di Franco Pezzini

Cristiana Astori, Tutto quel viola, prefaz. di Steve Della Casa, pp. 400, € 18,90, Fratelli Frilli, Genova 2023.

Mentre leggo, il cielo è grigio: a colpo d’occhio, pare lo stesso grigio che spesso vedevamo sulle nostre teste nella Torino degli anni Settanta.

Eppure non è proprio così: per ritrovare davvero l’immagine di quel cielo coperto, denso di fumi industriali, ci si può procurare il geniale Hanno cambiato faccia di Corrado Farina (1971), e puntare alle prime scene, con fiumane d’auto sotto la cappa di smog precedente una serie di normative antinquinamento. Farina (1939-2016), che persona deliziosa: lo ricordo in un paio di occasioni in cui, a un passo da me, avrei potuto trovare l’eroina Susanna Marino di Cristiana Astori – una volta (2008) mentre il regista presentava da Fogola il suo romanzo L’invasione degli ultragay. Una storia politicamente scorretta, un’altra al Circolo dei lettori (2009), in occasione di un ciclo di proiezioni e conferenze a lui dedicato. Nell’impossibilità, ai giorni nostri, di trovare produttori, i suoi romanzi – spiegava con grande dignità – erano i suoi nuovi film. In Tutto quel viola, l’autrice lo richiama in scena molto bene, ma evidentemente si spinge oltre, fino a lasciare a me che leggo l’impressione di un tuffo atmosferico in quegli anni lontani.

Mi occupo raramente di polizieschi. Non sopporto “l’usato sicuro” che invece trionfa sugli scaffali del giallo da grande distribuzione, dove poliziotti umani, troppo umani vengono ammanniti per il brivido della divisa e l’estasi di un ordine tranquillizzante, paternalista, soavemente antilibertario. Mi piacciono i gialli antichi e mi piacciono quelli che comportano originalità e ricerca: per questo Tutto quel nero mi aveva affascinato, come poi le successive puntate della saga di Susanna Marino. Cristiana Astori scrive molto bene, si ammazza di ricerche per ricostruire uno sfondo in modo credibile – non solo costumi ma atmosfere, modo di ragionare… uno non può scrivere un romanzo storico di età romana imperiale dove il protagonista ragiona come James Bond – e lavora con competenza su un immaginario complesso anche perché fortemente condiviso, quello del cinema. Ma non solo su quello: qui per esempio, con un’incursione avventurosa, punta la prua nell’arte surfantica di una Torino ormai scomparsa, immaginando – inventando, ma in termini credibili – un nesso tra il pittore Lorenzo Alessandri (1927-2000) e un film perduto e morbosetto che di certa visionarietà lisergica degli anni Settanta sembra un distillato, il torbido Sortilegio di Nardo Bonomi.

La ricostruzione della vicenda, a cavallo tra quel passato e gli anni nostri, è condotta con un gusto artistico genuino, e tra l’altro conferma che i romanzi di Cristiana Astori sono romanzi fantastici almeno altrettanto che polizieschi: fantastico non è tanto un contenuto, quanto un modo di narrare, e in una storia dove zampettano i grotteschi pascal di Alessandri (come lui chiamava i suoi mirabilia, dalla dicitura della cartellina in cui originariamente li stornava dagli sguardi scandalizzati dei familiari) e gli omicidi seguono gli antichi rituali di esecuzione delle streghe, siamo in pieno fantastico di matrice gotica. Con un occhio al fantastico di un’epoca che gente della mia età può ricordare benissimo. Al punto che le pagine sono un po’ una chiamata di morti, e aggirandomi idealmente nella Torino d’epoca incontro i fantasmi. A partire dai miei.

Cos’era successo? Lungo il corso del lunare decennio Sessanta – un aggettivo che, a partire da una suggestione di Ornella Volta, Fabio Camilletti usa per il densissimo Italia Lunare. Gli anni sessanta e l’occulto (Lang, 2018) – ciò che al tempo era detto l’insolito restava un po’ sotto il pelo del discorso pubblico, emergendo solo attraverso voci di artisti (Landolfi, Buzzati, Fellini, Valerio Riva, appunto Alessandri…) o realtà culturalmente liminari come l’archeologia misteriosa di Peter Kolosimo o la cosiddetta clipeologia (l’archeologia dei dischi volanti, come emergenti in antiche raffigurazioni o quadri sacri). Consideriamo il boom planetario dell’horror marca Hammer dal 1957 ma anche, nel Bel Paese, la nascita di un horror indigeno molto interessato al tema della strega, la donna deviante, femmina folle o satanica, o vittima designata come in Sortilegio, e che anche in Tutto quel viola trova parecchio spazio. Donne come le incredibili figure dei quadri di Alessandri, che compendiano nebulose o doppie eliche in vertiginose riletture di qualche Grande Dea cosmica.

Però alla fine degli anni Sessanta, in rapporto con la Grande Contestazione e la rivoluzione sessuale – oltre che, va detto, al rilassarsi generale della censura, non solo su seni e siparietti sessuali ma sull’alterità di credenze – da ogni fenditura del suolo occidentale l’occulto sembra eruttare: è il grande Revival magico, annunciato alla televisione dall’avvio di sceneggiati come Il segno del comando (scritto nel 1968 e prodotto nel 1971, giustamente ricordato in Tutto quel viola) che portano sedute spiritiche ed esoterismo in prima serata, e tale da vedere in ogni numero di rotocalco almeno un cenno a pratiche medianiche, maghi celebri del passato o fenomeni paranormali. Per un ragazzino affamato di mistero e d’insolito qual ero si trattava di una pacchia. Il revival magico – con la sua propaggine presuntamente “scientifica”, la parapsicologia – detterà la linea di una stagione di sogni per tutti gli anni Settanta, e si esaurirà assieme alle altre utopie del decennio: negli Ottanta del riflusso e della Milano da bere, l’occulto tornerà a colare come aperitivo frizzantino tra le pieghe e le fratture della società italiana, ma non avrà più un reale spazio pubblico.

Negli anni Settanta, comunque, tra rotocalchi e giornali della sera, radio private, prime (piccolissime, locali) televisioni private, si sviluppa da brandelli di storie autentiche e grandi affabulazioni il mito della Torino magica, e quanto cova in città – si pensi all’azione tra i salotti sabaudi di un mentalista brillante come Rol – viene letto alla luce di una presunta antica tradizione con topoi ossessivamente riproposti: il passaggio di Nostradamus con nebulosa di profezie sulle città, la presenza di tre grotte alchemiche (dal significato discusso) cui si potrebbe accedere decrittando i simboli della Fontana Angelica in Piazza Solferino, la tolleranza dei Savoia in funzione anticlericale di una serie di credenze non allineate – quest’ultimo dato storico, almeno per una certa fase dell’Ottocento. Luca Rastello mostrerà in Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006) come la simbologia alchemica possa essere congrua, sul piano narrativo, a raccontare i sogni di trasformazione che in quella città fermentano negli anni Settanta tra i giovani, ma che i locali sotto i palazzi sabaudi fossero davvero addetti a esperimenti alchemici per conto della casa sovrana resta tutto da provare. Certo l’ex-capitale, nella seconda metà degli anni Settanta, vanta persino un negozio di articoli magici (in via Barbaroux, mi fermavo sempre a guardare la vetrina, mi affascinavano particolarmente i gessetti per tracciare il cerchio magico da evocazioni) e le sedute spiritiche – a Torino come ovunque – sono talmente frequenti da rendere temporaneamente credibile la bubbola sulla presunta rivelazione di “Gradoli” nel corso di una séance medianica con lo spirito di Don Sturzo quale luogo di prigionia di Aldo Moro. Per noi, adolescenti negli anni del ginnasio e del liceo, usi a vedere le librerie piene di volumi sul magico, un certo tipo di orizzonte è al tempo occasione di discorsi, scherzi, inevitabili sedute spiritiche.

Il fatto che Corrado Farina mostri vampiri a Torino non è strano: Furio Jesi, nel geniale L’ultima notte scritto nel corso degli anni Sessanta e pubblicato solo postumo (Marietti 1987), immagina Torino come città dell’ultimo conflitto tra uomini e vampiri, stirpe “altra” cui Dio ha concesso di riprendersi la terra maltrattata dagli umani (e che avrebbero il quartier generale nella torre Littoria di piazza Castello, mentre gli scontri assomigliano a quelli d’epoca in piazza). Nessi tra una città liminare come Torino e uno status liminare come il vampirismo sono stati evidenziati in parecchie opere narrative, e Astori stessa, prima di Tutto quel viola, ha dedicato un’altra quest di Susanna Marino – l’ottimo Tutto quel buio (Elliot 2018) – alla ricerca del perduto film Drakula halála, ambientandola appunto tra Torino e Budapest. Ma a prescindere dai vampiri (che in Tutto quel viola non ci sono), chi ha memoria degli anni settanta delle sedute spiritiche e del fiorire di esperienze artistiche anche un po’ sopra le righe (qui il folle film Sortilegio, 1970, una specie di sabba onirico su pellicola che in nessun altro periodo – salvo forse la Weimar prenazista – sarebbe stato possibile produrre) trova riferimenti ricchi e congrui. La parabola artistica degli gruppo Surfanta (1964-1972) di cui Alessandri è leader, nella Torino del boom ma anche del decennio lunare, è emblematica di come il fenomeno della cosiddetta Torino magica coinvolga a pieno titolo artisti e relative suggestioni, abbracciando quello che oggi definiremmo tout court il Fantastico: correttamente un antropologo esperto in cose torinesi come Massimo Centini nel recente Torino magica fantastica leggendaria (Il Punto – Piemonte in bancarella, 2017), strutturato a voci di dizionario, non si limita a riunire, come in genere accade, un centone di storie dalla doppia pista di tradizioni (variamente) antiche e leggende urbane postmoderne – le due anime cioè di un mito arcano torinese ampiamente costruito sui giornali, tale da muovere oggi un fatturato importante attraverso iniziative turistiche, esercizi commerciali e ovviamente produzione editoriale. A questo contenuto canonico Centini unisce anche una messe di riferimenti ad autori e realtà del Fantastico torinese letterario, pittorico, cinematografico, e del relativo fandom: a sottolineare in fondo la dimensione affabulatoria di tante storie, come reagenti assieme nel matraccio immaginale di una città-laboratorio. Il caso di Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria è del resto emblematico.

Tale è il contesto magmatico in cui il cattolico Alessandri, esponente – pare – della massoneria torinese, curiosus dell’occulto, dell’esoterismo e del macabro,  gioca a provocare attraverso affabulazioni goliardiche, come quella degli extraterrestri sul Musinè (altro topos dell’immaginario d’epoca, e legato a stretto filo alla Torino magica: una testimone eccellente di quella stagione, la scrittrice e giornalista Giuditta Dembech (morta ahimè pochi giorni fa) che apre un intero filone editoriale con il saggio popolare Torino città magica – per l’Ariete, 1978 – aveva già pubblicato Musinè magico – Piemonte in Bancarella, 1976 – rimasto un classico del genere). Ricordare oggi il gruppo Surfanta – rappresentato, oltre che da Alessandri, da Abacuc (Silvano Gilardi: celeberrimo e surreale il suo Rinoceronte assunto, 1969), Lamberto Camerini, Enrico Colombotto Rosso (i cui quadri tornano in Profondo rosso), Giovanni Macciotta, Mario Molinari e Raffaele Ponte Corvo – non è soltanto un’operazione vintage sul bizzarro, ma la doverosa riscoperta per le più giovani generazioni di una straordinaria esperienza immaginale e artistica.

È vero, una certa vulgata cialtrona ha fatto di Alessandri il presunto papa nero dei satanisti, ma sono frottole: e un colto esoterista come lui patisce sinceramente una simile banalizzazione del proprio profilo. A cavallo tra anni Sessanta e Settanta nasce anche la bufala sui presunti 40.000 satanisti a Torino che periodicamente echeggia ancor oggi, varata per opera di alcuni allegroni guidati dall’erudito Gianluigi Marianini (1918-2009) – che ricordo come persona di grande garbo e piacevolissimo commensale – e che riescono a piazzare la fantasiosa informazione addirittura su Stampa Sera, grazie pare alla complicità di Vittorio Messori. Romanzi sulla Torino magica non sono mancati, anche se il più classico la prende un po’ alla lontana: A che punto è la notte di Fruttero & Lucentini (1979), dove prevale piuttosto una dimensione criptoecclesiale da esothriller gnosticheggiante. Tutto quel viola presenta dunque carte tali da poter risultare tra i candidati migliori a il romanzo della Torino magica.

Va anche detto che in quegli anni (tra il 1968 e il 1972, sui calcola) nasce anche il mito dei due triangoli magici con vertici a Torino, e quello detto della magia nera – Torino, Londra, San Francesco – è direttamente debitore della lettura provincialotta di notizie come la nascita nel 1966 della Chiesa di Satana a San Francisco per opera di Anton LaVey, con la pittoresca novità della definizione di un “satanismo razionalista” o “ateo” (Satana come mera figura di ribellione a valori tradizionali e peculiarmente cristiani) che a Torino sembra  a tutt’oggi rappresentato (Chiesa di Satana di Torino, forse non più di 500-600 adepti). Certo, l’allegro LaVey uso a travestirsi da diavolone avrebbe riscosso poco successo nella Torino dell’esageruma nen. Tale tipo di satanismo è comunque diverso da quello “occultista” votato all’adorazione di Satana come entità (come per il Tempio di Set fondato da Michael Aquino nel  1975 – o per il gruppo che a Torino ha aperto contatti nel 1969 con il romanziere e folklorista francese Claude Seignolle) e dal classico luciferismo per l’adorazione di Lucifero come angelo diffamato. Quanto alla setta satanica femminile che appare a un certo punto nel romanzo, alcuni esempi sono attestati anche nell’Italia contemporanea: per esempio le Ierodule di Ishtar, della zona di Pescara. C’è poi (in Italia dal 1999), L’Ordine della Sorellanza di Lilith, gruppo lilithiano formato da sole donne, la cui età varia attualmente dai 18 ai 28 anni, in qualche modo vicino – ma senza confondervisi – al fronte della stregoneria. Su tale complesso mosaico Astori gioca senza perdervisi (è un romanzo, non un saggio di sociologia religiosa) ma sembrava il caso di dar conto delle sue letture.

La ricostruzione del romanzo è ovviamente di fantasia, ma una serie di aspetti appaiono credibili (senza spoilerare). Che per esempio il divulgatore Dario, belloccio strafottente e presunto esperto dell’occulto, confonda messe nere e culti crowleyani: il che ci riporta da un lato agli anni Settanta, quando una certa divulgazione non riconosceva tali distinguo, e dall’altro ancora adesso a tanta vulgata che considera Crowley semplicemente un satanista. Quanto al  termine “messe nere”, è stato usato nel tempo – specie sui giornali – per evocare anche riti molto diversi dal rituale noto con tale nome tecnico, una parodia blasfema della messa cattolica. Come Crowley spiegava ai giornalisti dei tabloid che lo etichettavano “Uomo più malvagio del mondo” (nell’epoca, si badi, in cui i grandi dittatori del Novecento si macchiavano di spaventosi genocidi, magari tra le acclamazioni dei “buoni” dell’epoca perché in grado di combattere l’ateo comunismo), lui non avrebbe potuto neanche volendo celebrare una “messa nera”, che richiede la presenza di un prete cattolico regolarmente ordinato e pervertito al culto diabolico. Non si tratta dunque di un limite nella ricostruzione (attentissima) dell’autrice, ma di un aspetto di costume di cui tener conto.

Alcuni ritratti consegnati dal romanzo sono poi impagabili. Quello divertito e complice di Steve Della Casa, destinato qui a una pessima fine, o appunto quello affettuoso ed elegante di Corrado Farina, protagonista di un’epoca del cinema davvero fantastica. Ma anche le scene, i luoghi di Torino: dalla zona delle villette della Crocetta, allo spazio sotto la Gran Madre dove si consuma l’adunata della setta attingendo a uno scenario must della Torino magica (la Gran Madre come luogo-simbolo dei presunti misteri graalici e magari egizi della città). Chiudo il romanzo genuinamente divertito, grato all’autrice e in dialogo con i miei fantasmi: i giri con gli amici nelle viuzze del centro storico fitte di storie magiche, la sosta davanti alla vetrina del negozio (ormai sparito da decenni) su oggettistica occulta. Malinconia canaglia su un’epoca della vita ormai lontana? Ci sta, ma niente affatto sgradita. Mentre qui fuori, nella notte viola, si aggirano i pascal.