di Jack Orlando

Piedi che scalciano e calpestano furiosamente pane, bocche rabbiose che riversano insulti su di una madre, proclami al vetriolo contro i nemici dell’Italia, le lacrime di un’attempata maestra allontanata dal posto di lavoro.
Le immagini producono sensazione, pathos, immedesimazione, danno il sapore alla storia e alla realtà che circondano l’osservatore ben più di qualsiasi analisi sociopolitica. È per questo che se ne nutrono i media e sempre di più gli anchormen della reality-politik all’italiana: prendere immagini, modellarle come cera, utilizzarle a proprio piacimento, confezionare narrazioni belle e pronte all’uso da gettare all’opinione pubblica per agitare fantasmi e babau che poi rientrino nel cappello del prestigiatore così come ne sono usciti.
Ma può accadere che i fantasmi escano dallo schermo, si riproducano in un proliferare incontrollato di immagini stereotipate che finiscano poi per narrarsi da sole, per creare da sé la loro realtà fuori dalle mani degli apprendisti stregoni.
Hanno evocato lo spettro della guerra tra poveri, quello del neofascismo, quello dei nazionalismi che schiumano livore ed ora che gli spettri sono stati evocati e vagano tra i vivi, non si sa più come gestirli. Lo specchio della realtà a forza di essere attraversato da immagini frenetiche ha finito per non reggere e inizia a mostrare le sue crepe. Fratture che vanno allargandosi e al cui interno già si scorge il futuro oltre lo specchio.

Le grottesche scene di Casal Bruciato, a Roma, con una dozzina di neonazisti e qualche accolito del luogo che per due giorni tengono ostaggio una famiglia rom intimandogli di abbandonare la casa, hanno campeggiato sui giornali e sulle bocche da talk show per un paio di settimane buone, ma per lo più ci si è limitati a scandalizzarsi davanti ad un subumano che minaccia di stupro una madre di famiglia con una bimba in braccio.
Niente di così speciale, tra l’altro, visto che sono le parole di neofascista: un uomo che, non solo appartiene ad un partito non nuovo alla violenza sessuale, ma che difende le antiche tradizioni del popolo italico, non da ultima quella dello stupro e della dominazione maschile che ha sempre rappresentato uno dei capisaldi della vita sociale del Bel Paese.

Cos’è invece che si è mosso attorno a questo banalissimo coglione? CasaPound, i neofascisti in generale, non sono nuovi ad avventure simili da dare in pasto ai media, specialmente sotto elezioni; è una tattica assodata ed ormai anche un po’ scontata. Osare, fare scandalo e spingere l’asticella del discorso sempre un po’ più a destra; fare notizia per campeggiare sui quotidiani nazionali e dipingersi come grande forza politica, bucare lo schermo per raggiungere nuovi affiliati con le stesse tristi passioni, provocare scompiglio per tastare il polso della situazione e sondare i margini di manovra e soprattutto, apparire, ergersi al centro delle cronache per narrare la propria verità, per dimostrare la propria esistenza e calamitare tutto l’odio e il rancore che albergano nelle metropoli. Creare un precedente che renda tangibile, concreto, ripetibile il messaggio dei figli del nero.

Per quasi 72 ore i camerati hanno stazionato sotto le case popolari minacciando di sfrattare, se non di bruciarla viva, un’intera famiglia di etnia rom, rea di aver ottenuto l’assegnazione di una casa popolare. Persone accusate banalmente di usufruire di un lecito diritto hanno subito una pressione psicologica dura da gestire e dolorosa da metabolizzare nel tempo.
Di primo acchito verrebbe spontaneo domandarsi: ma se non vanno bene nei campi, non vanno bene nelle case, allora bisognerebbe rispolverare le vecchie soluzioni di hitleriana memoria per gli zingari? Ancora non lo si dice apertamente, ma di questo passo, a spingere sempre più a destra la percezione politica e culturale del paese non è lontano il tempo in cui si potrà dire senza timore e con fare guascone che la soluzione sarebbe alloggiare i rom nelle vasche di un saponificio.

Per 72 ore questo teatrino squallido è andato avanti con una nutrita scorta di polizia: un cordone di celere che isolava le tartarughe frecciate dal più folto presidio antifascista e si rendeva spudoratamente connivente di una serie di reati che spaziano dall’istigazione all’odio razziale alla violenza privata, dalle minacce allo stalking. A lasciare perplessi non è tanto la gestione politica della piazza quanto, proprio, quella giuridica.
Ora, non che ci interessi di fare i legalitari, ma è bene osservare e prendere atto delle forme che sta assumendo il rapporto tra il neofascismo ed il potere politico che le forze dell’ordine rappresentano.
Un connubio sempre più stretto ed esplicito in virtù della retorica ben più spinta del sovranismo rispetto al vedo-non-vedo della socialdemocrazia.

Lo si è visto, in maniera più sottile, anche alla Sapienza di Roma dove Roberto Fiore e il suo partito in ansia da competizione hanno voluto far sapere al mondo che esistono ancora, dichiarando platealmente che avrebbero marciato sull’ateneo per impedire un dibattito con quel Nemico d’Italia che è Mimmo Lucano.
Lasciando da parte la magra figura della marcetta dei trenta lombrosiani figuri su di uno spartitraffico a parlare ad un pubblico di camionette, bisogna notare anche qui il sostanziale silenzio accondiscendente a questa manifestazione da buona parte del mondo politico ed accademico, infine trascinato per le orecchie dalla mobilitazione di studenti e professori e costretto a mettersi di traverso fino a far vietare il corteo fascista che, comunque, ha bonariamente sfilato un po’ nascosto e a disagio.
Mesi fa, nella tragica occasione della morte di una ragazza, sempre Forza Nuova aveva indetto un corteo per entrare nel quartiere San Lorenzo a sventolare i tricolori dove prima c’era lo straccio rosso. Una provocazione pesante rilanciata, stavolta, sul terreno di una università dal passato marcatamente antifascista. Provocazione che, come al solito, trova nella polizia il garante (poco garantista però) di quel democraticissimo diritto di consentire a chiunque di manifestare il suo pensiero.
Il vento soffia in loro favore, è il momento buono per osare, per lanciarsi nella mischia, per imprimere a fuoco le loro parole d’ordine ed allargare la loro egemonia.

È da notare, oltre gli equilibri di potere del fronte reazionario, la risposta a queste sortite che è stata prodotta dai movimenti: la reattività alle mobilitazioni neofasciste indica che il livello d’attenzione si è finalmente alzato ed è in grado di produrre controffensive sui territori che coinvolgono soggettività militanti assai diverse e altrimenti inconciliabili.
Certo è che nei quartieri di periferia l’iniziativa e la centralità dell’azione è stata in mano a quelle strutture che del radicamento e dell’azione quotidiana sui territori basano la loro strategia; senza di queste il terreno sarebbe stato sgombro o per lo meno assai scivoloso. L’internità costante ai soggetti di riferimento è uno dei nodi essenziali ma anche, ci si conceda, scontati.
La mobilitazione della Sapienza ha invece mostrato aspetti più interessanti: due migliaia di persone hanno dato vita ad un corteo che in quell’ateneo non si vedeva ormai da anni e che presentava al suo interno una composizione estremamente eterogenea: al corpo militante e dell’associazionismo si è affiancato un numero considerevole di docenti e soprattutto studenti.

È stridente la differenza tra questa partecipazione, probabilmente facilitata dalla figura di Lucano, e la diserzione generale dei momenti di lotta o di socialità autonoma entro lo spazio universitario, ma non solo. Come stridente era anche la differenza di postura tra chi, ormai professionalizzato al rituale della piazza, attraversa il corteo con un fare distaccato e quasi indolente, conscio dell’obbiettivo di impedire la piazza fascista, e la maggior parte degli studenti che vive invece la dimensione di una manifestazione allegra, pacifica, colorata e un po’ ingenua di chi difende la cultura dall’ignoranza, la democrazia dal fascismo.
È evidente allora tanto lo spazio vuoto che il milieu antagonista ha lasciato tra sé e i suoi referenti negli ultimi tempi, quanto il fatto che questa terra di nessuno può essere occupata oggi proprio grazie all’antifascismo.

A sondare le piazze che si sono prodotte in questo uggioso maggio c’è da notare come, senza ombra di dubbio, la marea nera, vuoi reale o pompata dai media, così come le imprese del ministro degli interni, abbiano prodotto una frattura nel tessuto sociale, dividendo tra chi è ormai pronto allo scontro di civiltà (o di barbarie) e chi è legato alle sue tradizioni democratiche (si fa per dire). Ma dal nostro lato della barricata c’è ancora, evidentemente, più materiale di quanto ci si aspettasse.
Se i camerati si sentono forti è in virtù anche della posizione che ricoprono nella strategia salviniana. Ma quest’ultima, finora sembrata uno schiacciasassi in grado di passare agilmente sopra qualsiasi impasse, ha mostrato in questa campagna elettorale il suo essere una tigre di carta.
Salvini è una figurina da social network, poco più che un meme, ed è in quella dimensione che funziona e sa far lievitare i consensi; sul terreno materiale la realtà è invece assai diversa.

Ce lo dicono il comizio sul balcone di Forlì sommerso di fischi e insulti, i pochi contestatori che lo mandano nel pallone a Settimo Torinese, le sue piazze dall’uditorio micragnoso surclassate clamorosamente dalle controinziative antifasciste, la battaglia degli striscioni che infuria sui balconi di mezza Italia, quella dei selfie combattuta a sfottò e baci saffici, Firenze e Napoli che provano a entrare a spinta nella piazza.
È evidente che, uscita dal modo fatato dei social, la punta di diamante del revanscismo italiano ha fatto male i suoi calcoli e si è trovata di fronte più contestatori che followers (d’altronde un follower mette i like ai post, mica scende in piazza).
Ed in mezzo a quelle contestazioni, sempre noi, i cattivi, gli antagonisti, gli autonomi dei centri sociali che tutto l’arco politico vorrebbe vedere estinti una volta per tutte.
Eppure ancora qui, ancora in grado di stare in piazza a seminare zizzania nonostante le ripetute sconfitte, ancora in grado di alzare, almeno un po’, il livello di conflitto.

Tuttavia, nonostante sia questa l’anima dietro le mobilitazioni, il risultato rischia di essere incassato da quella che un tempo sarebbe stata definita, fin troppo benevolmente, socialdemocrazia e dalla sua battaglia di consensi. Ad esclusione di un abbronzato Fassina, di qualche rappresentante dei partigiani e forse di qualche altra anima bella, nessun parlamentare, consigliere, militante di base o altro del PD o della Sinistra si è mai visto in piazza, pena l’esserne cacciato in malo modo; ma è sempre loro l’ultima parola al termine della giornata. Fanno eccezione, notare, le giornate in cui sono volate torce, transenne e manganelli.

Ed è proprio su quest’egemonia del discorso che si apre l’altra frattura, quella essenziale. La socialdemocrazia, anche una volta dismessi i panni del comunismo togliattiano e berlingueriano e indossati quelli delle riforme neo-liberiste, è una vecchia volpe che spinge l’elettore dritto dritto nella sua tana mostrandogli le fauci del lupo sovranista.
Senza stare a rivangare tutti i cadaveri che si porta appresso questa meschina creatura basti, ad esempio, guardare come si strappano le vesti per la maestra sospesa dal scuola per aver paragonato il Decreto Sicurezza alle Leggi Razziali, mentre solo due anni fa invocavano giustizia esemplare per quell’altra maestra che, a Torino, aveva insultato i poliziotti che proteggevano CasaPound caricando selvaggiamente e a più riprese il corteo antifascista, maestra che ha poi perso definitivamente la sua professione per il sollazzo dei salotti bene.
O magari si può parlare di tutti gli striscioni sequestrati, degli appartamenti perquisiti e delle botte gratuite nelle piazze quando parlava Renzi.
Ripetiamolo ancora, qualora non bastasse, fascismo e democrazia sono le due facce della stessa civiltà del dominio, le due teste della medesima Idra.

Allora non ci basta cacciare il PD dalle piazze per toglierci questo vampiro di dosso, che mina qualsiasi possibilità di allargare le fratture della società e vuole far passare l’idea che l’opposizione attiva si faccia a colpi di selfie e umorismo e pace sociale.
È necessario adesso imporre un nuovo ordine del discorso, una differente drammaturgia della piazza.
Bisogna uscire dal campo della democrazia, delle libertà civili e attraversare quello della radicalità rivoluzionaria. Se la mobilitazione antifascista oggi è in grado di rivitalizzare piazze dormienti allora si sia antifa fino in fondo!
Se alla Sapienza gli studenti mostravano una postura simile a quella dei primi licei durante l’onda, vuol dire che si è di fronte ad una tabula rasa, un foglio bianco su cui è possibile disegnare il volto della nuova militanza, quella militanza che viene, figlia del secondo millennio dei nazionalismi e della crisi permanente, della democrazia autoritaria e dell’Occidente che muore.
Tocca tracciare il profilo della nuova resistenza a questo presente iniziando a sfruttare ogni momento in cui è dato a quest’entità di mostrarsi.

Sottrarre l’antifascismo alla “sinistra” e scagliarlo nella direzione del conflitto sociale e della lotta di classe ci impone, ora che i riflettori sono puntati su queste piazze, di attraversarle e dare in pasto alle telecamere qualcosa di indigesto e potente che non possano ignorare.
La narrazione mainstream antifascista è affamata, per ora, di studenti che cantino sorridenti Bella Ciao, diamo loro gli studenti, ma che cantano con un fazzoletto rosso a coprire il volto, che camminano tra il fumo delle torce che fa rabbrividire la buona borghesia pensando agli ultras, che impattano, laddove possibile, sugli scudi dei tutori dell’ordine.

Devono parlare di noi per continuare a esistere, allora che ne parlino, ma le parole le stabiliamo noi!
Muoversi in una piazza con calcolata radicalità e lucida forza per inquinare la narrazione nemica ed iniziare, anche da qui, ad imporre un immaginario irriducibile a questa democrazia.
Tastare palmo a palmo, ogni volta, fin dove può spingersi il nostro agire e quanto sia possibile acutizzare le coscienze. Non bisogna pensare di risolvere il tutto in una nuova estetica del conflitto in cui ci si mette, a favore di telecamera, a rappresentarsi come cavalieri dell’apocalisse quando dietro, assieme al fumo dei lacrimogeni, c’è solo la fumosità del movimento. La telecamera è uno strumento del nemico e non ci si può regalare alle sue fauci ma si deve torcere quest’arma a nostro vantaggio. La nostra è una tradizione partigiana e i partigiani combattono sempre con le armi prese al nemico.

Questa drammaturgia della piazza è un’arte da affinare non perché è in piazza che si vince, ma perché è ciò che ci consente, nel deserto che attraversiamo, di imprimere una percezione del reale nelle menti di chi osserva o attraversa dati momenti, testimoniare una presenza che è altra e forte a dispetto di quanto si dica; inoculare un dato immaginario che faccia presa e sappia plasmare una potenziale soggettività militante. Questo è però solo un piccolo tassello, la reale posta in gioco si trova sul livello dell’organizzazione, della capacità di produrre conflitto e autonomia, dell’inchiesta militante; su quel livello, insomma, che è il lavoro grigio e quotidiano della rivoluzione e che deve oggi ritrovare slancio, passione, attrattiva.
Ogni passo che viene mosso deve contenere in sé la prassi, la teoria, la strategia, la propaganda, l’avanzamento della coscienza, la ridefinizione dei rapporti di forza.
Non dobbiamo combattere una guerra delle immagini, ma dobbiamo sapere che l’immagine produce percezione e cultura. Ed è sul terreno della percezione che si combatte la battaglia preliminare, quella che sottende al grande scontro.
Non c’è politica rivoluzionaria senza cultura della rivoluzione e non c’è cultura rivoluzionaria che non provenga dal livore delle strade.