di Alessandro Villari

Feliz-JosetxoEzcurra

La sirena mi trafigge il cervello, o quel che ne resta. Vedo la guardia avvicinarsi col bastone, fa segno di mettermi in fila con gli altri. Il primo istinto è addentarla, ma ormai abbiamo imparato che non serve a niente, si rischia solo di prendere botte. Non era così all’inizio: bastava un morsetto e quelli cadevano, strabuzzavano gli occhi, si dimenavano. E quando si rialzavano erano come noi. È così che in pochi giorni siamo diventati tanti, e saremmo cresciuti ancora.

Caracollando al meglio delle mie possibilità, raggiungo la fila che si dirige lentamente fuori dalla fabbrica. Ci chiamano tutti “G”, noi di questo turno. All’uscita incrociamo la colonna di “H” che comincia il lavoro, tra dodici ore toccherà agli “I”. Altre guardie ci aspettano e ci fanno salire su due grandi camion, uguali a quelli su cui ci hanno caricato quella mattina, dopo la pioggia appiccicosa, quando quelli hanno smesso di cadere e hanno cominciato a picchiare.

Partiamo. Dai buchi sul tetto del camion vedo quadretti di cielo. È buio, ma ultimamente ci sono tante luci, a volte si sente anche della musica. Non capisco quanto duri il viaggio, non abbiamo il senso del tempo noi, ma ci sono molte curve, e a ciascuna tutti oscilliamo a destra o a sinistra. Alla fine, come ogni giorno, il camion si ferma proprio davanti al recinto. La lettera G, colorata di rosso, campeggia in grande sul cancello: so che è proprio la lettera G perché è uguale al mio nome che mi hanno stampato sulla maglietta. La maglietta ce l’hanno data loro, non serve a coprirci né a scaldarci – non soffriamo il freddo, né la vergogna – ma solo a identificarci; era bianca all’inizio, ma adesso si è tutta imbrattata per l’unto delle macchine e del cibo e per la nostra stessa sporcizia: per fortuna non sentiamo nemmeno gli odori.

L’unica esigenza che abbiamo, in effetti, è mangiare. Per questo, quando scendiamo dal camion, lanciano a ognuno un pezzo di carne, cruda e sanguinante, prelevandolo da una grande cassa, all’entrata del recinto. Nemmeno questa volta riesco a prenderlo al volo: il brandello mi colpisce sul braccio proteso per afferrarlo e cade nel fango. Lo raccolgo e ci soffio sopra, per antica abitudine. Neppure gli altri hanno riflessi più pronti: il piazzale è un gran cozzare di teste nel tentativo di strapparsi a vicenda il pezzo di carne più grosso. Chi è riuscito ad afferrare il suo, comincia subito ad addentarlo, vorace: è dalla sera prima di questa che non tocchiamo cibo. Da quando ci costringono ad andare in quella fabbrica, infatti, non ne troviamo altro oltre a quello che ci danno loro, quando torniamo dal turno di lavoro. Nei primi giorni dopo la pioggia, qualcuno aveva provato a mangiarsi un compagno, ma si è capito presto che la nostra stessa carne non ci sfama, non vale la pena attaccarci a vicenda.

Nonostante abbia molta fame, io però mi limito a dare un piccolo morso: il resto della carne lo conservo per M. M. l’ho conosciuta prima della pioggia appiccicosa, era ancora il periodo in cui si poteva morsicare la gente: stava vicino a me, da qualche parte, e l’ho azzannata. Forse anche per questo mi sento responsabile per lei, così, adesso che non può lavorare, divido con lei la mia razione di carne. Dopo che i camion ci hanno portati qui la prima volta, lei era finita in un altro recinto, il recinto M appunto, ma io l’ho ritrovata e l’ho portata qui nel recinto G. Le ho trovato una maglietta con sopra stampata la G, in modo che, se anche le guardie dovessero notarla, non ci farebbero caso.

Alle mie spalle, i camion rombano via, a prelevare quelli di un altro recinto. All’inizio pensavano che noi non avessimo bisogno di riposare, ma nel giro di qualche settimana hanno verificato che dopo dodici ore di lavoro consecutivo diventiamo sempre più lenti: perciò ci hanno divisi in turni e hanno costruito i recinti e ci hanno messo le magliette. Dico “recinto” perché non conosco molte parole, ma in realtà è un posto grandissimo, come un quartiere di una città, disseminato di piccole costruzioni che servono perlopiù da riparo. Non so quanti siano questi quartieri, ma da qui non se ne vede la fine. Ho sentito dire in fabbrica che un’acqua simile a quella della pioggia appiccicosa l’hanno usata anche su chi ci lavorava prima, per farli diventare come noi. Credo che ormai nelle fabbriche non ci sia più nessuno di loro, tranne le guardie.

Ciondolando mi dirigo al giaciglio che mi sono trovato, sotto una specie di capanno aperto in mezzo a bidoni vuoti, isolato da tutti gli altri: ci stiamo soltanto io e M, da quando ce l’ho portata. Se potessi affretterei il passo: voglio darle la carne e vedere come sta. La pancia, che era già un po’ prominente il giorno in cui la morsi, si è poi gonfiata sempre di più, tanto da impedirle di lavorare, e credo che le faccia male. Di pari passo è aumentata via via anche la sua fame: perciò lascio a lei ben più di metà della mia razione.

Nelle vicinanze del capanno comincio a notare qualcosa di insolito: nella mia stessa direzione camminano altri, che indossano magliette con lettere sconosciute. Come sono entrate nel nostro recinto? E perché vanno verso il mio riparo? Sono preoccupato per M, d’istinto digrigno i denti in direzione delle figure più vicine, ma quelle ricambiano con uno sguardo privo di ostilità. Non posso che adeguarmi.

Il capanno è circondato da una moltitudine. Non sono in grado di contare quanti siano, ma non ho mai visto tanti di noi tutti insieme, sembra che i recinti si siano svuotati e riversati qui. Per farmi largo devo usare le braccia e perfino qualche morso. Finalmente intravedo M, sotto la tettoia, mi pare tenga in mano qualcosa, forse un pezzo di carne che si è procurata chissà come. Infatti vedo che si china per addentarlo… ma invece no, si limita ad appoggiarci sopra la bocca. Che stia aspettando me per condividerlo?

Ma quando sono abbastanza vicino da toccarlo… sorpresa! Il pezzo di carne si dibatte, muove piccole braccia e piccole gambe, in effetti sembra proprio uguale a noi, in miniatura. Vedo M alzare gli angoli della bocca, la guardo meglio e resto di sasso per la seconda volta in pochi istanti: la pancia, non c’è più! Si è come svuotata, nelle dodici ore in cui sono stato via. Sono così stupito che quasi mi scordo di darle il cibo che ho conservato per lei. M ne strappa coi denti un boccone, lo mastica un po’ e poi lo infila tra le labbra sdentate del piccolo, che trangugia con espressione soddisfatta. Penso che questo nuovo arrivato debba chiamarsi G, perché è nel nostro recinto che è spuntato, senza nessuna maglietta: più tardi gliene cercherò una.

La folla non smette di aumentare intorno a noi. Vedo alcuni G farsi largo reggendo sopra la testa delle carcasse sanguinolenti, sembrano pecore: devono essere riusciti ad aprire i cassoni in cui le guardie conservano il nostro cibo; ma per sfamare tutti ci vorrebbe qualcuno che le moltiplicasse con un miracolo. Incredibilmente, vengono fatti passare senza che nessuno provi a strappare loro il prezioso carico, finché lo depongono ai piedi di M, che addenta una pecora e poi passa la carcassa ai più vicini. Gli occhi di tutti brillano come non era mai successo dopo l’epidemia: non è solo la carne inaspettata, ma qualcos’altro che non riesco a definire.

In lontananza i camion cercano invano chi portare in fabbrica. Sento dell’acqua scendermi dagli occhi mentre penso che per ognuno di loro, qui, ce ne sono cento di noi. Mi guardo intorno e credo che anche gli altri stiano pensando la stessa cosa. Un razzo sparato da un convoglio illumina la notte, sembra una stella. Siamo non morti, non siamo morti.