di Rinaldo Capra

nonno“Mi chiedo se l’arte, o l’artista, ha mai fatto altro se non isolare, rivelare, animare dare forza e accentuare l’individualità del singolo oggetto, percepito nell’abbondanza del mondo visuale” (Thomas Mann)

“Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra” (Thomas Bernard)

1
Le linee d’intersezione dei piani di pavimento, parete e soffitto, nel mio studio non esistono. Ogni piano è raccordato da ampie e morbide curve che uniscono in un’illusoria continuità il verticale con l’orizzontale, il sopra con il sotto, in un falso sconfinato unico piano, apparentemente piatto, senza fine, senza tempo, quantomeno tre delle quattro pareti della grande stanza, dove realizzando ritratti fotografici, disintegro due delle quattro dimensioni. Il senso dimensionale è controllato dall’illuminazione, che con ombre o riflessi, può rivelare la mancanza di angoli del cosiddetto limbo (una specie di enorme interno d’uovo), lasciare una sensazione di piano d’appoggio e un’ipotesi d’azimuth, oppure con sapiente scienza dell’illuminazione annientare completamente ogni relazione geometrica con il mondo di qualsiasi soggetto, in un bianco abbacinante o in un nero sconfortante, tranciando ogni legame con la miserabile realtà naturale di forma, luogo e tempo, ricreandola in sole due dimensioni, con la possente e tenebrosa nebulizzazione dell’arte fotografica, nella luce della mia personale interpretazione dell’essere in sé.
Gli attori o automi di ogni ritratto sono, in realtà, spettatori inconsapevoli di un rito magico, circolare e a loro incomprensibile, del quale io sono padrone assoluto poiché ne conosco codici e caratteri, che credono, loro, spinti da ingenua entropia, di poter piegare e tradurre nel linguaggio rettilineo e intelleggibile del raziocinio e della didascalia, nel vano tentativo di immaginare l’immagine prodotta dall’apparato per avere un mondo trasparente di sé, ma che non sapendolo concettualizzare li trascina nell’idolatria della testolatria.
Con loro stessi portano l’immagine alterata che hanno sempre di sé e credono di poterla interpretare e contrabbandare meglio se aiutati dall’esoterica e indulgente capacità del ritrattista che, alla fine, sperano li farà riconoscere per ciò che vogliono e narrano di essere e mai sono. Le distorsioni e aberrazioni di questa società istituzionalmente ignorante, materiale, priva di ogni forma di sensibilità artistica e umana, sono magistralmente e pateticamente interpretate, nei tentativi di dare un’immagine di sé iconograficamente accettabile nell’immaginario collettivo, da parte di questi spettatori aspiranti attori durante una seduta di ritratto. Incapaci di guardare dentro e cercando solo fuori, invocano la magia della produzione di una loro immagine seppur cartacea: il ritratto. Da automi me ne danno mandato e secondo un programma necessariamente stabilito iniziano a muoversi secondo il caso, di fronte a quel giocattolo simulatore di pensieri che è la macchina fotografica, convinti che la ridondanza di informazioni, che mi esibiscono, li avvicini a un’illusoria possibilità di riconoscersi ed essere riconosciuti, accettarsi ed essere accettati, in quel sentiero che sta tra loro e la morte: la realtà. Parlano, mi sommergono di meta-codici per spiegarmi la loro immagine in potenza e chiedendomi di fare da funzionario della fotocamera, come se essa avesse già in sé tutto il programma del loro ritratto. Ma ciò non è mai possibile. Li osservo avvicinarsi al set preoccupati, deboli, in cerca di un mio consenso come bambini insicuri, con i visi spesso tesi in risatine sardoniche d’incertezza, pudori caustici o esibizionismi isterici, ma con un unico incubo: riuscire ad interpretare sé stessi ed averne di riflesso un’immagine riconoscibile al mondo per ciò che vogliono credere di essere. Quasi mai noto altro che la terribile vacuità che esprimono quando si tratta dell’immagine personale. Anche i timidi e ritrosi, quelli che non vogliono farsi ritrarre, gli eterni traccheggianti, un piede su e uno giù dal set fotografico, con i loro piagnistei sono sempre così lontani dall’idea di loro stessi e accomunati a tutti gli altri dall’insostenibile orrore e meraviglia di non riconoscersi, di non esser riconosciuti e quindi di non essere. Tuttavia sono loro stessi che senza nessuna ironia vengono vestiti di falsità, tradendo la loro intima essenza, lontani dall’anima. Nessuno sa più farsi ritrarre con disinvoltura. Difficile trovare qualcuno che abbia un’intima e sensibile immagine di sé. Nessuno è disinvoltamente lontano dal suo aspetto corporeo e vicino a ciò che veramente è, per ciò che ora è, che poi, dopo la morte, non sarà. Loro stessi negano la loro esistenza in quanto esseri incapaci della minima trascendenza, come fossero già morti, sospesi sul mio limbo tra terra e cielo ideale, nell’assenza della coscienza. Allora di fronte a quell’agglomerato informe di pensieri e volontà, dopo un attento studio dei sintomi, produco l’automa che secondo il mio programma e l’aiuto degli apparati fotografici, alla fine del rito potrà diventare un’immagine, un ritratto. Come il dotto rabbino Bezhael Low nella Praga di Rodolfo, impasto l’argilla con cui creerò il Golem e a cui darò vita con l’inserimento dello Shem, il tassello d’osso su cui è scritto il magico, segreto e impronunciabile nome di Dio. In camera oscura poi, ridurrò cartaceo e inanimato il mio Golem, seppellendolo in fondo a un cassetto dell’archivio, che forse un giorno riaprirò in cerca di stupore.
La leggenda dice che il Rabbi Low per stanchezza dimenticò di togliere lo Shem dal Golem per il riposo del sabato e questi distrusse l’intero ghetto di Praga uccidendo migliaia di innocenti. Con uno stratagemma Rabbi riuscì a neutralizzarlo togliendogli lo Shem, il Golem cadde o terra impotente e privo di vita e fu nascosto in una stanza magicamente inaccessibile nello sinagoga Vecchio-Nuova, dove tutt’oggi giace inanimato, ma se qualcuno, che conosce la combinazione di caratteri magici dello Shem, lo ritrovasse, potrebbe riportarlo alla vita con il suo devastante potere.

2
Ricordo che da bambino fui portato da mio nonno per il primo ritratto fotografico della mia vita. Il nonno, vecchio radicale socialista, eroe della prima guerra mondiale, viveva con enorme tensione il momento di creare un’immagine tecnica di sé, il suo sembiante cartaceo bidimensionale. Il fotografo, amico suo e compagno di partito, aveva lo studio a poche centinaia di metri dalla casa del nonno, ma ciò nonostante i preparativi furono lunghi e laboriosi, come per un lungo viaggio. Dapprima bisognava comunicare ufficialmente il progetto a mia madre, che lavorava da sarta in casa, lontana e disattenta a qualsiasi problema che non fosse economico. Così, si presentò sull’uscio di casa e, impettito e con aria severa e di circostanza, disse a mia madre, china sulla macchina da cucire, che era ora che lui ed io avessimo un ritratto ufficiale assieme, visto che ero l’unico nipote che aveva e che lui, il nonno, vista l’ormai avanzata età voleva essere ricordato da me ancora valido, nella sua stupefacente forza fisica e morale, prima dell’immancabile, ma per me bambino impossibile, decadimento. Mia madre abituato al tono marziale e un po’ pedante del nonno, alla sua richiesta, non sollevò neppure lo sguardo, disse solo: – E chi paga? – Il nonno assicurò che il pagamento del fotografo, compagno fotografo dovrei dire, sarebbe stato totalmente a suo carico e ricevette da mia madre uno stralunato cenno d’assenso, e così dette l’avvio all’operazione ritratto. Per prima cosa stabilì che quella notte avrei dormito da lui, anche se la distanza tra le due case era irrisoria, perché dovevamo prepararci al particolare momento che ci attendeva, con solennità e, come dicevo lui, rango. L’indomani ci aspettava un ritratto, un vero ritratto, non una di quelle stupide fotografie che servivano solo agli sbirri per riconoscerti e sbatterti dentro dopo uno sciopero, o per appiccicarle su un documento, dove tutti i proletari erano rappresentati nella brutalità dello loro condizione infame e avevano delle facce da scemo, diceva, come quelle pubblicate su un libro di teorie lombrosiane, che mi avrebbe poi fatto vedere. Un ritratto intenso, studiato, che avrebbe dato dignità alla nostro condizione di intellettuali rivoluzionari e illuminati, che affrontano a viso aperto con arte e poesia, l’ostilità di un mondo orrendo e ingiusto. Naturalmente ero emozionato e Felice di essere coinvolto dal nonno in una cosa che riteneva così seria ed importante e di essere io stesso messo sul suo stesso piano di rivoluzionario. In famiglia, alla meglio si ridacchiava delle idee del nonno, senza mai prenderle sul serio; le si attribuiva a una ferita di baionetta alla testa durante la guerra, sull’Isonzo, che oltre ad aver lasciato una vasta cicatrice vicino all’orecchio, si diceva ne avesse accentuato il già eccentrico carattere. Giunti nella sua “officina”, come chiamava uno scantinato sotto casa, dove faceva un po’ di falegname e si rifugiava a leggere i suoi libri ordinati in un’ampia libreria di noce da lui stesso costruita, avvisò la nonna che sarei rimasto a cena e a dormire e subito cominciò la preparazione al ritratto. Iniziò immediatamente a sfogliare vecchie riviste e libri di storia, facendomi vedere ritratti di re e generali, che quantunque da aborrire come simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, avevano comunque cultura e sapienza, erano, come diceva lui, proprietari dei mezzi di produzione industriali ed intellettuali ed era significativo, quindi, come posassero in quei ritratti per dare alla storia la possibilità di conservarne uno loro immagine significativa. Mi faceva notare come tutti stessero attenti a rendere vivace l’occhio, il viso sereno, ma inflessibile nel rigore morale dell’atteggiamento; serio, ma mai altero e come il sobrio decoro regnasse nei loro abiti. Trovò anche fotografie di anarchici e rivoluzionari, dei quali elogiò lo fierezza dello sguardo, ma criticò lo scarso rispetto per le convenzioni correnti di abbigliamento, concludendo che chi non ha rispetto per il proprio aspetto, non può pretendere di essere rispettato. La dignità del proprio aspetto esteriore non è una vacuità borghese, infatti con queste teorie sciatte diceva, lo rivoluzione non si era ancora fatta. Convinto di avermi esaustivamente illustrato i miei doveri di essere umano libero rispetto alla fotografia, onde essere eternamente trasparente al mondo, passò a cercare, nella sua vecchia cassa da soldato della prima guerra mondiale, oggetti e simboli da portare con sé per il ritratto e, mentre lo faceva, mi parlò di un suo amico, che aveva combattuto nelle guerre d’Africa, che gli aveva raccontato che quei poveri esseri, gli africani, totalmente superstiziosi e ignoranti, capaci persino di adorare un pezzo di legno o d’osso, diceva, avevano paura a farsi fotografare, temendo gli fosse rubata l’anima.
Il mattino successivo andammo dal fotografo. Fui subito affascinato dagli apparati tecnici, mi divertii molto e non ricordo quasi nulla delle discussioni etiche che si protrassero per ore, fino a mezzogiorno, prima nello studio fotografico e poi all’osteria, sulla pretesa del nonno di avere davanti a sé mentre si posava per il ritratto, uno specchio per controllare la propria espressione ed essere cosciente dell’aspetto omogeneo e unico che voleva dare e quindi essere. Lui voleva essere quel che voleva apparire, autenticamente, intimamente e senza la menzogna di mediazioni culturali: così era!. Conservo ancora quella foto.

3
Ogni volta che finisco un ritratto, sento il bisogno di sedermi al centro del limbo e smarrirmi. Rivolto in modo da avere tre lati senza spigoli che mi avvolgano su tutto l’arco visivo, sistemo l’illuminazione con un riflesso esattamente a metà della mia visuale per sentirmi galleggiare in un piatto e nebbioso paesaggio padano, dove la linea dell’orizzonte non è altro che un lieve bagliore all’incontro tra biancastro cielo e grigiastra terra e tutto è immobile. Guardo il ritratto, respiro e pensa alla morte. Pian piano mi avvicino con lo sguardo alla pupilla riprodotta sulla stampa e mi accorgo che è un terrificante pozzo scuro, in cui precipito sgomento con orrore, nel tentativo di attraversarla come un acrobata che cammina sul filo, spaventato perché non ancora morto, perché sconfitto dalla paura. L’acrobata deve essere già morto prima di salire sul filo per liberarsi dalla paura, affidarsi alla sensibilità dei suoi piedi e armato solo della forza delle mani che stringono il lungo e pesante bilanciere, attraversare il pozzo senza provare la letale vertigine, quando a metà percorso il suo sguardo incontrerà la sua immagine in bilico che si riflette nelle gelide e tenebrose acque di cui è colmo il fondo. Ogni pupilla di ogni ritratto, seppur diverso per espressione e intensità, seppur diverso per tecnica di ripresa è sempre comunque un pozzo scuro, nel fondo del quale, ancor più inquietante per l’aberrazione della prospettiva sferica, si riflette la mia immagine di acrobata terrorizzato in spettacolo. Immagine avvinghiata all’apparato, persona viva e meravigliata davanti o uno stolido pubblico fatto di una sola persona che non resiste alla vertigine dello specchiarsi e precipita infrangendosi nel proprio riflesso nel fondo nero che doveva vincere e attraversare. L’incontro inaspettato con lo propria immagine é insostenibile. Del resto da molto tempo nella mia casa e nel mio studio sono stati banditi tutti gli specchi. Ogni volta che mi trovavo davanti a uno specchio scrutavo il mio occhio con intensità estenuante, cercavo nell’iride, nella pupilla o nella purezza del bianco del bulbo, anche il più piccolo segno di identità peculiare e personale o di cambiamento. Era sufficiente uno sguardo e l’accessorio domestico denominato specchio si attivava con perversa efficacia, rimandandomi un’altro me stesso sconosciuto e per quanto facessi per orientarmi, mi smarrivo nell’angoscia agorafobica dell’immenso vuoto che trovavo nella mia pupilla. Enormemente rassicurante cominciare ad esplorare le pupille altrui, trasformarmi in ritrattista fotografico e speculare, ignorando di specchiarmi nelle pupille degli automi fotografici ai quali avevo dato vita e identità, seppur bidimensionale, a mia discrezione e vivendo emozioni per procura come fossi un terzo escluso. rinaldo Nella mia anabasi, certo della mia identità verso me stesso e Dio, al punto da non aver bisogno d’avere un’immagine mentale di me, ma solo dei miei automi ritratti, mi scontro con l’involontario specchiarmi in ogni occhio che ho fotografato, diventando il terrorizzato acrobata che precipita in ogni pozzo buio che tenta di attraversare sfracellandosi nella tenebra che fa da specchio. Ne ho terrore. E’ straziante la sensazione di caduta in questo occhio. Mi procura dolore e tensione insostenibile e incredibilmente non ho alcuna voglia di fuggire e di sottrarmi a questo sofferenza, ma attraversarla, sentendola fino in fondo per l’orrore e l’incertezza che mi spetta per nascita e che è il mio io. Non mi resta altro che smettere di fotografare estranei e comprarmi uno specchio,oltretutto quel che vedrò sarà il solito e non una novità.

Riferimenti bibliografici
W.Benjamin – L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Einaudi
V. Flusser – Per una filosofia della fotografia – Agorà Editrice
R.Barthes – La camera chiara – Einaudi
H.Schawarz – Arte e fotografia – Bollato Boringhieri
I.Calvino – Le avventure di un fotografo – Einaudi

N.B.
Il presente testo è stato precedentemente pubblicato, salvo alcune piccole modifiche, come introduzione al catalogo della mostra “Controcanto“ – Palazzo Gambara, Verolanuova (Bs) 1998

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