ironico romanzo di Fabio Massimo Franceschelli, narratore, drammaturgo e critico di vaglia (laureato oltretutto in Storia delle religioni, dunque i sottotesti simbolici di quanto sopra gli sono chiarissimi) è fondamentale: e dimentichiamoci fiumi di retorica narrativa vuota su vette & dintorni, molesta come il riuso decontestualizzato delle vecchie canzoni montagnine, perché qui invece tutto ha un senso e un peso specifico, le parole affilate come bisturi dal temperino di un’intelligenza – appunto – drammaturgica e di descrizioni puntuali e lessicalmente scintillanti. Dove la scelta della puntualità linguistica nel dettagliare le realtà della natura, della foresta e della montagna, finisce con l’essere anche un tentativo di fare i conti con l’indefinibilità della Natura, la sua cinica indifferenza e la possibilità tuttavia di un ascolto misterioso suggeritoci dall’istinto, senz’altri chiarimenti o input. Una puntualità linguistica frutto d’altronde anche della conoscenza diretta di un Appennino umbro-marchigiano ricco di natura e cultura, selvaggio di foreste e punteggiato di castelli e pievi romaniche. La copertina di Maurizio Ceccato in cui due soavi creaturine da bosco disneyano, Tippete il coniglietto e Bambi il cerbiatto, si passano provocatoriamente una bomba a mano già dice qualcosa.

Il libro appartiene al magnifico catalogo della romana Del Vecchio, che inanella una serie di romanzi di grande qualità: e di Franceschelli questo è il secondo, dopo l’apprezzatissimo Italia di qualche anno fa.

Il sessantaquattrenne Carlo Castello che sceglie di ritirarsi nella solitudine (non proprio un romitaggio, ma quasi) di Villa di Cima è un patriarca atipico, un celebre ex-cronista di guerra che sceglie di avere finalmente una casa borghese dopo infiniti tetti transitori, riaggregando attorno a sé una famiglia – ma soprattutto una paternità – da sempre trascurata per l’immersione continua in altre morti, in conflitti, drammi e violenze del grande mondo. Introduzione alla mia morte è propriamente (e fatalmente) il titolo del libro-memoria che intenderebbe scrivere. A suggerire qualcosa del contenuto di quel memoir sovvengono gli inserti epistolari di Carlo a destinatari diversi, che punteggiano il romanzo. Se ogni personaggio di questa storia deve confrontarsi con un proprio fantasma, quello di Carlo è la guerra, il demone che prende dentro e porta via, innescando una serie di sensi di colpa e recriminazioni.

Il patriarca non avrà tavole della legge da portar giù come Mosè, ma gli toccherà regolare almeno una serie di rapporti coi propri cari. Con la seconda moglie Sonia, medioevista tesa a scrivere un romanzo su un antico eretico, che tradisce Carlo in modo modico e distratto e non ha alcuna intenzione di trapiantarsi nell’eremo; coi figli, il devastato ex-project manager Sandro che ha involontariamente causato la morte del proprio bambino dimenticandolo nell’auto, poi ha tentato vanamente il suicidio e sopravvive (male) ai sensi di colpa, e il politicante fuffaro Stefano, belloccio, vitalistico e vanitoso, leader del movimento populista Futura in grottesca (e prevedibile, nella nostra Italia) espansione; con il fratello regista Lorenzo. Ciascuno di loro porta con sé espansioni alla propria vita, figli, amanti: e le feste di Natale (il romanzo si articola su tre stagioni, da autunno a primavera) saranno occasione per una serie di confronti.

Nella dialettica tra quattro adulti che costruisce la trama per accostamenti (come definito da Carmen Verde) si dipana così una serie di nodi. Carlo, ferito dalla memoria, tenta di “ricostruire” Sandro, ferito dal suo tragico dimenticare, come a saldare il debito nei suoi confronti. Di Sonia non si indaga la femminilità ma la riflessione sulla chiamata a scrivere un romanzo e l’amore per il medioevo. Stefano, espressione di una politica sempre più grottescamente spettacolare e nel segno del paradosso (a sposare Gramsci e la destra, Pasolini e il suprematismo bianco nel ripudio rabbioso delle categorie novecentesche) liquida la memoria per un futuro roboante e seduttivo… Anche se non è troppo probabile che la destra (tale è) laica di Stefano – un riferimento tra i molti, Pim Fortuyn – possa attecchire in Italia, i suoi cloni ombelicocentrati già si sgolano sui social: ma sappiamo dalla storia quanti regimi abbiano trovato comodo fare il salto della quaglia per raggiungere poltrone, e il movimento Futura non sarebbe né il primo nell’ultimo. Dunque con qualche ritocco d’inventiva nostrana potrebbero pure essere loro, in un futuro non troppo lontano, a strappare il tappetino sotto i vari Meloni, Salvini eccetera e rottamarli malamente. Le pagine sull’ascensione in mongolfiera e sull’improbabile duello in cui Stefano offre il peggio di sé rappresentano comunque gioielli d’ironia.

Composto in una lunga gestazione a partire dal lockdown, il libro concretizza l’intenzione dell’autore di evadere da quella claustrofobia verso spazi aperti, in un recupero per nulla naïf ma pensoso di una dimensione naturale sempre più scippata dalla rivoluzione tecnologica: una scrittura dell’uscita e del mistero che comporta uno scrutarci dall’esterno.

L’orso che incontra Sonia (strano, in quella zona non ci sono) è quasi simbolico: esce dai bestiari del suo medioevo per spuntar fuori a spaventarla. Ma alla fine scappa. Forse, nonostante tutto, i nostri fantasmi sono più pericolosi di lui.