di Franco Pezzini

All’inizio degli anni Settanta – per la precisione nei primi mesi del 1972 –, sull’onda del revival dell’occulto che inondava anche in Italia rotocalchi e banconi di librerie, il settimanale Epoca dedicava una delle sue storiche serie di inserti a brevi biografie. A redigerle, con un’eleganza narrativa oggi non così consueta in riviste illustrate per il grosso pubblico, era una firma famosa, Giuseppe Grazzini; e un corredo ben scelto d’illustrazioni – belle foto, riproduzioni di stampe, ma anche immagini visionarie nello stile un po’ psichedelico del tempo, a firma di Paolo Guidotti – ne potenziavano l’impatto. La serie ‘Gli uomini del mistero’ (“Perché nell’era spaziale rinasce l’interesse per maghi, veggenti e alchimisti?”) presentava in cinque puntate altrettanti personaggi che avevano stupefatto i propri giorni: un’occasione per rievocare a tinte vivaci climi storici più o meno lontani, ma insieme per indagare l’attrazione degli uomini di ogni tempo verso l’ignoto che abbiamo dentro. Inevitabile per me ragazzino divorare quelle storie sul divano di mia nonna, in una città targata Fiat che proprio all’epoca stava cucendo con scampoli di passato e di (possibile) futuro, tra arcani ed extraterrestri, il mito della Torino magica. E inevitabile la delusione alla fine della serie.

Buon ultimo, vi era apparso Franz Anton Mesmer, imparruccato medico tedesco (1734-1815): che però, al tempo, mi colpiva meno dei colleghi. Nostradamus, Paracelso, Cagliostro e il conte di Saint-Germain – le cui biografie si erano susseguite nelle prime puntate – erano in qualche modo figure ossesse ed eccessive, le cui ombre storiche lasciavano in quelle pagine una sbavatura raggrumata di sogni e una sorta d’inquietudine spessa; al contrario, le tinte della vita di Mesmer parevano più tenui e misurate, come i colori pastello di certe linde casette in Mitteleuropa. Certo, anche la sua storia, che dalle luci ambigue di un Settecento rococò finiva col lambire l’incendio della Rivoluzione in Francia, poneva a contatto con sogni e incubi di un mondo che si attrezzava a diventare moderno; anche le sue ricerche per comprendere le forze che innerverebbero il regno animale s’inquadravano in una panorama febbricitante di erudizione memore di esoterismo e fantasie rosicruciane, tra iniziazioni massoniche e profezie; anche la sua devozione un po’ teatrale di terapeuta trovava declinazione in una pirotecnia di pratiche bizzarre. Ma a livello di un primo accostamento, l’epopea di Mesmer mi pareva meno mitologica di quella dei colleghi.

Non mi rendevo ancora conto di quanto invece visionariamente la sua opera aveva impattato sulla letteratura, da Poe a Dumas (il cui dotto abate Faria è una rilettura immaginosa della figura del sacerdote e rivoluzionario portoghese José Custódio de Faria, 1756-1819, studioso di ipnosi e appunto magnetismo animale) a Stoker a Zweig a tanti altri, fino all’esito brillantissimo de L’armata dei sonnambuli dei Wu Ming (2014). O su un altro tipo di uso dell’immaginazione, quello esplorato proprio nel grembo della Torino magica – dove l’aggettivo guarda anzitutto, correttamente, a una dimensione dell’immaginario – da Mariano Tomatis, scrittore e illusionista la cui magia militante ha anche chiari risvolti di riflessione sociale e lotta politica (basti citare il suo ottimo documentario Donne a metà su certe ombre femminicide corteggiate col favore del pubblico nell’ambito dell’illusionismo o gli interventi su magia & militanza NO TAV). In attesa dell’uscita del secondo volume della sua monumentale opera Mesmer. Lezioni di mentalismo – dove lo studio rigoroso dell’arte permette di capire molto altro – è però imperativo prendere in mano il primo, Dall’età della pietra all’età dell’anima. Il Settecento (stampato in proprio, Torino 2016): un testo anzitutto visivamente bellissimo per la ricchezza e la fantasia delle immagini a colori, ma che insieme impressiona per mole e varietà dei dati bibliografici.

Dalla sua l’autore ha anzitutto il depositum di quell’iniziativa geniale che è la Biblioteca magica del popolo, otto secoli di libri sulla magia recuperati in rete o scansiti per renderli di libera consultazione, con miriadi di immagini; ha una scrittura vivace che arricchisce la dimensione saggistica dello studio con spazio a esperienze anche personali; ha un eccellente occhio di autore-editore, con un’estrema originalità di format (che non si consuma nei due flussi diversi di testo sulle pagine sinistre – “più sregolate e frammentarie, non si fanno scrupoli a viaggiare nel tempo, suggerire connessioni bizzarre e proporre accostamenti discutibili” – e destre); e insieme ha la vocazione del pratico che consegna un manuale con trucchi, spiegazioni, ma anche la loro storia e una filosofia sottesa.

Quel che offre è dunque un dittico, con una prima parte di saggio storico e 71 schede a supporto per percorsi paralleli: una galleria impagabile dove Mesmer è mattatore, ma con una nutrita schiera di sodali. C’è il Cazotte del Diavolo in amore, Mozart e lo Schiller del Visionario, François Pelletier col suo monocolo magico, i “professori di fisica” come Jean-Antoine Nollet organizzatori di seri ma spettacolari sistemi divulgativi, Nicolas-Philippe Ledru detto Comus coi suoi “brillanti marchingegni”, Rousseau, Franklin, Cagliostro… La prevalenza di personaggi francesi o frequentatori della Francia la dice lunga su un peso particolare della Parigi settecentesca, “laboratorio in cui la disciplina che chiamiamo ‘mentalismo’ cercò la propria identità nell’emancipazione dall’illusionismo e nella mimetizzazione con le scienze di confine”. Ma ci sono tanti altri prima e dopo, fino all’illusionista ottocentesco Bartolomeo Bosco e a uno dei nomi-chiave della Torino magica, nientemeno che quel Gustavo Rol che all’epoca avevo cercato di contattare telefonandogli (e parlando con un domestico che sospetto fosse in realtà lui, che gentilmente aveva gelato le mie speranze d’un incontro).

A questa parte introduttiva ne segue una seconda godibilissima di sedici, chiare lezioni di mentalismo tra carte, inchiostri simpatici, dadi e anagrammi. Andiamo dall’impressione di leggere il pensiero alla manipolazione del linguaggio; dagli usi di curiosità matematiche alla capacità di cogliere un ordine sotteso dove altri individuano soltanto caos; dal multiverso borgesiano agli effetti mentalistici di un indovinello medioevale. E “La sedicesima e ultima lezione documenta quello che […] è il punto teorico più alto del mentalismo settecentesco: l’applicazione di un principio oggi chiamato ‘doppia realtà’, basato su specifici stimoli percepiti in modi diversi da spettatori distinti”. Quella che ci viene consegnata è una coloratissima lezione di filosofia sull’ambiguità del reale – la razionalità che si finge magia e viceversa – e la necessità di leggerlo con strumenti razionali più sottili. “Come il romanzo di Cazotte, il protomentalismo settecentesco costrinse a fare i conti con regioni della coscienza fino ad allora inesplorate”, disturbando il manovratore che cercava di tracciare linee nette e un po’ rozze di demarcazione tra realtà e fantasia.

Anzi, al pari del romanzo nella lezione di Hermann Broch (autore peraltro di un romanzo I sonnambuli), anche il mentalismo deve mirare ad “ampliare la nostra conoscenza di ciò che è umano”, scoprire almeno un “frammento dell’esistenza fino ad allora sconosciuto”: facendo vivere il tempo in modo più intenso ma “soprattutto [insegnando] a cambiare il modo di percepire il mondo dello spettacolo”. Compreso il grande spettacolo delle cosiddette cose serie: e qui lo Schiller del Visionario, che Tomatis stesso ha commentato in una recente edizione, avrebbe qualcosa da dire. In un’epoca come la nostra, appesantita da decenni di torpore sonnambulico dei cittadini e di scelte presunte “razionali” che appartengono invece alla cattiva fantasia, la lezione del mentalismo fornisce provocazioni importanti.

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