di Anna Luisa Santinellipartigiano inverno.jpg

È scritto con un lessico ricercato, ma privo di qualsiasi intento elitario il romanzo di Giacomo Verri, interessante opera d’esordio che porta il titolo di Partigiano inverno (Nutrimenti 2012, pp. 240, € 17.00), finalista al Premio Calvino 2011. Si tratta di una lingua variegata, colta e inattesa, coraggiosamente in controtendenza rispetto ai canoni di vendibilità che regolano in parte l’odierna produzione editoriale.
Riga dopo riga l’autore si è preso cura delle parole ideando un linguaggio costellato di neologismi, innesti dialettali, omaggi carichi di riconoscenza (Fenoglio, Calvino, Omero, Dante…), fruscii onomatopeici ed elenchi raffinati per raccontare l’epica della Resistenza nei territori della Valsesia. E poco importa se qualche passaggio può essere imputato di un surplus di artificio, quel che conta è l’aver plasmato una forma linguistica originale per dare sostanza a un argomento di questi tempi tristemente démodé.
L’anno è il 1943 e ciò che supporta gli accadimenti narrati è un sentito debito di gratitudine verso la lotta partigiana, l’affetto per i luoghi descritti e un’assidua ricerca documentaria celata con maestria, che aggiunge valore all’invenzione di una scrittura per certi versi magica.

1) Nelle pagine iniziali del romanzo usi il termine “sfasatura” quasi a suggerire, fin dal primo capitolo, una mancanza di adesione alla realtà da parte dei personaggi principali, un’assenza di azione nelle loro vite, uno scollamento tra riflessione interiore e prassi. È un’interpretazione corretta la mia?

Assolutamente. Il romanzo è costruito su un telaio la cui struttura altro non è che un diaframma che serve a sancire la separazione tra passato e presente, e, forse, l’impossibilità di recuperare quel passato in un presente caratterizzato dalla malattia dell’inesperienza.

L’idea di base da cui sono partito viene da un illuminante scritto di Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza (Bompiani, 2006), dove si descrive appunto la letteratura ai tempi della televisione, cioè una letteratura che ha sostituito l’esperienza diretta del mondo (come fu, per antonomasia, quella vissuta a esempio da chi ha fatto la guerra) con una sorta di esperienza indiretta, mediata, asettica, protetta, disinfettata, cioè sostanzialmente con una inesperienza; questa non solo crea un tipo di letteratura che non poggia più i piedi per terra, ma genera pure un cortocircuito che impedisce di gettare ponti verso il passato. Ora, Partigiano Inverno è anche la dimostrazione di questa lacerazione: lo è nella struttura edificata con una cornice di modello manzoniano; lo è con i personaggi che vivono un più o meno doloroso scollamento con il loro presente; lo è attraverso il linguaggio che, come dire, confonde e scombina la percezione semantica del lettore.

2) La contrapposizione tra i due bambini, Umberto e Gabriele, fa emergere gradualmente l’antitesi Fascismo/Resistenza raccontata, quindi, tramite il diaframma di uno sguardo non adulto. Perché hai adottato questo filtro?

Partigiano Inverno è un romanzo iperletterario. Il punto di vista di Umberto è, in un certo senso, una citazione, un richiamo al Pin di Calvino (come Jacopo ricorda Johnny, o Milton, e Italo si rifà al Corrado della Casa in collina). Ma, oltre a ciò, lo sguardo non adulto di Umberto (e di Gabriele) mi è servito perché solo in una dimensione bambina potevo posizionare dei sentimenti e degli ideali pieni che non sapessero di retorica.

3) La brutalità del regime dittatoriale esplode all’improvviso, violentissima, ma per buona parte del libro i fascisti restano in secondo piano, più evocati che tracciati in modo netto. Mi è sembrata una valutazione precisa, consapevolmente marcata. È così?

giacomo_verri.jpgCerto. Il romanzo è evidentemente un romanzo storico, ma non solo. O meglio, vuole essere qualcosa di diverso, che quasi assume la dimensione storica come pretesto per parlare dell’uomo, dei suoi vizi, dei suoi guasti, delle sue mancanze, delle nascoste vene di coscienza serbate tra fitti dubbi. Non mi interessava definire una posizione politica, ideologica, calata in una determinata prospettiva storica (sebbene di scorcio ci sia anche tutto questo, e sebbene tra i miei scopi inseguissi quello di restaurare il valore di una memoria impegnata). I miei personaggi sono piuttosto alla ricerca di loro stessi e, in questa quête, sono davvero colti da mille difficoltà le quali s’annidano in loro, e non fuori di loro. L’arrivo dei fascisti (aberranti mostri neri che occupano gli ultimi capitoli del romanzo) rappresenta l’ostacolo sommo e, a un tempo, l’incentivo, per i personaggi, a cercare e infine trovare una dimensione forse definitiva alla loro coscienza.

4) La descrizione del paesaggio ha un’importanza rilevante nell’impianto del romanzo. Tuttavia, tra le righe mi è parso di leggere qualcosa che va oltre l’amorevole legame biografico con i luoghi narrati…

Il paesaggio, la natura, gli scorci vengono verso il lettore con evidenza ipotipotica; in specie, la descrizione dei monti, degli alberi, delle condizioni atmosferiche ha assunto un ruolo incisivo nell’economia del testo. Questo perché, come scrivo nel capitolo conclusivo (Cose scritte dopo), “mi sembrò sensato far affiorare l’idea che l’uomo di oggi può paragonarsi a quello passato solo se posto di fronte alle cose della natura (e non della storia), che sono uguali da migliaia di anni: per questo è importante l’insistenza sugli elementi naturali, sui rami secchi, sull’inverno, sui movimenti del sole, sulla lusinga della ciclicità delle stagioni, su ciò che è a-storico, eterno, ancestrale”.
Non solo: mio intento è stato anche — ma non so se ci sono riuscito — quello di epicizzare i luoghi della mia vita, sottrarli allo sguardo abitudinario col quale li osservo normalmente per dare loro una dimensione inedita; volevo, in un certo senso, rendermeli ‘stranieri’ per poterli godere da una prospettiva meno prosaica; e su questo aspetto gioco anche all’interno del testo: a un certo punto faccio dire a Jacopo, con una punta di invidia, che le azioni dei ribelli sarebbero state altre, avrebbero avuto contorni più mitici, se fossero state vissute in luoghi dai nomi fantastici come Gorzegno, Mombarcaro, Treiso, Mango, ecc; quelli sono i luoghi fenogliani! Invece Jacopo agisce nei miei luoghi, a Borgosesia, a Varallo, a Serravalle, a Quarona, luoghi che, se pure all’inizio potevano avere avuto su di lui un potere ammaliatore, col tempo lo hanno però perduto.

5) Nella resa tragica della fucilazione elabori una sorta di slittamento: il realismo crudo dell’esecuzione è trasfigurato in una scena che ha i tratti antichi dell’eterna lotta tra Bene e Male; una scelta originale la tua, che utilizza la dimensione agiografica e i codici espressivi della religione popolare. Puoi motivare meglio l’uso di questo espediente narrativo?

La trasfigurazione del realismo è uno dei miei filtri, di quei filtri che ho adoperato per dare conto dell’inesperienza del presente rispetto al passato. E tuttavia l’insistenza sulla dimensione religiosa e la medesima personificazione del Santo Antonio mi sono servite a rendere — spero — universale, valida per tutti la dimensione di sofferenza fisica e di travaglio della coscienza vissuta da Italo.
Peraltro il tema religioso attraversa l’intero romanzo. Prima di tutto nel presepe che lentamente Italo Trabucco va costruendo giorno per giorno, quasi seguendo i gesti di un rito. E mentre accomoda il piccolo microcosmo poggiato sul muschio, racconta a Umberto le storie di Gesù, quelle tratte dai Vangeli apocrifi: così il piccolo mondo presepito diventa figura del mondo vero, un mondo di sofferenza e di travagli (emblematica in questo senso è la figura di Giuseppe; che non è il Giuseppe raccontato dai quattro evangelisti, ma è un uomo attraversato da dubbi ramificati e da obiezioni). E poi devo dire che, nel costruire il telaio del romanzo, mi sono trovato tra le mani una serie di coincidenze che tutte andavano a battere sul tasto religioso: a esempio, il muro dove avviene la fucilazione ha come corrispondenza all’interno della chiesa una cappella dove è la Madonna dei sette dolori, e quello, fin da subito, mi è parso un elemento significante da utilizzare nella descrizione del martirio.

6) La domanda sul registro linguistico di Partigiano Inverno è inevitabile: come hai lavorato sulla prosa nel corso della stesura?

Poiché, come dico in Cose scritte dopo, “ho inteso il linguaggio come un protagonista che subisce un’evoluzione, più grande o evidente rispetto a quella dei personaggi. Col procedere del romanzo esso si carica come una valanga disordinata che rovina giù: diventa bizzarro, insanito, folle, espressionistico a furia di afrodisiaci dialettali e vocabolarieschi”; poiché la lingua è davvero il quarto personaggio del romanzo, è evidente che essa doveva farsi notare, anche infastidendo il lettore (o affascinandolo, spero). L’idea di partenza è stata quella di costruire un tessuto linguistico che si scostasse da quello che si utilizza abitualmente; per far questo ho lavorato su due modelli di base: nei primi capitoli ho cercato di imitare quel bellissimo italiano che fu della prosa lirica in voga nei primi decenni del secolo scorso, quello insomma portato alla perfezione dagli scrittori che ruotarono attorno a riviste come La Voce o La Ronda; su tale basso continuo ho poi iniziato a inserire alcune stravaganze lessicali e sintattiche, rifacendomi in questo caso al filone dell’espressionismo, così bene illustrato da Gianfranco Contini, quello, per intenderci, che va dalla Scapigliatura a Gadda e ai suoi epigoni. Il tutto con lo scopo di trovare una via nuova per parlare da una parte di Resistenza, di memoria, di impegno, dall’altra dell’uomo anche contemporaneo e dei suoi disorientamenti.