di Walter Catalano

SvasticaSulSole(Attenzione ! Contiene spoiler ! Leggetelo solo se avete già visto le due stagioni della serie…)

The Man in the High Castle, la serie tv ispirata all’omonimo romanzo di Philip K. Dick, è giunta ormai alla conclusione della seconda stagione e se ne annuncia trionfalmente una terza per il prossimo anno. I risultati per Amazon, sono stati più che lusinghieri: la Amazon Studios – la divisione di Amazon.com che sviluppa fumetti, film e show televisivi, avviata alla fine del 2010 – ormai minaccia dappresso l’egemonia di Netflix. Il produttore esecutivo Ridley Scott e lo showrunner Frank Spotnitz, hanno garantito finora alla serie una qualità visuale impeccabile: fotografia, scenografia e costumi, con un’identica cura maniacale del dettaglio e del particolare, contribuiscono in parti uguali a rendere tangibile l’incubo di un’epoca e di un’atmosfera labirinticamente ucronica: il 1962 di un’America assoggettata e spartita fra le potenze vincitrici dell’Asse.

Un esempio della sofisticata cura con cui la produzione è stata condotta vale per tutti: la sigla dei titoli di testa. Consideriamo la canzone Edelweiss, ripresa dal rassicurante musical per famiglie degli anni ’60, Tutti insieme appassionatamente, di Rodgers e Hammerstein. La stella alpina rimanda all’Austria (e molti ritengono erroneamente che la canzone appartenga al patrimonio folkloristico austriaco) ed è cantata nel musical teatrale e nel famoso film che da questo fu tratto, dal Capitano Georg Ludwig von Trapp come segno di patriottismo austriaco, davanti ai militari tedeschi che cercano di arruolarlo nella marina nazista. Nella serie invece è una fantasmagorica e glaciale voce femminile (quella della cantante svedese Jeannette Olsson) a intonare la ninna nanna, in un improbabile inglese che deforma le sibilanti in modo inquietante (“edelweish, blesh my Homeland forever…”). Su questa musica estraniante scorrono le immagini: in un bianco e nero da cinegiornale stile Die Deutsche Wochenschau, appaiono paesaggi familiari agli statunitensi, il Mount Rushmore, la Statua della Libertà, lo skyline di Manhattan, ma alienati in una dissonanza distopica di ombre minacciose con paracadutisti in discesa, bombardieri in formazione, flotte di corazzate viste dall’alto, poi ecco la Casa Bianca in rovina davanti a un fungo atomico e infine la bandiera USA con una svastica al posto delle stelle. L’effetto perturbante è notevole e alla fine dei titoli d’apertura siamo già immersi profondamente nell’unheimlichkeit.

Analoga raffinatezza nella scelta del cast che, nel complesso, si conferma all’altezza delle incoraggianti premesse: su tutti gli altri protagonisti spiccano la splendida Alexa Davalos (una delle poche bellezze dello schermo capace di affascinare non solo per lo sguardo meduseo ma anche per qualcosa che si lascia intravedere dietro ed oltre lo sguardo: qualche critico, troppo superficiale, l’ha definita semplicemente algida), il villain nazista, mefistofelico ma sempre assolutamente controllato, Rufus Sewell, e il nippo-americano Cary-Hiroyuki Tagawa, impassibile e umanissimo Nobusuke Tagomi, forse il più fisicamente corrispondente al personaggio dickiano.

La prima stagione della serie, nel 2015, era stata quasi ecumenicamente ben accolta non solo dal pubblico ma anche dalla critica: era rimasto parzialmente deluso solo chi si illudeva si sarebbe trattato di una trasposizione fedele del romanzo di Dick, fatto la cui impossibilità era facilmente prevedibile considerando anche l’origine e le caratteristiche peculiari in cui l’opera, premio Hugo 1963, era stata concepita e realizzata. Dick, deluso dai continui rifiuti dei suoi romanzi mainstream da parte di tutti gli editori cui li aveva sottoposti, e stanco della fantascienza ormai da lui considerata come la gabbia inespugnabile in cui lo rinchiudeva il mercato letterario, aveva tentato un nuovo esperimento: travestire da fantascienza un romanzo che avesse ritmo e prospettive mainstream; eludere gli schematismi preconcetti del lettore racchiudendo in un contesto ucronico fantastico un certo numero di personaggi indagati realisticamente nella loro quotidianità ordinaria (ma deviante per noi) e nelle loro relazioni assolutamente banali (se non per le conseguenze derivate dalla premessa deviante). All’interno di questo contesto alterato, il testo avrebbe dovuto restare del tutto mimetico: i rapporti psicologici avrebbero prevalso sulle dinamiche avventurose, la fenomenologia dell’usuale sull’evento sensazionalistico, la riflessione sull’azione. Più che l’aspetto strettamente politico dello scenario inoltre – che pure offriva interessanti presupposti per altro già sufficientemente sviluppati all’interno della dialettica vinto/vincitore e totalitarismo/democrazia – a Dick interessava soprattutto  la configurazione esistenziale, il rapporto fra realtà alternative, e il tema ossessivamente centrale di tutta la sua opera narrativa: la prospettiva dilemmatica realte/irreale, vero/falso, umano/inumano.

Forse proprio per scongiurare un possibile riduzionismo fantapolitico, nel romanzo i nazisti restano sullo sfondo, incombenti ma quasi assenti, ci si concentra invece soprattutto sui giapponesi – occupanti rappresentati in fondo in termini anche troppo bonari. Più ancora di Hawthorne Abendsen, l’Uomo nell’Alto Castello, poi – semplice amanuense quasi inconsapevole dell’orizzonte metafisicamente sovvertitore che ha squadernato con la stesura del suo romanzo ucronico The Grasshopper Lies Heavy, in cui le forze dell’Asse hanno perduto la guerra, seppur in circostanze non identiche a quelle del nostro continuum – l’effettivo agente demiurgico, il deus ex machina che smaschera la realtà “vera” sottesa a quella “apparente”, è la pratica sacrale dell’I-Ching, antico oracolo e libro di saggezza tradizionale cinese, che lo scrittore californiano attribuisce, con qualche forzatura, anche ai giapponesi (forse un po’ come i turisti americani imponevano il canto di “O’ Sole mio” ai gondolieri veneziani).

Una trasposizione cinematografica, per di più dilatata e serializzata in più stagioni, non avrebbe mai potuto permettersi di restare fedele alla versione dickiana originaria. Per serbarsi fedeli allo spirito del romanzo l’unica strada percorribile dagli sceneggiatori era tradirne la lettera. Il passo lento e riflessivo, quasi privo di colpi di scena del romanzo, il suo incedere corale lungo una prospettiva esistenziale e metafisica centrata sull’interrelazione dei personaggi, negli episodi filmati ingrana la marcia e pompa adrenalina ingarbugliando i percorsi narrativi e i rapporti incrociati tra i protagonisti, fino a translitterare l’ucronia dal roman à clef alla spy-story. Una spy-story ucronica però, che pur ricorrendo ampiamente ai meccanismi propri dell’azione e della suspence e perfino ai topoi melodrammatici dell’agnizione (ben due nella seconda stagione), è scandita ancora da un ritmo non troppo sostenuto e adeguatamente introvertito – alla Graham Greene o alla John le Carrè, per intenderci (da questo orientamento l’accusa di eccessiva lentezza e freddezza da parte di qualche critico troppo severo della serie).

La necessità di equilibrare l’ambientazione non focalizzandola unicamente sugli stati del Pacifico sotto l’occupazione giapponese, ma mostrando anche l’altra costa in mano al Reich (oltretutto figurativamente e iconologicamente assai più accattivante e minacciosa), ha indotto infine gli autori alla creazione dettagliata di uno spazio immaginale da Dick solo accennato e all’invenzione di nuovi personaggi inesistenti nel romanzo: l’Obergruppenführer John Smith, spietato e fanatico ma soprattutto tormentato, e la sua famiglia modello, la moglie Helen e i figli Thomas, Amy e Jennifer o il mellifluo Reichsminister Martin Heusmann; più varie figure minori e alcune storiche, le meno riuscite (menzionate ma lasciate saggiamente fuori scena da Dick), come il morente Adolf Hitler, Eva Braun, l’SS-Oberst-Gruppenführer Reinhard Heydrich, l’SS-Reichsführer Heinreich Himmler, o Joseph Goebbels.

Stessa cosa per la parte giapponese. Oltre al rassicurante Tagomi-san, era indispensabile sviluppare degli antagonisti degni di questo nome, figure molto più aggressive e sgradevoli, anche fra gli araldi del Sol Levante (per altro storicamente non meno micidiali e oppressivi dei loro alleati nazisti: Dick era stato decisamente troppo indulgente con loro): ecco quindi l’impeccabile Ispettore Kido, capo della Kempeitai (la Gestapo giapponese) di San Francisco; il sergente Yoshida; il Generale Onoda; Taishi Okamura, il capo della Yakuza degli Stati del Pacifico; e fra i personaggi “reali”, i principi ereditari, attuali imperatori del Giappone, Akihito e Michiko.

Così i nippo vengono resi non meno odiosi dei nazi. I giochi divengono paritari: se nel profilarsi del confronto nucleare fra le due potenze vincitrici ex alleate e poi rivali, nel libro di Dick persisteva la specularità del parallelo USA/URSS = Giappone/Reich; USA/Giappone, tutto sommato buoni, URSS/Reich, cattivi. Ora la simmetria è sconvolta: entrambi i contendenti sono riprovevoli. Ma si aggiunge – tertium non datur ? – una complicazione: in entrambi i territori occupati i membri della Resistenza attivi (anche questi aggiunti o dilatati rispetto agli accenni in proposito di Dick), non sono affatto simpatici e appaiono ottusi e brutali, disposti a sacrificare vite umane senza alcuna pietà e assai poco confacenti allo stereotipo ideal-patriottico yankee in stile God Bless America. Forse il totalitarismo ha contaminato anche gli anticorpi che dovrebbero combatterlo. Su questo ritorneremo.

Un’altra modifica necessaria dell’opera filmata rispetto a quella di Dick ha l’ovvia funzione di esaltare al massimo l’elemento figurativo: The Grasshopper Lies Heavy non può più dunque essere solo un romanzo proibito ma deve diventare un’intera serie di pizze di pellicola: cinegiornali della fine della Seconda Guerra mondiale secondo il nostro continuum, dichiarati destabilizzanti, sovversivi e pericolosi da entrambe le potenze occupanti. L’effetto visuale found-footage è notevole e la prima proiezione a cui assistono la bella Juliana Crain (la Juliana Frink del libro) e l’esterefatto fidanzato Frank Frink (il più adulto ex marito del libro), resta decisamente impresso nella memoria; ma in seguito l’evento perde carisma, anche quando scopriamo che gli spezzoni filmati mostrano non solo fatti storici paralleli e personaggi pubblici come Churchill, Stalin o Roosvelt, ma avvenimenti futuri alternativi e volti conosciuti e familiari che possono mettere in guardia chi sia in grado di interpretare correttamente le immagini. Di conseguenza cambia anche, rispetto al testo dickiano, la valenza di Abendsen, non più scrittore ma raccoglitore e diffusore dei filmati. Eliminato l’I-Ching (nel film solo una volta e marginalmente vediamo Tagomi maneggiare gli steli di millefoglie per trarne l’oracolo e non ci si sofferma mai su alcun esagramma particolare), è proprio lui personalmente, l’Uomo nell’Alto Castello, a diventare il vettore metafisico della vicenda, il demiurgo capace – per qualche motivo che sapremo nella terza stagione – di spostarsi tra un continuum e l’altro e trasferire materiali, documenti e, probabilmente, anche persone tra i diversi mondi.

Altro personaggio dotato della stessa facoltà è Tagomi: non grazie all’I-Ching ma con l’aiuto della meditazione, il giapponese pacifista, riesce a spostarsi, la prima volta per caso (e la sequenza rispecchia fedelmente uno dei capitoli più memorabili del libro, in cui Tagomi dopo un malore che lo stordisce, si ritrova in una San Francisco in cui gli americani non gli cedono il passo e non c’è l’ombra di un’insegna con ideogrammi…), in seguito volontariamente, nella realtà parallela. A differenza di Dick, che ipotizza una pluralità di mondi (nel mondo 2 l’Asse è stato sconfitto, a differenza del mondo 1, ma alcuni particolari differenti ci dimostrano che il mondo 2 non corrisponde esattamente al nostro), la serie tv sembrerebbe limitarsi a mondo 1 e mondo 2: il mondo due è il nostro. Tagomi si ritrova nel 1962 storico, durante la crisi di Cuba, alle soglie di una guerra nucleare, così come aveva lasciato il mondo 1 nel pieno di una situazione speculare fra Impero Nipponico e Terzo Reich. Se nel mondo 1 aveva perso moglie e figlio durante un bombardamento, qui li ritrova vivi: un piccolo nucleo di espatriati giapponesi trasferiti negli USA. Viene però accolto inizialmente con sospetto e ostilità dalla famiglia: lo accusano di averli abbandonati e di essere scomparso da tempo senza aver mai dato notizie di sé (si capisce implicitamente che nel mondo 2 Tagomi potrebbe essersi suicidato). Con gioia il pacato ministro del commercio imperiale scopre di essere nonno e che il figlio ha sposato la versione alternativa di qualcuno da lui già conosciuto nel mondo 1: una Juliana Crain 2, (questo spiega l’insolita simpatia e il disinteressato affetto che lo avevano legato nel mondo 1 a Juliana Crain 1 quando aveva aiutato la ragazza nella ricerca della sorella scomparsa: fra mondo e mondo i legami restano in qualche modo intatti). La giovane coppia interraziale appartiene alle organizzazioni studentesche liberal e manifesta per i diritti civili e per il disarmo nucleare: Tagomi si rende conto che un identico impegno vale in entrambi i mondi, rinuncia alla felicità ritrovata e, portando con sè il filmato dello scoppio della bomba all’idrogeno a Bikini in modo da scongiurare la guerra nucleare fra Giappone e Reich facendo credere ai nazisti che l’Impero possieda una bomba più potente della loro, torna nel mondo 1.

Molto potenziato rispetto all’alter-ego romanzesco anche il personaggio di Juliana. Più giovane e non più corrispondente al tipo della classica Dark Haired Girl dickiana – la incarna la grazia pensierosa e occhiazzurrina di Alexa Davalos, fulgidamente sexy senza mai scoprire neanche un solo lembo di pelle – è ancora un’esperta di aikido e di arti marziali (che le salveranno la vita alla fine della seconda stagione). Juliana è, insieme a Tagomi, l’unico personaggio non ambiguo di un mondo in cui l’ambiguità regna sovrana: così le dirà Abendsen, nella rivelazione cliff-hanger conclusiva che prelude alla terza stagione. Un’etica personale profonda alla quale si attiene senza cedimenti la sostanzia, “gli altri gravitavano intorno a te come intorno a un atomo – le spiega Abendsen – ma loro cambiavano e tu restavi la stessa… credevi nelle persone, nel meglio che c’è in noi, a prescindere da quello che il mondo dicesse su chi uno sia stato o chi dovrebbe essere…”. Per questo, alla fine della prima stagione, Juliana salverà Joe Blake (corrispettivo problematizzato del Joe Cinnadella che nel libro invece uccide con una lametta da barba per proteggere Abendsen) dall’agguato che la Resistenza la vuole costringere a tendergli, perché il cavalleresco giovane le ha salvato la vita una volta e se anche fosse una spia nazista – cosa che in realtà è davvero, sebbene suo malgrado – lei non riesce a tradirlo e vuole dargli comunque una possibilità; per lo stesso motivo nella seconda stagione rischierà grosso solo per mantenere il segreto sulla malattia genetica di Thomas Smith: vuole salvare un ragazzo malato, anche se è un ragazzo nazista; e analogamente ucciderà piangendo il padre della sorellastra, Dixon, membro operativo della resistenza – perché “quel figlio di puttana di Smith potesse vivere” – ma in quel momento Smith, il gerarca nazista, è l’unica persona che puo’ evitare la guerra nucleare: “San Francisco è ancora in piedi e milioni di persone sono vive grazie alla tua scelta, grazie a quello che di buono c’è in te, Juliana” – così la consola Abendsen. E infatti solo Abendsen e Tagomi, e – presumibilmente nella terza stagione – Juliana stessa, forse proprio in virtù di questa loro non ambiguità essenziale, di questa lealtà profonda verso la propria autenticità interiore contro tutto e tutti, posseggono la facoltà di viaggiare fra i mondi.

Sull’altro fronte, quello dei cattivi, Joe Blake è invece il massimo dell’ambiguità. Innamorato di Juliana, l’ha salvata da un killer nazista ed è stato a sua volta da lei salvato, crede che per causa sua la ragazza sia stata giustiziata dalla Resistenza per aver trasgredito all’ordine di tendergli una trappola e soffre nel suo ricordo, finché non scoprirà che la girl on the run si è rifugiata proprio nel Reich, a New York, e proprio sotto la protezione del gerarca John Smith (che in realtà vorrebbe usarla per rintracciare Abendsen). Figura in un certo modo speculare a quella di Juliana, anch’egli è alla ricerca di un proprio percorso autonomo e di una possibile coerenza e lealtà individuale, seppure sul fronte sbagliato: “Io sono fedele solo agli uomini – dice – non alle ideologie”: una dichiarazione che anche Juliana potrebbe condividere. Scoprirà nella seconda stagione di essere figlio di un importante gerarca del Reich che lo aveva generato nel contesto delirante del progetto Lebensborn e poi abbandonato. Titubante da prima, deciderà di fiancheggiare il padre, proprio nel momento sbagliato in cui i maneggi dell’ambizioso Reichminister per eliminare il morente Führer e sostituirlo alla Cancelleria del Reich vengono scoperti e neutralizzati.

Più scialba e inconcludente la figura di Frank Frink: fidanzato ufficiale di Juliana, ebreo che sta riscoprendo segretamente le sue origini, come nel romanzo fabbrica falsi oggetti vintage che smercia ai giapponesi in collaborazione con l’antiquario Robert Childan, subisce varie e tortuose traversie con la Kempeitai e con la Yakuza; dopo aver cercato nella prima stagione di attentare, con esiti fallimentari, alla vita di Akihito, il principe ereditario in visita ufficiale nei territori americani dell’Impero, nella seconda stagione, oltrepassato il desiderio di vendetta personale contro i giapponesi che gli hanno sterminato la famiglia e assunte motivazioni di riscatto più collettive, finisce per entrare sul serio nella Resistenza e organizzare un sanguinoso attentato quasi kamikaze contro il comando della Kempeitai, dove crede si stiano conducendo ricerche nucleari: resterà coinvolto lui stesso nell’esplosione. Il suo apparente sacrificio sembrerebbe al momento inutile se non addirittura controproducente: il freedom fighter Frink ha causato solo la morte di molti civili innocenti, rischiando di assassinare anche il riluttante fiancheggiatore degli oppressori Tagomi,  che è riuscito invece nell’intento di fermare, almeno momentaneamente, il conflitto salvando sia gialli che bianchi dalla strage nucleare.

Forse notando certe sproporzioni di carisma fra i personaggi, qualche critico statunitense ha affermato che in questa serie i burocrati sono più affascinanti dei ribelli: gli esponenti della Resistenza sono opachi e poco imponenti mentre gli scherani dell’Asse sembrano invece degni di una tragedia shakespeariana. Forse l’attenzione particolare per i bad guys è dipesa solo dal decòr più accattivante, fatto di svastiche e di uniformi; forse da sempre il carnefice ha affascinato drammaturgicamente più della vittima, Iago è più interessante di Otello e Otello diventa interessante solo quando strangola Desdemona; o forse, in modo meno semplicistico, agli autori premeva piuttosto polemizzare in modo ellittico e trasversale contro ogni visione rassicurante e quietistica dell’american way of life – e in questo risiederebbe la maggiore aderenza allo spirito di Phil Dick – ribadendo che l’America non è refrattaria a priori ai germi del totalitarismo, che la patria della democrazia cela un vistoso “cuore di tenebra”, che, semplicemente, i bravi cittadini statunitensi in tragiche circostanze come quelle descritte, avrebbero reagito come tante altre volte nella loro sanguinosa storia: avrebbero chiuso gli occhi e si sarebbero adattati diventando infimi, imbelli e grigi o, come John Smith, adeguando il loro patriottismo alla ragion di stato, avrebbero giganteggiato come scrupolosi esecutori della volontà superiore. Persino i ribelli, persino i partigiani, possono assumere i metodi brutali e cinici dei vigilantes finendo per assomigliare fin troppo ai loro oppositori: gli eroi spicci e maneschi, i redneck elettori di Trump, i Rambo o gli Ispettori Callaghan, potremmo cercarli indifferentemente da una parte o dall’altra della barricata. Se il manicheismo è il difetto fondamentale e ricorrente di molta narrativa filmata statunitense, se il soldato Ryan è sempre buono e il nemico – chiunque esso sia – sempre cattivo, se “right or wrong is my country”, questa serie ha invece il grande pregio di confondere le acque, di essere radicalmente ambigua nel disquisire di ambiguità (intendendo per ambiguità non il tenere i piedi in due staffe ma lo spirito di autocritica e di allarmata consapevolezza dei propri limiti). L’America fascista e distopica che ci viene mostrata – ci suggeriscono gli sceneggiatori, deludendo ogni retorica patriottica – non è il totalmente altro ma un riflesso possibile, immanente e forse minacciosamente imminente. Il nemico prima di essere fuori è dentro.

Un messaggio che il fascino malsano di una certa iconografia e iconologia esalta e ingigantisce con eccesso provocatorio nella serie, a cominciare dalla devastante campagna pubblicitaria, poco prima della messa in onda della prima stagione, quando fu tappezzata di svastiche la metropolitana di New York. Ovviamente, giudicati di cattivo gusto, i cartelloni vennero subito rimossi. Il ricorso esasperato alla svastica è, seppur volutamente sgradevole, molto più sottile di quanto gli scandalizzati censori della serie abbiano immaginato: nazism in the USA, potremmo ironizzare parafrasando i Sex Pistols. E’ la stessa svastica che gli Hells Angels stampigliano da sempre sui giubbotti e sulle moto, che Charlie Manson si tatuò sulla fronte e che marchia centinaia di carcerati bianchi nei penitenziari di tutto il paese, la svastica del White Supremacism, del Ku Klux Klan e dell’American Nazi Party, istituzione riconosciuta che non ha avuto problemi a edificare addirittura un sacrario neo-nazi ad Arlington, Virginia, per accogliervi le ceneri di Savitri Devi, la profetessa del new age hitleriano. La svastica che ossessiona l’immaginario statunitense come l’ombra di Kurtz, lumaca che striscia sulla lama di un rasoio nell’eco di fanfare wagneriane mentre Charlie non fa il surf; o come l’ombra di Howard W. Campbell, il collaborazionista di Madre notte e di Mattatoio 5 di Kurt Vonnegut, fantasma della cattiva coscienza e del senso di colpa, perché “si deve stare molto attenti a quel che si fa finta di essere”.

Il personaggio dell’Obergruppenführer John Smith è la risultante di tutto questo tortuoso percorso: ex combattente, è passato dopo la sconfitta al ruolo di integerrimo tutore dell’ordine, nazista convinto e all’occorrenza spietato, è contemporaneamente un marito devoto e un affettuoso padre di famiglia, disposto a uccidere e ad infrangere ogni legge per salvare il figlio maggiore Thomas, affetto da una malattia ereditaria, dal programma eugenetico in vigore nel Reich che, una volta rivelata la sua tara, lo condannerebbe alla soppressione. La sua nemesi sarà il figlio stesso, nazista più limpido e coerente del padre, che considerandosi una delusione e una vergogna per la famiglia, ignorerà i privilegi dell’aiuto offerto dal potente genitore e si autodenuncerà, consegnandosi da solo nelle mani premurose dei medici eugenisti. La metafora è evidente.

Una linea narrativa davvero inusuale,  troppo polemica e anticonformista per una serie tv così costosa e importante. Tanto eversiva che potrebbe rischiare di essere sabotata dall’interno: l’abbandono, proprio a metà della seconda stagione, di Frank Spotnitz – già creativo di X-Files – uno degli ideatori e sviluppatori del progetto fin dai suoi esordi, a fianco di Ridley Scott, David Zucker e della stessa figlia di Phil Dick, Isa Dick Hackett, lo farebbe temere. Lo showrunner ha alluso, nelle laconiche dichiarazioni rilasciate ai giornalisti, a gravi e non meglio precisate divergenze fra lui e la Amazon. C’è da sperare che non si tratti davvero di controversie di ordine politico, di ingerenze e pressioni da parte della produzione miranti a invertire o depotenziare l’impatto trasgressivo che lo show è andato assumendo. E’ ormai certo che il nuovo showrunner per la terza stagione sarà Eric Overmyer, autore di serie come Treme per la HBO e Bosch per Amazon. Un autore che lascerebbe comunque sperare in una certa continuità, se non altro sul versante della qualità della scrittura. Ce lo auguriamo vivamente.