di Fabrizio Billi

UnaGenerazioneDEmergenza

Silvia Casilio, Una generazione d’emergenza. L’Italia della controcultura (1965-1969), Le Monnier, Firenze, pp. 376, € 28,00

Quando si parla di ’68 e dintorni, sono molte e diverse le immagini che vengono in mente: le occupazioni delle università, gli scioperi, la strage di piazza Fontana, Pinelli, Don Milani, e mille altre. Uno storico che dovesse rispondere alla domanda “cos’è stato il ’68?”, dovrebbe considerare molti aspetti diversi: non solo la politica e l’economia, ma anche i cambiamenti nel costume e nelle strutture sociali (famiglia, scuola, ecc.). Le mobilitazioni del 1968 hanno infatti agito non soltanto sul piano politico ed economico, ma hanno anche cambiato la vita quotidiana.

Il libro di Silvia Casilio indaga su alcune delle matrici culturali che hanno contribuito a generare il movimento di contestazione del sessantotto: il movimento beat o, come venivano spregiativamente definiti all’epoca da molti giornali, “i capelloni”. E poi la contestazione degli studenti e quella dei cattolici. Fenomeni diversi accomunati però, come rileva Mirco Dondi nell’introduzione, da “un comune denominatore di temi che si afferma, contro l’autoritarismo, contro la società dei consumi, contro la guerra”. (p. XI)

Il movimento beat stesso comprendeva aspetti diversi: la passione per gruppi musicali come i Beatles, il Piper club a Roma, i giovani capelloni che scappavano da casa e vivevano nelle piazze italiane. Ciò che coinvolse una parte notevole dei giovani degli anni sessanta fu sicuramente la musica: “gli anni sessanta furono molte cose ma furono sicuramente anche e soprattutto il decennio dei Beatles e dei Rolling Stones, di Bob Dylan e Janis Joplin, di Jimi Hendrix e Jim Morrison”. (p. 29)

Più ridotti numericamente furono aspetti del mondo beat come “Mondo beat”, il giornale dei beat italiani, la cui tiratura era di qualche centinaio di copie. Oppure come la “comune” milanese di via Ripamonti.

Ci fu anche chi rivendicava la “purezza” del fenomeno beat e ne contrastava quella che giudicava una deriva consumistica. Ma, come nota Mirco Dondi nell’introduzione, “quello che all’autrice interessa è far capire come anche gli aspetti legati alla sfera commerciale introducano modificazioni importanti nel costume”. (p. IX) Anche il semplice fatto di portare i capelli lunghi o la minigonna, o di ascoltare musica rock, fu indicativo di una rottura di moltissimi giovani con la cultura, le tradizioni ed i valori familiari dell’Italia dell’epoca.

Per quanto riguarda il mondo beat, “i capelli lunghi, come si legge nel libro collettivo “Vivere insieme” edito nel 1974 dall’Arcana, acquistavano un significato politico esprimendo il rifiuto di una generazione nei confronti di un sistema di valori e di tradizioni in cui non ci si riconosceva più: quei capelli erano l’affermazione pubblica della propria diversità”. (pp. 33-34)

La parte più tradizionalista e “perbenista” della società italiana reagì al semplice fatto di portare i capelli lunghi come se fosse un atto di ostilità e non semplicemente un diritto ad una libera scelta individuale. Silvia Casilio analizza come la grande stampa descriveva i “capelloni”. A fronte di alcuni articoli, soprattutto della stampa locale, in cui si invita alla tolleranza, la maggior parte degli articoli di grandi giornali come il “Corriere della sera” riconducevano “ogni comportamento, da cui emergeva un disagio giovanile o semplicemente il desiderio di rompere con le regole e le tradizioni, alla categoria della devianza”. (p. 23)

Per quanto riguarda la situazione studentesca,  è sufficiente ricordare la vicenda del giornalino studentesco del liceo “Parini” di Milano, “La zanzara”, per capire quanto la società dell’epoca fosse arcaica. Nel 1966 i giovani redattori avevano realizzato un numero del giornalino studentesco sull’atteggiamento delle studentesse “di fronte all’educazione, alla cultura, alla morale, alla religione, al matrimonio ed al lavoro”. (p. 45) Alcune ragazze intervistate avevano fatto affermazioni come “non vogliamo più un controllo dello stato e della società sui problemi del singolo e vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non leda la libertà altrui”. (p. 45)

I redattori del giornalino furono denunciati perché l’inchiesta avrebbe avuto “contenuto idoneo a offendere il sentimento morale dei fanciulli e degli adolescenti”. (p. 46)

Anche la Chiesa fu interessata da fenomeni di contestazione, come la difesa dell’obiezione di coscienza da parte di Don Milani, in polemica con i cappellani militari, l’occupazione del duomo di Parma “contro la religione dei ricchi” o la difesa, da parte della comunità dell’Isolotto, del proprio parroco don Enzo Mazzi che il vescovo di Firenze voleva allontanare. “Le contestazioni e le agitazioni di quel periodo contribuirono alla nascita di un nuovo credente, un fedele che non si accontentava di fare pasqua, di mandare i figli alla prima comunione e di obbedire, tacendo, agli ordini della gerarchia ma che esigeva di vivere la sua fede in una chiesa rinnovata.” (p. 189)

Così, “dopo la scuola, la famiglia e l’università anche la chiesa sembrava essere stata travolta dalla contestazione”. (p. 182)

Il vento della contestazione investe tutte le strutture sociali. Non soltanto quelle trattate nel libro (famiglia, chiesa, scuola), ma bisognerebbe aggiungere anche esercito, magistratura e le professioni liberali (psicologi, medici, architetti, ecc.).

Silvia Casilio individua come tratto comune a questi diversi fenomeni della cultura e del costume al fatto che “i giovani stavano cambiando e rifiutavano i valori dei padri e una netta presa di distanza da quelli che erano sentiti come limiti e strettezze imposti dalla società adulta.” (p. 25)

Anche alcuni giornalisti ed opinionisti più avveduti “come Camilla Cederna, Lino Jannuzzi, Eugenio Scalfari, Enzo Forcella, Giorgio Bocca e altri lessero la nascita del movimento studentesco alla luce delle manifestazioni che i giovani avevano organizzato negli anni precedenti per protestare contro la guerra del Vietnam, per l’acquisizione di nuovi diritti (dal divorzio all’aborto), per contestare l’autoritarismo della scuola, della Chiesa e della famiglia”. (p. 3)

Soprattutto gli anni 1966 e 1967 sono ricchi di fermenti di protesta, che poi sfoceranno nelle mobilitazioni del 1968.

In seguito al 1968 cambiarono le caratteristiche dei movimenti di contestazione. Con la nascita dei gruppi politici extraparlamentari vennero recuperate tematiche marxiste-leniniste e la contestazione divenne più propriamente politica piuttosto che culturale. Eppure, “come metterà in evidenza Pier Paolo Pasolini nel 1973, i capelloni furono, nella maggior parte dei casi, assorbiti dal movimento studentesco e le tematiche per cui questi giovani avevano sfidato la società del benessere, dall’antiautoritarismo all’opposizione contro la guerra del Vietnam, si combinarono con la lotta contro l’aumento delle tasse universitarie e con la critica del nozionismo accademico, dando vita ad una contestazione globale”. (p. 126)

Le proteste sessantottine dunque decretarono la fine di un periodo e l’inizio di uno nuovo, “caratterizzato dal recupero di un forte impianto ideologico, che avrà come protagonisti i gruppi della nuova sinistra, quelli della lotta armata e, più in disparte almeno fino al 1976, quelli della controcultura”. (p. 124)

E’ vero che c’è differenza tra la conclamata ideologia marxista dei gruppi extraparlamentari e la ribellione antiautoritaria e pacifista del movimento beat, ma ci sono anche elementi comuni. Basti ricordare che, assieme a socialisti e radicali, molte organizzazioni della nuova sinistra si batterono a favore del divorzio in occasione del referendum del 1974, mentre il Pci fu piuttosto tiepido. Il timore di evitare “guerre di religione” con le masse cattoliche fu predominante rispetto all’affermazione di un diritto.

La sinistra, sia moderata che radicale, è stata ricettiva riguardo ai cambiamenti del costume e dei valori. Esperienze come Medicina democratica, Magistratura democratica, o quelle di Basaglia, nacquero nell’ambito politico della sinistra.

Come rileva Silvia Casilio, “il contributo dei beat fu determinante per l’esplosione del sessantotto: il movimento politico e quello controculturale si influenzarono reciprocamente a volte sovrapponendosi nella dialettica tra politica e non politica…non è possibile distinguere la dimensione culturale ed esistenziale da quella più propriamente politica”. (p. 124 – 125)

I movimenti degli anni ’70 ebbero sicuramente una caratterizzazione più propriamente politica che culturale e di critica del costume, ma i due aspetti sono strettamente intrecciati, ed anche se la distanza politica tra beat e gruppi marxisti è enorme, molti contenuti del movimento beat (antiautoritarismo, diritti civili, lotta alle strutture gerarchiche e repressive) furono assunti dalle organizzazioni politiche nate dal 68, che li declinarono in una visione classista della società. Vi erano delle continuità tra il movimento beat e gli studenti che occupavano gli atenei italiani, “la stampa dell’epoca ne colse una, forse quella più evidente: quelle minigonne, quei jeans, quelle scarpe di gomma, quei capelli lunghi, quelle camicie a fiori che riempirono le aule degli atenei e delle scuole…erano gli stessi che avevano tanto scandalizzato parte dell’opinione pubblica negli anni precedenti”. (p. 127)

Vi fu insomma un incontro-scontro tra il mondo della controcultura che precedette il 1968 e le istanze politiche nate dal 1968: “il 1968 non nacque dal nulla: l’underground ne preparò il terreno venendone poi sommerso, messo ai margini dalla forza d’urto tutta politica assunta dal movimento studentesco”. (p. 11)

In parte vi fu anche una trasformazione di una parte del movimento beat in senso più politico. Per esempio, uno dei protagonisti del movimento beat, Andrea Valcarenghi, si trasformò “da convinto sostenitore della metodologia provocatoria pacifica a “compagno” pronto a scendere in piazza armato con più di fiori o di volantini contro l’esercito – come fece il 2 giugno 1967 – ma di bastoni e porfido”. (p. 156) Così pure il movimento studentesco si trasformò, nell’autunno 1968, con la decisione di uscire dalle università, il che portò alla creazione di nuove organizzazioni politiche. Nella radicalizzazione dei cattolici ebbe un peso importante l’attenzione ai “problemi degli esclusi dalla società del benessere sia nelle opulente metropoli occidentali sia nei paesi cosiddetti in via di sviluppo”. (p. 186) Il marxismo venne considerato lo strumento di interpretazione più corretto per spiegare le cause della povertà.

Le ragioni che contribuirono alla radicalizzazione dei movimenti di protesta , sono  individuate nella “repressione dello stato, la cultura rivoluzionaria del movimento, l’incapacità della politica di dare risposte ai bisogni sociali”. (p. 159)

Quello che non cambiò fu l’atteggiamento della grande stampa. Nel 1968, “giornali come “la Stampa” e il “Corriere della sera” sostituivano la campagna contro i capelloni con quella contro gli universitari, definiti teppisti, perdigiorno e cinesi”. (p. 163)

La modernizzazione della società italiana fu così in gran parte opera di settori culturali e politici estranei alle principali culture politiche dell’epoca. Il mondo cattolico e la sua espressione politica, la Dc, erano il fulcro delle istanze conservatrici. Il Pci fu il maggior beneficiario della modernizzazione sociale e culturale, in quanto maggior partito della sinistra, ma non fu agente trainante della modernizzazione. I liberali erano l’espressione politica dei ceti più ricchi, alieni da qualsiasi discorso sui diritti civili e la libertà di espressione.

La nuova sinistra, i radicali ed in parte i socialisti furono invece, in forme e misure diverse, gli attori politici della modernizzazione sociale in Italia. Ma soprattutto cambiò la società civile. Prima del 1968, poteva succedere che un preside sospendesse una studentessa perché si faceva accompagnare a scuola dal fidanzato, come avvenne in una scuola a l’Aquila. Poteva succedere che, come al liceo Plinio seniore di Roma, il preside sospendesse tutti i ragazzi con una chioma troppo fluente e tutte le ragazze ree di non indossare il grembiule nero. Poteva succedere che, come avvenne in una scuola di Udine, venisse sospeso un ragazzo perché non vestiva la giacca sopra la camicia. Fino al 1968, all’università Cattolica di Milano, “le ragazze non potevano entrare indossando pantaloni o abiti senza maniche”. (p. 43) Dopo il 68, questi episodi non avvennero più.

Prima del 1968, il maggior quotidiano italiano, il “Corriere della sera”, aveva una rubrica, “il mondo della donna”, in cui la maggior parte degli articoli “affrontavano lo spinoso e cruciale problema del rapporto tra le signore e le domestiche” (p. 43) con titoli come “La difficile coesistenza tra signore e domestiche”, o anche “Il nemico tarlo” e “Una mattina al mercato”. Basti pensare agli attuali supplementi femminili del “Corriere della sera” o “Repubblica” per rendersi conto di quanto è cambiato col 1968.

Un pregio del libro è di non considerare la modernizzazione sociale indipendentemente dalla situazione dell’economia italiana. Anzi, la modernizzazione sociale viene vista come conseguenza della modernizzazione dell’economia. Tra il 1958 ed il 1963 l’economia italiana cambia volto: “la produzione industriale risultò più che raddoppiata e le esportazioni divennero il settore guida della nostra espansione economica”. (p. 16) L’impetuosa trasformazione del paese da agricolo in industriale “favorì il modello di vita americano…travolse di fatto la religiosità tradizionale legata al mondo contadino creando le premesse di quei processi di secolarizzazione che si manifestarono alla fine degli anni sessanta”. (p. 16)

Il cambiamento dell’economia comportò inoltre “un aumento del numero degli operai comuni e dequalificati” (p. 222) che furono protagonisti delle lotte operaie del 1969 e degli anni seguenti.

Infine, lo sviluppo economico incrementò, in Italia come negli altri paesi industrializzati, il numero degli studenti delle scuole superiori e delle università. Questo sia perché le industrie avevano necessità, oltre che di operai-massa alla catena di montaggio, anche di tecnici specializzati, sia perché le migliorate condizioni economiche delle famiglie facevano sì che i figli potessero essere mantenuti in condizioni di studiare a lungo, pur con notevoli differenze tra figlie di famiglie ricche e figli di famiglie povere.

Le lotte degli studenti sono sia contro l’autoritarismo dei presidi e docenti, sia contro le “condizioni in cui versava la scuola italiana, i suoi insegnanti troppo vecchi, i programmi obsoleti e inattuali, le sue strutture incapaci di ospitare l’aumento degli alunni”. (p. 172)

Le dinamiche culturali e politiche analizzate dal libro fanno emergere il 1968 come l’acme di un processo di modernizzazione e di radicalizzazione che, “sebbene non sia stato capace di incidere in modo significativo né sull’organizzazione della rappresentanza, né sugli orientamenti elettorali, né sugli aspetti istituzionali, riuscì a modificare la cultura e la società”. (p. 4)