di Maria Francesca Zini

MFZ01.jpgLa mano a tre dita teneva la penna con insospettata agilità.
I segni dell’inchiostro si sviluppavano, precisi e armoniosi, sulla carta: la spirale di una conchiglia che si avvolgeva fino alla punta e s’ingravidava poi di un boccio di fiore che portava in sommità una croce bombata.
“Questo”, disse il disegnatore, “ci porterà verso il cielo”.
L’uomo guardò il disegno, poi annuì lentamente: “Lo ricorderò”.
Il suo interlocutore levò verso l’alto gli sporgenti occhi da rettile, in segno di sovrumana impazienza.
Un dito ricoperto di squame batté sul disegno.
“Non devi ricordarlo, Antoni. Devi costruirlo”.

Caterina agganciò l’ultima fibbia del suo zaino. Era il regalo del suo quattordicesimo compleanno, sei anni prima. Ma era ancora solido, e non costava niente. Guardò con un sospiro la piastrina metallica incastonata sotto al suo polso destro. Il suo codice genetico e 400 neo, tutti i suoi risparmi meno il prezzo del biglietto. Cento neo. Maledizione.
Sua madre entrò nella stanza proprio in quel momento. La guardò, poi guardò lo zaino pieno e lo stato di generale devastazione della stanza. “Allora, hai trovato?” chiese preoccupata.
“Autobus e traghetto. Il treno costa davvero troppo, e ci credi che sull’aereo non c’era modo di infilare Kini? Quei bastardi, come se non fosse roba loro”.
“Ah.” Per la prima volta in due anni Marisa provò un appassionato amore per l’animaletto appollaiato sulla spalla di sua figlia. Kini era una specie di grossa lucertola, con ali membranose che sembravano fatte di carta velina e terrificanti minuscole manine a tre dita di cui una opponibile. Era il risultato di un’incursione del gruppo animalista di Caterina in un laboratorio di manipolazione genetica, due anni prima. Vicenda conclusa con denunce penali e con l’adozione di Kini da parte della ragazza. Marisa aveva sognato per mesi sogni in cui la creatura, di notte, strangolava con le piccole manine la sua bambina. Ma ora Kini stava salvando Caterina dal viaggio aereo. L’avrebbe baciata. Quasi.
“Mi spiace”, disse Marisa, senza alcun rimorso per quella bugia.
“Sara e Alex sono già lì e dicono che è grande. Sarà una bella vacanza”.
“Senz’altro”, disse Marisa. E, pensò in silenzio, se la guerra scoppia proprio in questo mese, la Repubblica Indipendente e Neutrale di Catalogna non è il posto peggiore dove potresti trovarti.

L’uomo rientrò a casa, dopo la messa serale. Pioveva, e la città era cupa dei fumi delle fabbriche. Dal mare spirava una fredda brezza autunnale. L’uomo entrò nell’atrio riscaldato e sospirò di contentezza, mentre la domestica lo aiutava a togliersi il lungo pastrano e il rigido cappello nero. “C’è un visitatore, signore”, disse la ragazza, “la aspetta nello studio”.
L’uomo si rabbuiò e si avviò verso la stanza. Nella poltrona accanto al lungo tavolo di legno un giovane uomo dagli occhi straordinariamente azzurri lo attendeva. Il padrone di casa lo guardò corrucciato.
“Non credo di conoscerla, Signor…?”.
Il giovane sorrise. “No. Ma io conosco te, Antoni”.

Jordi se ne stava seduto tranquillamente sulle panchine di fronte alla statua, in fondo alle Ramblas. Davanti a lui una fila di zattere galleggiava attorno ai rottami del Molo Nuovo, distrutto dal maremoto quindici anni prima. Le zattere erano illuminate da un gioioso gioco di luci nella sera che andava rapidamente rabbuiandosi. La città era adorna e in festa, e pullulava di gente. Mancavano pochi giorni alla grande inaugurazione della chiesa. Inaugurazione che coincideva sia con il centenario della morte dell’architetto che la aveva progettata, sia con il decennale dell’Indipendenza. Si prospettava una baldoria fuori dal comune.
Davanti a lui furoreggiava un traffico mortale di vetture di ogni tipo: nuove turbo a idrogeno, moto elettriche, perfino vecchie macchine a benzina. All’improvviso alla sua destra un rumore feroce di freni e clacson attirò la sua attenzione: una figuretta piegata sotto uno zaino enorme aveva avuto qualche esitazione nell’attraversare la strada e si trovava ora imprigionata fra due mura contrapposte di ruote che non volevano concederle la minima attenuante. Jordi scosse la testa, desolato, poi qualcosa gli battè sulla spalla e gli ricadde sulle gambe. Ebbe un guizzo di spavento: sembrava una libellula gigante — di dimensioni veramente mostruose — e il suo primo istinto fu quello di scaraventarla lontano. Ma la creatura alzò verso di lui uno sguardo scintillante e umido e la mano di Jordi esitò. Non era un insetto, per fortuna. Sembrava più una lucertola. Ma cosa…
“Kini!!”, la figuretta si era districata dal traffico. Era una ragazza, vide Jordi, e niente brutta. Nonostante lo zaino correva, addirittura. Arrivò vicino a lui, tese le mani verso le sue gambe e prese con delicatezza l’animale che vi si era appollaiato.
“Kini! Cattivaccia!”. La sua voce esprimeva esasperazione e stanchezza. Allungò un leggero scappellotto alla bestiola, che scappò a raggomitolarsi nell’incavo del suo collo, emettendo un gentile guaito. Jordi la guardò ancora curioso, poi sorrise alla ragazza.
“Grazie”, disse lei, in un catalano incerto. Gli si sedette vicino sulla panchina. “Mi spiace che Kini ti sia piombata addosso in quel modo. Non lo fa mai, ma era terrorizzata dal traffico. Ti ha spaventato?”.
“Non proprio. È un’innovazione genetica, vero?”.
“Sì. Ma non l’ho comprata, però. È una storia complicata. A proposito, io mi chiamo Caterina”.
Il ragazzo la guardò con due occhi ridenti e straordinariamente azzurri. “Mi chiamano Jordi. E le storie complicate mi piacciono molto”.

L’uomo era seduto sulla poltrona, la testa fra le mani. La creatura dalla faccia di lucertola esaminava i progetti sul tavolo.
“Non è quello che ti avevo chiesto”.
“Lo so. Ma devo fare altro, prima; altre costruzioni, case, palazzi. Solo così posso trovare i soldi per quello che mi chiedi”.
“Soldi”. La creatura sbuffò e indicò i progetti. “Solo per questo edificio serve sicuramente più denaro che per ciò che ti ho chiesto di fare”.
“Non se deve essere abbastanza grande”.
“Non deve essere molto grande”.
“Ma l’altro ha detto…”.
Una lingua biforcuta saettò brevemente oltre le labbra della creatura.
“Quale altro?”.

Jordi e Caterina passeggiavano insieme per la strada affollata, fra la gente che beveva, mangiava, chiedeva l’elemosina, si sfidava, cantava, e in generale si agitava moltissimo. Caterina aveva riprovato un paio di volte a contattare Alex o Sara, ma i loro Com risultavano regolarmente spenti. Si devono essere mangiati già tutti i soldi, pensò.
“Devo andare all’ostello”, disse al suo compagno.
“Non troverai mai posto all’ostello, in questi giorni. Ma puoi dormire da me, se vuoi, finchè non rintracci i tuoi amici. Non ho cattive intenzioni”.
“Vuoi dire che non intendi attaccare con armi batteriologiche gli stati eurocinesi? O che lo farai solo dopo aver vaccinato i tuoi alleati? Le cattive intenzioni sono difficili da definire, al giorno d’oggi”.
Risero entrambi, ma non in maniera convinta.

“Così non pensavi di venire all’inaugurazione?”.
“Non devi credere che abbia un sacco di soldi solo perché ho preso il mare invece dell’aria”. Caterina sembrava offesa. In fondo era contenta di esser stata costretta al traghetto. L’aereo era la soluzione meno costosa perché era la più pericolosa in assoluto. Le compagnie che trasportavano i civili usavano ormai apparecchi vecchi di trent’anni almeno. Incidenti, carburante caricato al minimo del calcolo e attentati frequentissimi nonostante le misure di sicurezza esasperate. Gli aeroplani erano quello che erano state le autostrade un paio di decenni prima: posti dove la probabilità di morire era piuttosto alta, ma dove quasi tutti andavano lo stesso. Come i chip, pensò Caterina guardandosi il polso. Potrebbero farci fuori solo con questo. Sono sicura che c’è il modo. Ma ce lo siamo messi tutti, c’è poco da fare. Senza questo ormai non puoi nemmeno comprare una dose d’acqua.
“L’inaugurazione è gratis”.
Caterina guardò Jordi stupitissima. “Stai scherzando”.
“Niente affatto”, lui rise. “È una celebrazione pubblica, se riesci a ricordarti cosa vuol dire questa parola. Però bisognerà infilarsi molto presto”.

L’uomo assisteva alla lite sulla terrazza della casa-acquario, il cui tetto si inarcava come una schiena di drago verdazzurro. L’essere dalla faccia di lucertola incombeva su quello con fattezze umane, che si era appena sfilato dalla testa uno strano elmo di metallo argenteo, sagomato come una campana e con oscure e profonde fessure per gli occhi.
“È inutile”, aveva detto, “non riesco a contattare la stazione per avvertirli del naufragio. Dobbiamo fare da soli”.
Il rettile era furibondo. “Dobbiamo andarcene”, sibilava. “Lo sai cosa può succedere, in questa città, anche solo fra trent’anni?”.
“E tu sai cosa succederà, sicuramente, in tutta questa terra, entro un secolo o poco più? Questa gente ci aiuterà a ripartire. Vuoi abbandonarla in questo modo?”
L’uomo guardava i due ondeggiare e affrontarsi davanti ai suoi occhi. Gli parve che il senso antico di quella visione si ricongiungesse stranamente con il suo incredibile presente. Un uomo, rivestito di metallo scintillante, che lottava contro un sibilante essere rettiliforme. Era chiaro quale fosse il consiglio da seguire.
I due continuavano a urlare.
“Uno sforzo del genere, col rischio di non riuscire in tempo, di non riuscire mai. E per quanti poi? Sarà un niente!”.
“Anche uno in più non è niente”.

Caterina era sdraiata sul materasso sottile, nella luce dolce della piccola lampada d’angolo. Apriva di tanto in tanto gli occhi, per il piacere di sentire le sue ciglia solleticare la gola del ragazzo, sulla cui spalla la sua testa riposava. Il braccio di Jordi la circondava, la mano sulla sua vita, al di sopra dell’intreccio delle loro gambe nude. La ragazza sospirò di contentezza. Era felice di essere lì, in quel momento, in quella stanza disadorna di un fatiscente bilocale nel cuore di quella città. Per la prima volta, dall’ondeggiante limite della sua infanzia, le sembrava che davanti a lei si stendesse una strada aperta e libera, e non l’ombra cupa dell’onnipresente muraglia di paura.
“Jordi”, mormorò.
Lui le accarezzò piano il fianco, senza parlare.
“Pensi che ci sarà davvero la guerra?”.
La mano la accarezzò ancora, dolcemente.
“Sì, penso di sì”.

L’uomo rientrò nella sua stanza ricavata all’interno del cantiere. Passava lì tutti i suoi giorni e le sue notti, ormai. La sua branda, nell’angolo dietro al tavolo da disegno, era occupata. L’essere con la faccia da rettile era disteso sulle lenzuola sgualcite, e beveva da una bottiglia di acquavite.
L’uomo si sedette e attese. Desiderava solo stendersi e dormire, ma sapeva che il suo visitatore non glielo avrebbe concesso facilmente. L’essere rimase infatti sdraiato sulla sua branda a lungo, apparentemente molto impegnato ad osservare il soffitto e a sorseggiare alcol. Infine si degnò di guardarlo, con le palpebre rugose abbassate a metà sugli occhi sporgenti.
“I lavori vanno a rilento”, disse.
“Era da prevedersi”.
“Infatti. Io l’avevo previsto”. La mano con tre dita gli si appoggiò sul braccio. “Sei sempre in tempo Antoni. Basta un centesimo della forza e del denaro che stai profondendo in tutto questo”.
L’uomo scosse disperato la testa. “Devo farlo”.
L’altro si alzò in un moto furioso. “Quel verme che ti soffia nelle orecchie vuole morire”. Andò alla porta, e prima di uscire si voltò con aria di incattivita minaccia. “E anche tu stai attento, Antoni”.

Caterina abbracciò freneticamente Alex e Sara. La settimana che aveva passato con Jordi era stata fantastica, ma si rendeva conto adesso di quanto le fossero mancati gli amici e di quanto si fosse preoccupata per loro. La città era abbastanza tranquilla, ma non erano mancati anche in quei giorni aggressioni, piccoli attentati, retate della polizia, notizie di dengue emorragico.
“Cavolo”, disse poi Sara a Caterina, sedute sul divano smollato della stanza di Jordi. “Ma dove lo hai pescato?”.
“Ho usato Kini come esca”, disse Caterina dando un pezzo di pane inzuppato nel vino all’animaletto.
“A qualcosa serve, allora, la bestiaccia”.
“Già”. Le ragazze si misero a ridere, mentre i ragazzi entravano nella stanza con le pentole fumanti.
“Pappa”, disse Jordi, mettendo la pasta sul tavolo “Dobbiamo tenerci in forze, stanotte non si dorme”.
“Perché?”, chiese Sara.
“Perché dobbiamo muoverci presto se domattina vogliamo essere dentro”, rispose Jordi. “Andiamo all’inaugurazione”.

L’uomo uscì dalla messa e si avviò per la strada, nella dolce sera di giugno. Si sentiva prostrato al di là del suo ormai abituale stato di prostrazione. Un lieve suono di passi risuonò prossimo alle sue orecchie e il giovane dagli occhi azzurri gli si pose al fianco. Camminarono in silenzio.
“Sono molto stanco”, disse l’uomo.
“Temo che ti abbiamo spronato oltre i tuoi limiti, Antoni”, rispose dopo un po’ il giovane.
“Ci sono le istruzioni, i disegni”, disse ancora l’uomo. “Se non dovessi farcela io, i miei collaboratori andranno avanti. Ma devi promettermi che li spronerai e li incoraggerai, loro e tutti…”, fece un gesto indicando la città, “…fino a che non sarà finita”.
Il volto del giovane si incrinò in una buffa smorfia colpevole. “Di questo non devi dubitare”, rispose.
“Attenti!!!”.
Un grido alle loro spalle. Si voltarono di scatto, e videro la testa di uno sferragliante tram elettrico a poca distanza da loro. Il giovane prese l’uomo per un braccio e lo trasse fuori dalla traccia dei binari. Ma proprio in quel momento la carrozza sembrò ondeggiare, fuori da ogni legge fisica, e l’uomo si rese conto con un brivido di orrore che la doppia linea argentea si contorceva sul selciato come un serpente e seguiva i loro piedi mantenendoli sempre al centro del tracciato. Alzò gli occhi alla cabina di guida e capì.
“No!”, urlò l’uomo, e dette una spinta improvvisa al suo compagno, mandandolo a cadere qualche metro più in là. Vide i binari contorcersi, incerti, e per porre fine a quell’incertezza fece un passo, deciso, verso l’onda metallica che ormai gli si precipitava addosso.
Uno schianto. La gente urlò, fece capannello. L’uomo vide gli occhi azzurri del giovane sopra di lui, pieni di orrore e sgomento, e pensò che il peggio lo aveva evitato. Sapeva di essere malamente ferito, ma non provava dolore. Chiuse gli occhi e la sua mente, per la prima volta in molti anni, riposò.

Verso mezzanotte c’era già folla davanti alla Facciata della Gloria, completata solo poche settimane prima. La fantastica sagoma delle torri riempiva l’aria blu della notte, le sirene laceravano le orecchie. Fra poco inizieranno a volare manganellate e spray paralizzante pensò Caterina, non ce la faremo mai. Ma Jordi fece cenno a lei, ad Alex e a Sara e li condusse verso la facciata della Natività. Attesero un momento in cui la polizia era tutta affaccendata dall’altro lato, il lato da cui alle sei del mattino si sarebbero aperte le porte, e scavalcarono rapidamente la cancellata esterna. Sara borbottava contro quella pazzia ma Jordi sembrava molto sicuro del fatto suo.
“E ora?”, disse Alex. Le entrate, da quel lato, erano ermeticamente chiuse. Il faro della macchina di ronda stava iniziando ad affacciarsi da oltre l’angolo. Jordi si avvicinò alla colonna che poggiava sulla tartaruga di pietra e toccò rapidamente e con sicurezza quattro o cinque punti, borbottando qualcosa fra sé. Si udì un rumore e i ragazzi videro con sbigottimento che una porticina alta circa un metro e venti si era aperta sulla superficie istoriata.
“Dentro, presto”, disse Jordi.

Il funerale fu impressionante. Una fiumana di persone vestite di nero accompagnava la salma dell’uomo a riposare nel luogo che mai avrebbe visto compiuto. “Ma lo sarà”, dissero le voci delle autorità. “Sarà compiuto”.
“Sarà bene per voi”, mormorò il giovane, perso nella folla.
Girovagò fra la gente, ascoltando i commenti. In molti giuravano di essere stati lì, proprio lì, quando era successo. Qualcuno, a mezza voce, raccontava che il conduttore del tram elettrico, fuggito subito dopo l’incidente, avesse una faccia stranamente deforme, addirittura simile a quella di una lucertola.
“Certi ubriaconi non dovrebbero nemmeno venirci, a un funerale”, udì commentare.

La porticina dava accesso a una stretta scala a spirale. Sembra di arrampicarsi dentro una conchiglia, pensò Caterina stupefatta, mentre salivano centinaia di gradini per giungere ad un’altra piccola porta. Uscirono. Si trovavano in un terrazzino interno, che si affacciava qualche metro sopra il loggione a metà altezza della chiesa. Davanti a loro le colonne traforate sembravano quasi respirare nel buio, una gigantesca foresta di pietra nella luce rifranta dalle inquietanti vetrate multicolori.
“È pazzesco”, sussurrò Caterina
“Ma non ci permetteranno mai di restare qui”, disse Sara.
“Ma sì”, Jordi parlava in tono molto tranquillo e Caterina ricordò all’improvviso da quanto poco lo conosceva. “Questo è un posto segreto. Non lo si vede, dalla chiesa, e nessuno sa che esiste, a parte me. E un’altra persona”.

La chiesa stava iniziando a riempirsi di gente. Il rumore quasi marino dell’onda della folla, là in fondo, svegliò Caterina dall’assopimento in cui era caduta. Alex e Sara dormivano, stravaccati sul pavimento del palchetto. Jordi era in piedi, le mani sulla balaustra. Kini era appollaiata vicino alle sue dita. Devo stare attenta che non si metta a svolazzare, pensò la ragazza. Guardò in giù, verso le persone che stavano entrando fra le colonne, sotto le grandi navate.
“Quanta gente ci starà qua dentro?”.
“Circa cinquantamila persone”, rispose Jordi con sicurezza. Poi continuò come fra sé. “Mi sarebbe piaciuto che potessero essere di più, ma già così è stato un compito quasi impossibile”.
Caterina non sapeva cosa dire. Jordi le accarezzò una spalla. “È ancora presto, comunque. La cerimonia dovrebbe cominciare solo fra qualche ora”.

Erano passate tre ore. Sara e Alex si erano svegliati, si erano guardati attorno con estatica meraviglia, avevano fatto girare una canna e avevano spiato la folla ridacchiando. Caterina taceva. Il volto di Jordi si faceva sempre più oscuro e nervoso. Poi, un rumore alle loro spalle li fece voltare di scatto. La polizia, pensò Caterina, mi sembrava strano.
La porticina si aprì e una figura alta e massiccia, rivestita di un abito di tela multicolore, si incurvò sotto lo stipite per entrare nel palchetto. Quando si rialzò i tre ragazzi urlarono di spavento e arretrarono il più possibile, in quello spazio ristretto. L’essere che era entrato era alto quasi due metri e aveva una terribile faccia da lucertola, squamosa e con occhi sporgenti che ora li fissavano con esasperato disgusto.

“Anche qui?”, disse quell’essere, con voce sibilante. “Non bastano quelli qua sotto?”.

Jordi fece un passo verso la creatura. In quel momento Kini prese il volo dalla spalla di Caterina e planò fra le mani del mostro.
“Kini!!!”.
Una risata, sempre con quella voce da serpente. “Voi terrestri siete davvero ingegnosi, anche se in un modo singolarmente stupido. Questa creaturina”, disse l’essere con la faccia da lucertola, accarezzando Kini sulla schiena in mezzo alle ali, “casualmente ha molti geni coincidenti con quelli della mia specie e credo venga attratta dal mio odore. E anche dal tuo”, disse, rivolgendosi a Jordi. “Anche se dall’esterno la tua razza assomiglia tanto a questi indigeni”.
Il giovane scrollò le spalle, ma Caterina vide con orrore che il suo volto era di nuovo cordiale e rilassato e che sorrideva all’alieno. “Cominciavo a temere che in tutti questi anni tu avessi trovato il modo di partire da solo”, disse Jordi.
“Ci ho provato. Ma non ho incontrato più nessuno altrettanto folle ed abile quanto il nostro amico”.
“Lo hai ucciso”. La voce di Jordi esprimeva dolore e deprecazione.
“Volevo uccidere te, ovviamente. Ma…”, concluse il rettile, avvicinandosi ad una delle decorazioni sul muro “…ormai ci siamo. Ho finalmente il tuo permesso?”.
Jordi gli si avvicinò, e sotto gli occhi dei ragazzi tuttora ammutoliti dalla sorpresa e dalla paura, pose la sua mano accanto a quella dell’essere mostruoso. Un settore del muro parve rientrare in se stesso e scorrere via. La mano a cinque dita di Jordi e quella a tre dell’essere svolsero una serie di operazioni incomprensibili attorno a comandi e controlli costruiti in lucida maiolica azzurra.
“Hai intenzione di spiegare loro cosa sta per capitargli?”, chiese l’alieno con la faccia di rettile.
L’essere dal viso umano si voltò verso i tre ragazzi. Aveva un’espressione di compassione e distacco. E, capì Caterina, non era un uomo. Omioddio.

“Lo so che non vi ho lasciato nessuna scelta”, disse sottovoce Jordi a Caterina. “Ma non ne avreste avute neanche restando qui”. Poi si portò un tassello di ceramica colorata davanti al viso, e parlò. La sua voce rimbombò nelle navate della chiesa:

“Scusate l’imprevisto”. Caterina pensò alle persone giù, al loro folle spavento. “Questa struttura, che voi conoscete come Sagrada Familia, partirà fra pochi minuti per un viaggio spaziotemporale, che consentirà ai piloti di tornare a casa e a voi di sopravvivere alla prossima devastazione del vostro pianeta. Per evitare il panico e consentirvi di superare il viaggio, vi informo che sarete posti tutti in stato di animazione sospesa… a partire da adesso”.

Il rettile girò una manopola. Caterina si lasciò scivolare a terra, accanto ad Alex e Sara che piangevano come fontane. Buona idea. Cominciò a piangere anche lei, in singhiozzi disperati.

La fantastica struttura si levò nel cielo della città e del mondo. Le colonne vibravano e frusciavano, le spirali ruotavano rincorrendosi lungo le torri. Restò sospesa un attimo, nella sua magnificenza, sopra la terra che stava abbandonando. Quindi scomparve.

Racconto pubblicato nell’antologia del Premio Rill Sognando Mondi Incantati, Nexus Editrice, (2006)