di Armando Lancellotti

Baris Alakus, Katharina Kniefacz, Robert Vorberg, I bordelli di Himmler. La schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024, pp. 224, € 18,00

Il merito principale di questo volume, da poco riproposto da Mimesis Edizioni dopo la prima traduzione italiana del 2011 dell’originale austriaco del 2006, consiste nel contributo dato allo studio e alla conoscenza di un aspetto, tra i numerosi del nazionalsocialismo e del suo sistema concentrazionario, ancora in parte trascurato e indagato meno di quanto meriterebbe: le politiche di genere, le forme di violenza e costrizione sessuale e il governo della sessualità come strumenti di realizzazione del progetto biopolitico del Terzo Reich. Principalmente lo studio dei tre autori si concentra sul caso della predisposizione, per ordine delle più alte autorità del regime, di un capillare apparato di prostituzione forzata da destinare ai soldati combattenti, agli uomini delle SS, ai lavoratori stranieri presenti in Germania, fino ai lavoratori forzati internati dei campi di concentramento, con la conseguente riduzione di migliaia di donne alla condizione di “schiave sessuali”. Un sistema di “bordelli di Stato”, che rappresenta solo un aspetto specifico di una ben più vasta ed organica politica di controllo della sessualità, a sua volta da collocare all’interno della cornice più generale del programma eugenetico di costruzione, promozione e difesa della Volksgemeinschaft nazionalsocialista.

Le dottrine eugenetiche internazionalmente molto diffuse a inizio Novecento negli ambienti medico-scientifici, in tutto l’Occidente e non solo in Germania e ben prima del nazionalsocialismo, avevano condotto all’adozione in alcuni paesi di misure di igiene sociale e razziale come la sterilizzazione su vasta scala, motivate dalla preoccupazione per il calo demografico e per la diffusione di malattie ereditarie che avrebbero potuto indebolire razze e popoli. Igiene sociale ed eugenetica, entrambe nutrite di darwinismo sociale, trasferivano dall’ambito biologico a quello sociale la teoria della selezione naturale e della sopravvivenza del più adatto, a cui associavano l’idea della degenerazione psichiatrica e della ereditarietà delle qualità individuali. In tal modo veniva messo a punto un paradigma meccanicistico e deterministico che riduceva i fenomeni sociali a meri fenomeni biologici: la degenerazione razziale è intesa come causa di degenerazione sociale e i comportamenti asociali come conseguenze di predisposizioni ereditariamente trasmesse, che devono essere interrotte ed impedite.

Vale la pena ricordare che proprio la convergenza tra la visione razzista del mondo del nazionalsocialismo e i programmi dell’eugenetica condusse alla pianificazione e alla realizzazione di operazioni di violenza e omicidio di massa, come nel caso della Aktion T4. Il 14 luglio del 1933, poco dopo la nomina a cancelliere del Reich di Adolf Hitler, venne promulgata la cosiddetta legge per la sterilizzazione forzata dei disabili (mentali e fisici) e dei portatori di malattie ereditarie, norma poi entrata in vigore il 1^ gennaio 1934. Ad essere colpiti da questo provvedimento furono i malati di mente, le persone con deficit cognitivi (i cosiddetti “deboli di mente” o “idioti”), ma anche gli epilettici, i sordi, i cechi, le persone con malformazioni fisiche e infine i soggetti appartenenti alla categoria dei cosiddetti “asociali”, come per esempio gli alcolisti e spesso le prostitute, che si riteneva potessero trasmettere ereditariamente la predisposizione al comportamento antisociale. Furono circa 400000 i tedeschi sottoposti al trattamento di sterilizzazione, a cui si aggiunse anche l’aborto coatto, imposto dall’autorità dello Stato. Provvedimenti legislativi come questo o come quello del 1935, che vietava il matrimonio qualora uno dei due futuri coniugi rientrasse in una delle categorie contemplate dalla legge per la sterilizzazione, fecero da premessa del più generale progetto criminale eugenetico denominato Azione T4, che, prima ancora di assumere questo nome nel 1939, iniziò, l’anno precedente, con l’eliminazione di neonati e bambini affetti da menomazioni fisiche e mentali.

Insomma, il regime si convinse dell’idea che la riproduzione e quindi la sessualità dovessero essere controllate per evitare o limitare la degenerazione razziale e la comparsa di “biotipi impuri”, dal momento che la Weltanschauung nazista pensava che la Volksgemeinschaft dovesse essere innanzi tutto una comunità razziale, sana e pura. All’interno della comunità popolare-razziale i ruoli dei generi maschile e femminile erano radicalmente gerarchizzati e distinti sulla base della netta superiorità dell’uomo sulla donna, il ruolo della quale non doveva discostarsi molto da quello meramente riproduttivo, con cui avrebbe garantito la conservazione e la tutela della purezza del sangue. In quest’ottica le idee di emancipazione femminile erano da considerarsi come estremamente nocive, perché potevano indurre le donne tedesche a comportamenti pericolosi per la stessa razza germanica, come ebbe modo di spiegare Alfred Rosenberg, principale ideologo del nazionalsocialismo, che propose la teoria della «”emancipazione delle donne dall’emancipazione della donna”: la donna “emancipata” può pretendere il diritto di avere rapporti sessuali con negri, ebrei, cinesi. L’emancipazione porterebbe la donna, che è invece chiamata a essere il sostegno della razza, ad annientare le basi esistenziali del popolo» (pp. 17-18).

La politica di controllo della sessualità del Terzo Reich si diede anche l’obiettivo di combattere e limitare l’omosessualità, sia maschile sia femminile. Già nel 1928 e quindi prima della conquista hitleriana del potere – osservano i tre studiosi, autori del libro – gli igienisti della razza avevano inserito l’omosessualità nella categoria dell’atto osceno, che di seguito il nazionalsocialismo, combinando omofobia e antisemitismo, considerò come un tratto propriamente ebraico. Soprattutto l’omosessualità maschile era avversata in quanto pericoloso ostacolo alla politica demografica nazista, finalizzata alla riproduzione e alla selezione di una sana razza germanica e come grave comportamento asociale, che il regime pensò di combattere favorendo la prostituzione, nella convinzione che più frequenti e facili occasioni di rapporti eterosessuali avrebbero disincentivato l’omosessualità. Dopo la “notte dei lunghi coltelli”, il ridimensionamento delle SA e l’uccisione del loro capo, l’omosessuale Ernst Röhm, la persecuzione dell’omosessualità conobbe una forte accelerazione: se per i più era previsto il lager, per le SS o gli uomini della polizia, dal 1941, si arrivò fino alla pena capitale e, ricordano gli autori, furono circa 50000 i condannati alla detenzione per omosessualità nei dodici anni del Terzo Reich.

Il nazionalsocialismo si preoccupò in modo minore dell’omosessualità femminile, che venne combattuta, ma più limitatamente dell’omosessualità maschile. Secondo gli autori di questo studio, le ragioni vanno individuate nella convinzione stereotipata che essa fosse in molti casi la conseguenza di una sorta di naturale tendenza femminile all’esternazione dell’affettività; oppure che, come nel caso dell’omosessualità maschile, fosse l’effetto temporaneo dell’indisponibilità di rapporti eterosessuali, che l’innato istinto femminile alla maternità avrebbe comunque aiutato a superare; oppure che fosse una forma di degenerazione da associarsi alla prostituzione, interpretata come sregolatezza ed eccesso sessuali. Fatta eccezione per l’Austria, dal 1938 annessa al Reich, l’omosessualità femminile non era perseguita per legge, ma molte furono le lesbiche internate nei lager, in quanto assimilate alle prostitute e quindi considerate “criminali” o “asociali”.

I capitoli secondo e quarto, dei cinque che compongono il libro, affrontano il tema centrale dello studio: la persecuzione della prostituzione, da un lato e la creazione dei “bordelli di Stato”, dall’altro, a dimostrazione della “doppia morale” nazionalsocialista, che, per un verso, intendeva togliere la prostituzione dalle strade e promuovere l’immagine della donna tedesca come moglie e madre ariana, custode e sentinella della salute della razza e della purezza del sangue, mentre contemporaneamente condannava migliaia di donne alla schiavitù sessuale in bordelli voluti, organizzati e gestiti per disposizione del medesimo regime.

Dentro una cornice generale di assoluto arbitrio giuridico, reso possibile dalla “legge per i pieni poteri” del marzo 1933 (Ermächtigungsgesetz) che istituiva lo “stato di eccezione”, i provvedimenti di legge contro le numerose categorie di cittadini complessivamente definibili come “asociali” si susseguirono senza freni. La prostituzione venne considerata una forma di deficienza mentale e morale femminile, un comportamento asociale e una potenziale tara trasmissibile ereditariamente. Pertanto la lotta contro la prostituzione si intrecciò con la politica di sterilizzazione, avviata con la sopra citata legge del luglio 1933.

Inoltre, rilevano Baris Alakus, Katharina Kniefacz e Robert Vorberg, la riforma del sistema sanitario realizzata dal nazismo trasformò gli uffici di igiene in centri di rilevazione genetica funzionali alla politica demografica del regime. Le idee di selezione del più forte e di eliminazione dell’inadatto, proprie del darwinismo sociale, erano molto diffuse negli ambienti medico-sanitari-assistenziali già prima del nazismo e in molti casi pratiche anche criminali, come quella della sterilizzazione forzata, erano giudicate da molti assistenti sociali e addetti ai lavori come strumenti di igiene sociale assolutamente necessari. A questo si aggiunga che la teoria generale riguardo all’assistenza sociale riteneva che questa dovesse adottare un punto di vista e perseguire un fine esclusivamente collettivi, per cui il benessere da realizzare con l’erogazione del servizio di assistenza sociale era solo quello collettivo, non quello individuale e il bene della collettività, nella visione sociale del nazismo, consisteva innanzi tutto nella difesa e nella promozione della Volksgemeinschaft razziale. Ne conseguiva che per certe categorie di persone l’intervento delle strutture di assistenza sociale dava il via a pratiche persecutorie: a seconda dei casi, schedatura, controllo, interdizione, segregazione, sterilizzazione, internamento.

I nazisti definivano “asociali” coloro che assumevano comportamenti ripugnanti per il resto della società e che erano socialmente emarginati e nocivi. Da un cero momento in poi la Kriminalpolizei fu chiamata, in stretta collaborazione con gli altri corpi di polizia e con la Gestapo, ad inasprire la caccia contro i cosiddetti “delinquenti abituali” e contro gli “asociali”, in particolare prostitute, alcolizzati, vagabondi e zingari.

Gli interventi repressivi dell’asocialità andavano dalla semplice esclusione dai sussidi sociali fino all’uccisione per eutanasia, passando attraverso la sterilizzazione forzata. Sullo sfondo c’era sempre l’idea propria della biologia criminale, secondo la quale i comportamenti e gli stili di vita “asociali” avrebbero potuto trasmettersi ereditariamente e così, col passare del tempo, la sorte a cui erano destinati gli asociali divenne sempre più spesso la sterilizzazione e la deportazione nei campi di concentramento.

La realizzazione di “bordelli di Stato” e il loro utilizzo come strumento biopolitico avvengono attraverso un rapido susseguirsi di tappe. Dal 1939, in seguito al considerevole aumento di lavoratori stranieri all’interno dei confini del Reich, si stabilì che donne e uomini tedeschi non avrebbero dovuto intrattenere relazioni coi lavoratori stranieri al fine di proteggere i tedeschi, soprattutto i soldati, dal pericolo di contrarre malattie veneree. Nel settembre del ’39, con l’inizio della guerra, un decreto del ministero degli interni decideva la riapertura dei bordelli e il dislocamento di essi e delle prostitute in particolari aree dedicate; disposizione prima riservata alle sole zone di operazione militare, poi estesa anche al territorio nazionale.

Il regime ritenne che l’apertura dei bordelli destinati ai soldati avrebbe consentito di ridurre il pericolo di contrarre malattie all’interno dell’esercito; di tenere alto il morale dei combattenti; di lottare contro l’omosessualità maschile. Poi si affrontò il problema della presenza crescente dei lavoratori stranieri e per evitare il pericolo di contatti sessuali con le donne tedesche si pensò di aprire bordelli a loro destinati.
Seguì poi l’istituzione dei bordelli per le “unità testa di morto” (Totenkopfverbände), le SS poste a guardia dei lager e infine di quelli per gli internati dei lager stessi, i lavoratori forzati dei campi di concentramento.

La creazione di bordelli per gli internati lavoratori forzati dei campi rispondeva innanzi tutto ad un principio economico e prestazionale: incrementare la produttività dei lavoratori schiavi, che, come conseguenza delle condizioni proibitive del lager, era di molto inferiore a quella della forza lavoro esterna al campo. Per questo si pensò di introdurre una sorta di sistema premiale a cottimo che per i detenuti più produttivi prevedesse, come compenso massimo, l’accesso settimanale al bordello del campo. Himmler stesso suggerì un sistema premiale a cinque livelli che prevedeva i seguenti compensi: «1. Alleggerimento delle condizioni di detenzione 2. Vettovaglie supplementari 3. Premi in denaro 4. Forniture di tabacco 5. Visite al bordello» (p. 102). Secondo le attente ricostruzioni dei tre studiosi, il primo bordello venne aperto a Mauthausen, nella baracca n.1 a sinistra del portone di ingresso; la decisione fu presa il 31 maggio 1941, a cui seguì l’inaugurazione nel giugno del ’42. Nello stesso anno, un bordello fu aperto anche nel vicino campo di Gusen e in entrambi i bordelli lavoravano come schiave sessuali dieci donne. Ad Auschwitz I fu inaugurato nel giugno del ‘43, al primo piano del blocco 24, sempre nelle immediate vicinanze dell’ingresso ed era predisposto per il lavoro di quindici donne. Nel ’44 fu aperto un bordello anche ad Auschwitz III e le donne venivano prelevate da Auschwitz Birkenau; lo stesso anche a Buchenwald, con sedici detenute provenienti da Ravensbrück e l’elenco potrebbe continuare, perché questo sistema venne esteso all’intero apparato concentrazionario nazista e moltissimi campi si attrezzarono si conseguenza. Col passare del tempo si decise di collocare i bordelli non più nelle immediate vicinanze dell’ingresso, cioè in una posizione in cui sarebbero stati facilmente visibili, ma in luoghi più riparati e si dispose che, in caso di visite ai campi, ai visitatori non si mostrassero né i bordelli né i crematori, insomma quelli che nel lessico interno ai lager erano indicati, significativamente con la stessa parola, come “edifici speciali”.

Il capitolo quarto spiega che per i bordelli dei campi destinati agli internati le donne erano selezionate principalmente tra le prigioniere del lager femminile di Ravensbrück, fatta eccezione per i campi di Auschwitz I e III, dove le schiave destinate ai bordelli erano prelevate da Birkenau. In alcuni casi, soprattutto nei territori occupati a Est, le “schiave sessuali” potevano essere scelte anche tra la popolazione locale.

Oltre agli “edifici speciali” per gli internati, creati allo scopo di incentivare e premiare il lavoro produttivo, il regime volle predisporre anche dei bordelli per gli uomini delle SS. Anche in questo caso, molto spesso le donne venivano selezionate e prelevate a forza da Ravensbrück. Stando alle testimonianze, la selezione avveniva banalmente in base al criterio della bellezza e le più belle venivano destinate ai bordelli delle SS: dovevano superare una visita medica, che accertasse l’assenza di malattie veneree, di seguito erano osservate da alcuni militi delle SS, che le facevano sfilare nude e, se ritenute idonee, dovevano essere rimesse in forza e per questo ricevevano una maggiore quantità di cibo ed erano esentate dalle mansioni lavorative più dure, in attesa di essere trasferite a destinazione. Questi trattamenti, dalle altre internate compagne di prigionia e nelle condizioni estreme e disperate del lager, erano spesso considerati privilegi che suscitavano risentimento, inimicizia e disprezzo verso le prigioniere destinate al lavoro nei bordelli. Dalle testimonianze delle sopravvissute si comprende come la procedura di reclutamento facesse sistematicamente ricorso all’inganno: alle donne da selezionare si prometteva che dopo sei mesi di lavoro nei bordelli sarebbero state liberate. Restituzione alla libertà che non avvenne mai e dopo alcuni mesi di violenze, di schiavitù sessuale e sfruttamento le donne impiegate nei bordelli venivano riportate a Ravensbrück, per essere sostituite da altre schiave, completamente distrutte nell’animo e nel corpo, frequentemente riaccolte dalle compagne di prigionia con sospetto, rancore e pregiudizio.

Infondati e deprecabili sospetti di connivenza e collaborazione con i carnefici che perseguitarono le schiave sessuali dei “bordelli di Himmler” anche dopo la fine della guerra e la liberazione dalla prigionia e che causarono spesso l’emarginazione sociale delle sopravvissute e l’espulsione dal novero delle vittime della barbarie dei lager nazisti. Anche la storiografia, per molto tempo, ha recitato una parte in questa operazione di rimozione ed oblio delle tragiche memorie di queste donne vittime della politica totalitaria di controllo assoluto dell’essere umano perpetrata dal nazionalsocialismo e che si realizzò anche attraverso il governo della sessualità, il controllo e lo sfruttamento del corpo di donne ridotte a schiave sessuali e usate come ingranaggio del sistema dell’orrore realizzato nell’abisso criminale dei lager. Solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso la storiografia ha dato il via al doveroso lavoro di recupero e ricostruzione di queste memorie, di studio e comprensione di questa componente importante del sistema del terrore nazionalsocialista, lavoro al quale il libro di Baris Alakus, Katharina Kniefacz e Robert Vorberg presta il suo valido e prezioso contributo.

Con la regolamentazione della prostituzione, la Germania nazista rendeva manifesta la sua volontà di dominio totale sugli esseri umani. I bordelli divennero perciò un’istituzione biopolitica. Nella cura per un “corpo biopoliticizzato del popolo” svolsero un ruolo significativo, perché erano allo stesso tempo regolatori della politica razziale, strumenti di un controllo tecnico della salute e organi che permettevano di eliminare la sfera privata. Il favoreggiamento della prostituzione e il controllo su di essa esercitato estesero la sfera d’azione del biopotere alla sessualità umana (p. 66).