di Gioacchino Toni

«È ironico che chi ce l’abbia su con alcuni [monumenti celebrativi] sia accusato di voler riscrivere o cancellare la storia; i monumenti stessi sono riscrittura della storia e sua cancellazione selettiva, farli e disfarli sono due facce della stessa medaglia, due manifestazioni opposte e simmetriche dello stesso discorso pubblico, politico, civile, su che cosa sia opportuno ricordare e che cosa no». Così scrive Arnaldo Testi, I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti (il Mulino 2023), riferendosi ai contenziosi sorti negli Stati Uniti attorno ai monumenti pubblici celebranti personalità o avvenimenti storici, più o meno lontani nel tempo, che, quando osservati attentamente, non possono che parlare del presente e al presente, palesandosi, a volte, come “fastidi della storia”, rimozioni che tornano e dividono, qua ed ora.

Edificati con enfatiche finalità celebrative, per poi spesso ridursi a presenze silenziose a cui nessuno presta particolare attenzione, quasi facessero da sempre parte dello spazio pubblico in cui sono stati collocati, se guardati con occhi attenti, a volte i monumenti sembrano improvvisamente riacquistare vitalità e raccontare un passato ancora divisivo. Nonostante gli episodi in cui negli Stati Uniti del nuovo millennio sono stati presi di mira monumenti a livello di massa siano stati davvero pochi, anche alla luce delle dimensioni del paese e della quantità di opere in esso presenti, questi fatti hanno creato accesi dibattiti all’intero del paese e interesse mediatico persino oltre i confini nordamericani.

Nella storia statunitense, ricorda Testi, la messa in discussione, anche risoluta, di un monumento non è affatto un fenomeno nuovo. Anzi, si può dire che sia tra gli atti fondativi della nazione visto che il 9 luglio 1776, a Manhattan, a pochi giorni dalla pubblicazione della Dichiarazione di indipendenza,  venne “patriotticamente abbattuta” la statua equestre del re britannico Giorgio III. Alla distruzione di quel monumento indigesto non seguì, come si sarebbe portati a pensare, un’immediata opera di monumentalizzaizone di massa; questa si diede piuttosto all’indomani della lacerante Guerra civile, quando si generò una vera e propria memorial mania comportante la disseminazione nel paese, dai centri urbani ai piccoli paesi di provincia, da parte di entrambe le parti in conflitto, di generali e statisti ritratti a piedi o a cavallo, semplici eroi sconosciuti e scene di battaglie da ricordare a prescindere dal fatto che queste fossero state vinte o perse. L’importante era ricordare e, soprattutto, celebrare.

A partire da allora, cioè da un momento divisivo per eccellenza come lo è una guerra civile, l’opera di monumentalizzaizone non si è più fermata. Di certo, tra fine Ottocento e inizio Novecento, ma così sarebbe stato ancora per molto tempo, ad essere celebrati furono uomini bianchi, in genere angloprotestanti, con qualche aggiunta di personalità delle nuove comunità immigrate europee. In rarissimi casi nei monumenti comparvero neri, asiatici e nativi americani.

La classifica delle assenze dai piedistalli monumentali collocati in luoghi pubblici è però guidata dalle donne, alle quali, fino agli anni Ottanta del Novecento, furono dedicate davvero poche opere. Se si esclude il ricorso, in circa duecento casi, ad astrazioni personificate femminili (la Giustizia, La Nazione, la Libertà…) o a tipi sociali generici (come le pioniere), i monumenti celebranti donne reali furono soltanto un’ottantina. Nemmeno l’ingresso delle donne nella scena civile e politica, ottenuto dal movimento suffragista a cavallo tra Otto e Novecento, e le mobilitazioni femministe degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso determinarono un aumento significativo di opere pubbliche dedicate a donne. Sarà soltanto a partire dagli anni Ottanta che – con l’affermarsi di ambiti di ricerca come gli women’s studies, la public history, la storia delle donne e di genere – si avrà la realizzazione, nel giro di quattro decenni, di circa duecento monumenti dedicati a donne e non solo bianche. È del 2000 il primo monumento a Rosa Parks a Montgomery, in Alabama, con la celebrata ancora in vita.

Per comprendere meglio cosa si agiti nel profondo degli animi che si scontrano oggi attorno ai monumenti storico-celbrativi statunitensi, secondo Testi occorre rendersi conto che quello che è in atto è un vero e proprio regime changes di tipo hard. Un profondo cambiamento di regime politico e sociale che lo studioso vede iniziare negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e tuttora in corso.

Come hanno fatto i cambiamenti hard, la Rivoluzione, la Guerra civile, ma con minore immediatezza, anche quest’ultimo mutamento ha prodotto novità rilevanti, fattuali e simboliche. Ha comportato sconvolgimenti demografici, culturali e politici, l’inclusione consapevole nella vita democratica di gruppi etnici e razziali, di genere e orientamento sessuale storicamente marginalizzati.
Sono quindi emerse nuove cittadinanze attive, di minorities non bianche e di donne soprattutto, con nuove prospettive sul passato e su chi ne siano o debbano essere gli eroi e gli antieroi nella memoria, anche nella memoria pubblica.

I contenziosi scoppiati attorno ad intitolazioni di strade, piazze ed edifici pubblici, a ricorrenze e festività civili si sono particolarmente acuiti nel nuovo millennio, soprattutto dopo il 2010, ed è infatti in questo periodo che si è dato il numero maggiore di casi di messa in discussione di monumenti celebrativi restati silenti per tanto tempo ed a cui nessuno sembrava più far caso. Per certi versi questo tipo di conflittualità scatenatasi attorno allo spazio pubblico ha palesato quanto, al di là della retorica ufficiale, costruita anche grazie ad Hollywood, gli Stati Uniti siano una costruzione politica e culturale più immaginaria che reale.

È dunque a partire da tali premesse che, nel suo volume, Testi passa in rassegna alcuni episodi conflittuali sorti attorno a monumenti in cui è possibile individuare non solo una guerra civile sempre più cruenta all’interno di un paese decisamente meno unitario di quel che sembra o viene raccontato, ma anche l’incredibile complessità identitaria che si è stratificata attorno a questo o quel monumento.

Se buona parte dei monumenti contestati all’inizio del nuovo millennio hanno a che fare con leader politici e militari confederali, eroi di libertà per tanti bianchi del Sud e difensori della schiavitù dei loro antenati agli occhi degli afroamericani, non sono mancate proteste nei confronti di opere celebranti personalità unioniste compromesse con la schiavitù. Ad essere prese di mira sono state anche opere con soggetti di discendenza africana effigiati con paternalismo e in posizione subalterna ai “liberatori bianchi”.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nel Sud, il proliferare di monumenti dedicati a personalità come il generale Lee, o anche minori, non è «un prodotto del lutto e del dolore, del ricordo collettivo dei caduti appena caduti a conforto dei sopravvissuti». Buona parte di queste opere non sono state edificate nell’immediatezza della fine della Guerra civile, bensì nel corso del primo ventennio del Novecento da parte di chi non ha conosciuto direttamente il conflitto. La statuemania meridionale, sottolinea lo studioso,

coincise con il completamento della segregazione razziale negli Stati della ex Confederazione, con le Jim Crow laws, con l’espulsione degli afroamericani dalla vita pubblica, con migliaia di linciaggi. Coincise cioè con il trionfo della maggioranza bianca sulla consistente minoranza nera, un trionfo che non c’era stato fino ad allora perché i neri, divenuti liberi cittadini con l’abolizione della schiavitù, l’avevano impedito con durissimi conflitti, non si erano fatti rimettere al loro posto tanto facilmente; ci vollero i trent’anni della Ricostruzione perché la loro resistenza venisse domata.

A tale spirito si rifà anche il “monumento di celluloide” realizzato da David W. Griffith nel 1915: il film Nascita di una nazione, che contribuirà, non poco, alla rinascita novecentesca del Ku Klux Klan. Ad esaltare la supremazia bianca postschiavitù concorre anche l’unico monumento agli “schiavi fedeli”, eretto nel 1896 in South Carolina.

I contenziosi scoppiati attorno a monumenti celebranti la supremazia bianca nei confronti degli afroamericani sono stati probabilmente i più partecipati e quelli a cui i media hanno dato maggiore spazio ma non sono stati gli unici. Vale dunque la pena soffermarsi su alcuni casi che, almeno fuori dal paese, hanno ottenuto minore attenzione.

Che si tratti di edifici pubblici, piazze, strade, fiumi o località, gli Stati uniti sono letteralmente disseminati di Columbia e Columbus, pari soltanto ai riferimenti al padre fondatore Washington. A partire dal 1892, quarto centenario dell’arrivo del navigatore sul suolo americano, per gli immigrati italiani la figura di Colombo, a cui proprio quell’anno venne dedicata la celebre statua in marmo realizzata da Gaetano Russo – visibile sulla colonna di granito in un angolo di Central Park, nella rotatoria di Columbus Circle –, assunse un significato identitario particolare, quasi si trattasse di una sorta di patrono laico.

Per loro il monumento a Colombo era il riconoscimento dovuto a un glorioso esploratore della loro stessa stirpe, per giunta cattolico al servizio di una potenza cattolica, e quindi simbolo del loro orgoglio sia etnico che religioso contro la retorica xenofoba anti-immigrazione e contro i sospetti anticattolici degli americani protestanti.

È nell’ambito dei festeggiamenti per l’inaugurazione del monumento, a cui parteciparono oltre diecimila persone, che prese piede la campagna per istituire il Columbus Day, poi divenuto, a partire dagli anni Trenta del Novecento, festa nazionale. Durante i festeggiamenti per l’inaugurazione del monumento, sottolinea Testi,

in nome di Colombo, gli italoamericani rivendicavano la loro legittima, patriottica ed eguale cittadinanza nella repubblica. E non è che ce l’avessero con i nativi americani, piuttosto li ignoravano, ne rimuovevano la tragedia storica e il ruolo che l’ammiraglio genovese poteva aver avuto alle sue origini. Come per tutti gli immigrati giunti con i grandi sommovimenti di fine Ottocento, il loro problema principale era affrancarsi dalla condizione di indesiderabili agli occhi degli immigrati precedenti […] Rendersi visibili e preziosi e occupare spazio: questa era l’idea che, in tutte le comunità immigrate, ciascuna con i suoi tempi di insediamento nel corso dei decenni, ispirò il proliferare dei monumenti americani agli eroi nazionali dei loro paesi di provenienza.

La comunità italiana newyorchese anziché celebrare gli immigrati reali presenti nel paese, preferì riferirsi agli immigrati ideali, ai «figli di una grande Italia di patrioti, artisti e navigatori, figli di una civiltà secolare e della appena conclusa epopea risorgimentale», proponendosi di disseminare statue celebranti Colombo ben oltre i quartieri abitati dagli italiani, così da conquistare rispetto e importanza nei territori di altri gruppi etnici.

Nel 1992, giunti al quinto centenario dell’approdo del navigatore sul suolo americano, durante gli ormai consueti festeggiamenti in onore di Colombo, a mobilitarsi furono i movimenti critici Native American, ispano-indio-americani, afroamericani e radicali bianchi che guardavano al navigatore italiano come a un invasore inaugurante una lunga scia di sangue, genocidi e schiavitù.

Dopo di allora alcune città, alcuni stati cambiarono ufficialmente il nome al Columbus Day, ribaltandone il senso, facendone l’Indigenous Peoples Day. La nuova denominazione ne oscurava il carattere di festa degli italoamericani, produsse la loro irritazione, li spinse a proposte di compromesso che di quella giornata conservassero lo spirito contemporaneo, che poco o niente aveva davvero a che fare con un conquistatore d’altri tempi. Perché dunque non farne un immigrant day o un Italian-American heritage day? Intanto anche i monumenti colombiani in giro per il paese finirono sotto attacco.

Quello che gli immigrati italiani cattolici vivevano come simbolo di appartenenza a una nobile etnia dalla lunga e prestigiosa storia e motivo di rivendicazione di pari dignità nei confronti di altri migranti, gli angloprotestanti che li avevano preceduti e che li guardavano con diffidenza e superiorità, agli occhi dei nativi americani e di altre etnie rappresentava un simbolo di oppressione e nei monumenti a lui dedicati non si poteva che cogliere la cancellazione delle sofferenze subite dagli avi.

La definizione di Cancel Culture con cui vengono indicate le intenzioni e le gesta di coloro che chiedono la rimozione dei monumenti o li deturpano, sembra celare la cancellazione che tali monumenti celebrativi operano nei confronti delle vittime di quelle epopee. Se di cancellazione si tratta, come argomenta Testi, ciò vale tanto per gli strenui difensori delle statue in essere, quanto per chi intenderebbe rimuoverle e magari sostituirle con altre diversamente, ma altrettanto, selettive. La sostituzione delle statue di Colombo con altre celebranti, ad esempio, i nativi americani, agli occhi degli italiani cattolici cancellerebbe un simbolo di orgoglio e riscatto nei confronti degli angloamericani protestanti. Alle comunità di origine italiana, la figura di Colombo si offre insomma come occasione per rivendicare una sorta di diritto a considerarsi i primi immigrati giunti sul territorio americano, dunque di mettere in discussione il ruolo subalterno a cui sono costretti dagli, altrettanto immigrati, angloprotestani.

Analogamente, la santificazione di Junípero Serra, un padre francescano spagnolo attivo nella California del Settecento, voluta da papa Francesco nel 2015 – che lo ha presentato come protettore dei nativi, missionario che ha saputo rispettare le loro usanze –, ha indubbiamente offerto un motivo di orgoglio alla comunità ispanica “doppiamente immigrata”, «venuta prima dall’Europa fino alle Americhe spagnole e poi, in tempi più recenti, dalle Americhe spagnole fino agli Stati Uniti». I monumenti edificati in onore di Serra dagli ispanici hanno di fatto cancellato, agli occhi dei nativodiscendenti, le pratiche paternalistiche coercitive e assimilatorie delle missioni cattoliche nei confronti delle popolazioni indigene. A complicare le cose, sottolinea lo studioso, è il fatto che oggi molti nativi «sono anch’essi cattolici, appartengono allo stesso universo spirituale condiviso con i discendenti dei conquistatori spagnoli di allora e con i nuovi ispanici arrivati più di recente da sud del Rio Grande». A ben guardare, nei contenziosi sorti attorno a questi monumenti ci si accusa vicendevolmente di cancellare qualcosa che per l’altro è motivo di orgoglio identitario.

Non si tratta, evidentemente, di rifugiarsi in un relativismo di comodo in cui si azzerano gli accadimenti storici e le responsabilità alla luce delle diverse significazioni simboliche prodotte dalle diverse comunità, ma di osservare meno superficialmente come attorno ai monumenti celebrativi si giochi, qui ed ora, negli Stati Uniti, come detto, una strisciante guerra civile che ha tutta l’aria di non limitarsi all’interpretazione di qualche statua posta su un piedistallo in tempi più o meno remoti. Da queste contese filtra l’immagine di un paese lacerato, tutt’altro che unitario.

È indubbio che le opere di cui si parla acquisiscono valori particolari nel loro presentarsi come monumenti celebrativi in spazi pubblici; le stesse, poste, ad esempio, all’interno di un museo, perderebbero l’effetto celebrativo per offrirsi come testimonianze, documenti storici che, questi sì, in quanto tali, andrebbero preservati con cura e letti in tutta la loro complessità prendendo in considerazione i periodi in cui sono state prodotte e i luoghi in cui sono state originarmene collocale. Demonumentalizzare non significa cancellare la storia.

La destinazione museale non è l’ unica strada percorribile. Ad esempio, lo studioso Andrea Pinotti – in un suo contributo pubblicato in Cecilia Guida, Roberto Pinto, a cura di, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books 2022) – invita a «ripensare a un concetto di monumento che prenda congedo dalla statica rappresentazione di un partito preso ideologico, per aprirsi a quella che con Walter Benjamin potremmo chiamare “immagine dialettica”: un’immagine capace di incorporare dinamicamente istanze differenti persino configgenti, persino contraddittorie». Ricorrendo, ad esempio, alle tecnologie digitali, secondo lo studioso, si potrebbe andare oltre il “contro-monumento” o l’“anti-monumento” e guardare allo spazio pubblico e ai suoi monumenti per come il potere li propone e, allo stesso tempo, per come li si può vedere altrimenti, senza bisogno di distruggere l’esistente e senza cancellare il dissenso nei confronti di esso.

Se proprio ci si vuole ostinare a parlare di Cancel Culture, non è tanto alle contestazioni ai monumenti storici che ci si deve riferire (come spiegato da Testi, la stessa edificazione di un monumento opera cancellazioni), quanto piuttosto al nascondimento della strisciante guerra civile in corso, da tempo, negli Stati Uniti, non riconducibile di certo a due soli fronti e nemmeno ad alleanze stabili. La conflittualità attorno ai monumenti pare essere uno dei tanti modi in cui si manifesta una lotta senza quartiere, per di più ad alleanze variabili, che attraversa gli Stati Uniti, una lotta dagli esiti davvero difficilmente immaginabili.